Ci sono scogli blu

e lame

e muschi

dentro i suoi occhi.

 

Ci sono secoli

tra le rughe di questa fronte

e voci sagge

e pulsioni ribelli.

 

E vita corre

e chiama

la mia matrice

la mia forza più antica

la trasparenza primitiva

della mia luce.


Laura

Nel movimento muove

forte

fiera

tramando poesia dalle stelle

Medusa

con crine infinito

la terra prende la sua forma.

Indomabile

occhio

disordine

infinita dolcezza

la nettezza di una magia

sapienza antica

e piedi lunghi

per camminare

verso

la vita.


Esiste un uomo

fatto di terra e luce

con mani tanto forti

da toccare le mie lacrime.

 

Esiste un uomo

con la dolcezza

pura

dentro gli occhi

e una ruga sapiente ride

accanto alle sue labbra.

 

Esiste un uomo con pensieri d’argento

e il suo ventre è calmo

di acqua profonda.

Esiste un uomo che parla ai miei fianchi

e sa accarezzare capelli di bimba.

 

Esiste

e conosce segreti

e legge i miei occhi

e il suo respiro profuma

e io

lo amo

lo amo

lo amo.


 

Il cilindro

 

Se mi trovassi accanto le tue sopracciglia

io ti vorrei baciare gli occhi

e non le labbra

per sapere sulla mia bocca

cos’hai nel futuro

e quali sogni ridono

dalla tua anima.


E d’improvviso tutte le parole in un solo momento

come potessero emergere

dal profilo grigio delle montagne

lanciate dalla luce

fuori dai rami

tra ricordi di asfalto

e nuvole di rondini.


La sposa

L’ho percepito quando ero seduta davanti alla specchiera di mia nonna. Su quella sedia antichissima che chissà come ha mantenuto nel tempo la sua morbidezza. La seta si è consumata in alcuni punti ma quando posi il tuo peso su quel cuscino puoi sentire che lui ti accoglie, ancora forte e soffice allo stesso tempo, come i muscoli di un uomo che ti porta in braccio.

Su questa sedia si sono appogiate sette generazioni di donne, per dare l’ultimo sguardo al loro trucco sugli occhi e al vestito bianco, che fosse perfetto addosso, come una benedizione. Si sono salutate prima di alzarsi, uscire ed essere accompagnate in chiesa, appoggiate al braccio del proprio padre. Per chi lo aveva.

Il mio quella mattina era elegantissimo, come sempre ma se possibile, di più. Ho guardato il legno lucido del tavolo di quel color miele striato, quasi come un topazio, ho scrutato dentro i miei occhi simili nel colore e non ho trovato la risposta che aspettavo.

Il corpetto mi stringeva troppo. Avevo la percezione di distinguere ogni costola e la distanza che c’era tra ognuna di loro e i miei polmoni. Nella testa avevo un’eccitazione bianca anch’essa, come se ci fosse spazio vuoto e sopra, quello spazio si spingevano a vicenda pensieri che non avevo invitato.

Non lì. Avevamo conversato tante volte e ci eravamo salutati risolti e sollevati. Tutto si era fatto chiaro, semplice, limpido e non avevamo più avuto bisogno di incontrarci.

Inaspettatamente invece, si erano presentati in quel momento tutti insieme. La luce che sembrava battermi addosso in modo delicato, aveva avuto l’impudica idea di mostrarmi una ruga, che avevo sul decoltée. Ma una ruga che era lì da sempre, da quando avevo vent’anni. Mi ero bruciata al sole siciliano, in una troppa ardita gita in barca. Da allora non era più sparita e io con la mia pelle irlandese che assorbe tutto, anche le emozioni di chi mi siede accanto, me l’ero portata in giro fino ad oggi, per dieci anni, sentendomi mezza anziana e mezza bambina.

Avevo il respiro un po’ affannato e le gambe piene di un senso di felicità che somigliava all’acqua minerale.

  • Guarda che è tardi. Sei pronta?

Mio padre bussava alla porta.

  • Arrivo.

Non c’era nulla da fare, era tutto a posto, tutto perfetto. Ma non ero dentro a quel vestito. Il mio corpo si, ma a me sembrava di essere sospesa in aria e guardare la scena dall’alto.

Mi sono alzata e ho camminato verso la porta come ci si alza per ballare un tango con qualcuno che ti invita con molta convinzione ma non è l’uomo che speravi ti venisse a prendere.

Tutta la mia vita, così.

Ci avevo pensato migliaia di volte, se farlo, non farlo… Avevo fatto ogni tentativo possibile per rintracciare in me una sorta di desiderio autentico, qualcosa che non fosse imposto dal coro delle voci borghesi della sicilia per bene ma nemmeno da quelle di chi, solo perché aveva vissuto il sessantotto, si era convinto di detestare cose che forse amava.

E a un certo punto era arrivato lui. Quell’amore mi aveva semplificato la vita, mi oltrepassava era più forte, tanto più forte della mia testa e avevo respirato, camminato per mano.  Quella voce così insistente: “ Tu non ti puoi adattare a questo. Non sei questa. Il matrimonio, servire un uomo, inseguire i figli… Ricordati. Non ti dimenticare…” per qualche anno quella voce si era data pace. L’avevo fatta chiacchierare con tutte le amiche sposate, con le mamme felici. Con quelle donne che mi raccontavano con gioia la loro fierezza, quando la camicia stirata alle due del mattino, era impeccabile, sul petto del loro eroe.

Lui usciva inamidato, andava nel mondo, raccoglieva battiti di ciglia e distribuiva sorrisi.

Loro finivano con l’argomentare alacremente sulla consistenza dei rigurgiti, che un giorno si sarebbe trasformata in quella dei voti a scuola e improvvisamente tra le loro braccia e sulle loro spalle, in questa terra arcaica pregna di leggi fatte dagli uomini, si riversavano non solo i propri genitori, che fino a qualche giorno prima occupavano un posto dignitosamente distante, ma anche quelli dell’amato, che ora, come quando avevamo quattro anni, bussavano alla porta del bagno.

Mio padre ha affittato una Rolce Roice per accompagnarmi in chiesa. L’ha presa grigia con i sedili in pelle bianca.

Mi guarda dal paradiso, adesso che io gli siedo accanto e mi sorride.

Il suo diamante, ciò che ha di più caro al mondo la sua prima ed unico genita, occupa il sedile di fianco della più bella macchina esistente al mondo, il suo mondo. Le punte delle scarpe bianche si stagliano sul fondo scuro della carrozzeria, spuntando dalla nuvola di toulle della sua gonna, come i gli occhi grandi che si fanno spazio tra una piega e l’altra del velo per cercare le rughe del suo volto.

Non ho potuto farci niente. Non avrei mai voluto.

Non lasciare l’uomo che mi aspettava all’altare, bellissimo, generoso, innamorato. Non l’altro uomo, che guidava al mio fianco, onesto, coraggioso, infaticabile.

Ma non ho potuto.

La macchina rallenta, sta per fermarsi. Il cuore mi è arrivato in gola come il tappo di uno champagne che è rimasto incastrato nella cassa, dopo essere esploso dalla bottiglia. Nelle gambe non ho più acqua minerale ma adrenalina pura, come se mi ci avessero appena piantato un’iniezione di emergenza.

Gli ho fatto un sorriso. Forse un po’ amaro, che era l’ultimo ma ho cercato di mettere negli occhi quella vertigine di gratitudine che hanno quelli a cui è stata concessa all’ultimo istante la libertà.

Non so se lui li ha visti, la gratitudine e il sorriso.

Il mio piede destro si butta fuori dallo sportello, che il braccio gli ha già aperto. Afferra la strada in movimento, come fanno le lame dei pattini sul ghiaccio. Il velo che ho in testa si strappa e rimane attaccato alla macchina ma il bouchée bianco meraviglioso, è stretto tra le mie dita.

Corro e volo. Volo e corro.

Decine di lastre di pietra bianca antica sotto i miei piedi. Abbandono le scarpe che restano incastrate  tra un lastricato e l’altro. Ai miei fianchi sfumano i palazzi umbertini del corso di Modica, barocchi, borbonici, meravigliosi, carichi di storia attonita di fronte alla mia scelta.

Corro e volo. Volo e corro.

Sento il sudore che mi cola lungo la schiena, mi volto e vedo sette generazioni di donne che mi salutano.

Sono schierate in fila con i loro abiti bianchi. Lanciano manciate di petali di rosa, sorridono, mi benedicono, mi ringraziano e piangono, mi battono le mani e tirano baci, come manciate di sabbia profumata, come incensi magici, canti di buon auspicio.