IL CIOTTOLO E L’ONDINA
Se ne stava là sotto il sole in riva al mare nella baia di Portonovo (*).
Era un bel ciottolo bianco e levigato anche se la vita sedentaria l’aveva reso un po’ tondeggiante.
Amava osservare l’azzurro del cielo sopra di sé ed il mare che si stendeva davanti.
Quel giorno se ne stava sonnecchiando a godere i raggi del sole che lo scaldavano tutto dandogli una sensazione di benessere.
(*) Nella Riviera del Conero, alle falde del monte omonimo, in provincia di Ancona.
Ad un tratto alcune gocce d’acqua di mare lo fecero destare dal torpore che lo aveva invaso e sentì una risatina scherzosa.
Si guardò attorno e vide un’ondina che lo stava osservando.
“Ciao!”, gli disse e fece l’atto di allontanarsi dalla riva … poi, improvvisa, gli si rovesciò addosso bagnandolo tutto, in una schiuma iridescente.
“Cosa fai?! Lasciami tranquillo!”
Ma ella, maliziosa, gli girò attorno e si ritrasse nuovamente verso il mare portando la sua spuma bianca con sé.
Egli la guardò meglio.
Era proprio una splendida ondina. E sì che in tutti quegli anni trascorsi sulla riva della baia di Portonovo ne aveva viste passare molte!
Ma questa aveva qualcosa di diverso.
Il modo come lo guardava, come si muoveva, così flessuosa mentre sormontava la superficie del mare ondeggiando un po’ a destra e un po’ a sinistra per andare poi ad infrangersi a riva e lasciarsi risucchiare di nuovo al largo …
Il ciottolo le sorrise ed ella lo ricambiò con uno sbuffo di schiuma che il sole colpì ed illuminò di tutti i colori dell’arcobaleno.
Qualcosa si scaldò nel ciottolo, e questa volta non erano i raggi del sole. Era qualcosa di ben diverso che non aveva mai provato.
“Vieni!”, la chiamò.
“No che non vengo!”, gli rispose con un’aria impertinente e poi si girò verso il largo senza perderlo di vista. Quando vide che il ciottolo si stava rabbuiando, si girò dolcemente, come con indifferenza, e poi ridendo si gettò di nuovo a riva dove lo sommerse completamente.
“Ma sta’ un po’ ferma! Ce l’hai con me?”, esclamò il ciottolo con fare risentito, mentre in realtà provava ben altre emozioni.
Ma ella continuò in un andirivieni insistente.
“Ti bagno o non ti bagno? Questo è il problema!”
Il gioco andò avanti tutto il giorno tra fughe dell’ondina e rimbrotti del ciottolo, i quali però ogni volta ne ridevano insieme spensierati.
Giunta la notte l’ondina gli disse:
“Devo andare!”
“Tornerai domani?!, le chiese con un tono di attesa.
“Chissà? Vedremo!”, gli rispose con un fare malizioso.
Il giorno dopo, fin dalle prime ore, il ciottolo si mise ad aspettare l’ondina. Cercava di guardare al largo, fin dove poteva, per vedere se riusciva a scorgerla.
Pensò mille volte “Non viene, mi sono illuso. Vatti a fidare delle ondine!”
Ma poi sentì una risatina ed un abbraccio d’acqua lo avvolse tutto.
Era l’ondina che per fargli uno scherzo se ne era arrivata lungo la riva anziché dal largo, in modo che egli non potesse vederla fino all’ultimo momento.
“Ah, sei qui?!”, fece il ciottolo con indifferenza mal celata.
“Sì che son qui! Ero contenta di venirti a trovare e di stare un po’ con te. Ho tardato perché sono stata trattenuta dalle altre ondine.”
Anche quel giorno i loro giochi si prolungarono con gran divertimento. Ed ugualmente nei dì successivi …
L’estate ormai stava per finire.
Una mattina l’ondina guardò il ciottolo tutta preoccupata.
“Cosa c’è?!”, le chiese.
“Fra poco cominceranno i temporali d’autunno e poi verrà l’inverno. Me ne dovrò andare lasciando posto alle onde più grandi!”
“E noi?”, le domandò.
“Non so, mi dispiace! Forse la prossima estate!”
“Ah, se solo potessi seguirti!”, esclamò il ciottolo. “Ma come faccio? E’ impossibile!”
Ad un tratto l’ondina, che pensierosa lo stava accarezzando con la sua schiuma di bollicine, esclamò:
“Aspettami! Forse c’è una possibilità.”
Detto questo si tuffò, attraversò tutta la baia e arrivò nel profondo del mare aperto dove si trovavano i suoi fratelli più grandi: i cavalloni.
Parlò a lungo con loro.
Quella notte a Portonovo ci fu una tempesta terribile.
Onde gigantesche si abbattevano sulla baia con un rumore tremendo.
Tuoni e fulmini illuminavano ogni tanto il paesaggio sconvolto dalla furia degli elementi.
Sembrava la fine del mondo …
La mattina dopo era di nuovo sereno ed il sole splendeva alto nel cielo.
Lì, sulla riva, il ciottolo non c’era più.
C’è un posto a Portonovo dove l’estate mi immergo a fare pesca subacquea.
Molte volte ho notato sul fondo un bel ciottolo, levigato e un po’ tondeggiante.
Ma quello che attira di più la mia attenzione è che vicino a lui c’è uno sbuffo d’acqua, come un’ondina, che lo accarezza ogni volta …
L’INCANTESIMO DEL CORBEZZOLO
Quando vado a fare le mie passeggiate sul monte Conero (1) dopo essermi incamminato per i sentieri che lo intersecano, ogni tanto mi fermo ad ascoltare.
Ed allora, tra il canto degli uccelli, il vociare degli escursionisti, il bisbigliare appartato degli innamorati, si sente tra le fronde lo stormire del vento che, girando fra un albero e l’altro, ne raccoglie le storie e le porta con sé.
E’ proprio prestando attenzione alla voce del vento che un pomeriggio d’estate sono venuto a conoscenza di quello che sto per raccontarti …
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(1) Il monte, nella Riviera del Conero in provincia di Ancona, si trova al centro del Parco regionale omonimo (8500 ettari) istituito nel 1987. E’ uno splendido ambiente naturale, relativamente integro e, coperto da fitto bosco e da macchia mediterranea, presenta specie floristiche e faunistiche rare. Numerosi sono i sentieri segnalati ed i punti panoramici con straordinarie viste sulla costa e sull’entroterra marchigiano (da “Guida rapida d’Italia” del Touring Club Italiano).
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Ai tempi dei maghi e delle fate, nel piccolo borgo di Sirolo (2) vivevano due giovani innamorati.
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(2) Situato in posizione panoramica sul versante meridionale del Conero, il paese ha impianto medievale (da “Guida rapida d’Italia” del Touring Club Italiano).
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Piera, la figlia del fornaio, aiutava in bottega. Bionda come il grano maturo, i suoi occhi brillavano simili alle stelle nel cielo.
Franco faceva il fabbro e con i suoi lavori provvedeva ai bisogni del paese. Il fuoco della forgia e il sole gli conferivano un aspetto forte e sano ed una carnagione abbronzata.
Piera, quando usciva con la cesta del pane da portare nelle case, allungava un poco la strada e “si trovava” a passare davanti all’officina di Franco, per scambiare due chiacchiere insieme: una battuta scherzosa, un sorriso, uno sguardo innamorato rendevano ancor più saldo il loro affetto.
Una volta finite le consegne, se ne ritornava in bottega e si metteva a sfornare panini e pagnotte con un’allegria ed una gioia di vivere che manifestava cantando.
Aveva una voce melodiosa Piera e gli abitanti del paese, che condividevano benevolmente il loro affetto sereno, dicevano scherzando che quel pane aveva più sapore perché condito con amore.
Lei allora arrossiva e si schermiva ridendo.
La domenica, o nelle pause di riposo, i due giovani si avventuravano sul monte Conero a scambiarsi effusioni e tenerezze così come, da che mondo è mondo, hanno sempre fatto e si spera continueranno a fare gli innamorati.
Mano nella mano passeggiavano tranquilli lungo i sentieri e sui prati, raccogliendo fiori e facendo progetti.
Tutt’intorno ginestre d’oro illuminavano il loro passaggio e profumavano l’aria di mille fragranze.
Sulla vetta del monte Conero viveva in una grotta un mago malvagio, dedito a pratiche di magia nera: tutti lo schivavano evitando in ogni modo di passare da quella parte per non incontrarlo.
Un giorno, scendendo più a valle alla ricerca di erbe con cui preparare le sue pozioni, il mago vide Piera che, per raccogliere fascine per il forno, si era addentrata nel bosco insieme alle sue amiche.
La sua bellezza lo colpì a tal punto che una passione violenta lo prese.
“Quella ragazza deve essere mia!”, pensò nel suo perfido cuore.
E da allora la sua mente escogitò ogni mezzo pur di raggiungere quello scopo malefico.
A volte se ne stava ore intere ai margini del bosco, da cui si scorgeva il paese, per vedere se Piera usciva da sola così da avvicinarla e rapirla.
Ma la ragazza era quasi sempre con le sue amiche o in compagnia di Franco.
La vista dei due giovani scatenò una gelosia ossessiva in lui, non potendo ottenere quello che si era prefissato.
Finalmente un giorno il mago riuscì ad avvicinare Piera: la afferrò per un braccio e cercò di trascinarla via.
“Ti voglio!”, le disse con una voce che la fece rabbrividire, mentre la stringeva sempre più a sé.
La paura moltiplicò la forza della fanciulla, che lo colpì al viso e gli graffiò una guancia con le unghie.
Il dolore lo costrinse a lasciarla e, nel momento in cui si toccava il volto rigato di sangue, Piera ne approfittò per scappare e rifugiarsi nel paese.
La gente che la vide così spaventata gliene chiese la ragione ed ella raccontò l’accaduto.
Alcuni, armati di bastoni, si lanciarono all’uscita del paese per allontanare il mago che, appena li vide, scomparve per incanto in una nuvola di fumo.
Da quel giorno Piera usciva dal paese il meno possibile e, le poche volte, era sempre con Franco, il quale si era ripromesso in cuor suo di fargliela pagare cara se ci avesse riprovato.
“Fa che mi capiti davanti e non la passerà certo liscia!”, aveva detto una volta.
“No … ti prego, Franco, lascia perdere! Lo sai che è malvagio ed ha dalla sua la forza dell’incantesimo!”, la ragazza era molto preoccupata.
Passò altro tempo e del mago non si sentì più parlare.
Ma questi non aveva certo dimenticato Piera e la sua rabbia si era ancor più esasperata.
Un giorno che se ne stava come al solito a spiare, la sorprese da sola fuori del paese e le si avvicinò per portarla via con sé.
In quell’istante sopraggiunse Franco e la giovane si lanciò verso di lui abbracciandolo stretto stretto per cercare protezione.
Il mago, quando li vide, capì che non avrebbe mai potuto dividere il loro amore:
“Se è questo che volete, siate allora uniti per sempre e diventate una cosa sola!”
Detto questo, alzò la mano destra e tracciò dei segni nell’aria mentre pronunciava una formula magica.
Ed ecco che Piera e Franco sentirono le loro membra irrigidirsi e farsi di legno: i piedi si trasformarono in radici che sprofondarono nel terreno, le gambe, i corpi divennero pian piano fusti legnosi e, avvinti com’erano, si fusero in un unico tronco. Le braccia si protesero verso il cielo come a cercare aiuto, e si tramutarono in rami nodosi che lentamente andarono ricoprendosi di foglie.
“Ecco!” inveì contro di loro il mago. “Così rimarrete per sempre! Ma, per rendere ancora più duro il vostro tormento, voglio che tu, Piera, con quel tuo viso così dolce e delicato, ti trasformi nei fiori di questo albero… e tu Franco, dalla pelle più ruvida ed abbronzata, ne diventi i frutti. E perché possiate ricordarvi sempre di me, contrariamente alle altre piante nelle quali prima spuntano i fiori e questi poi si trasformano in frutti, vi ritroverete insieme nello stesso periodo e, guardandovi, il vostro tormento sarà immenso.”(3)
Appena il mago ebbe proferito queste parole, i visi dei due giovani fiorirono e fruttificarono: fiori pallidi e delicati, frutti rossi e scabrosi all’esterno.
L’opera malvagia era compiuta.
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(3) Nel corbezzolo, in certi periodi, coesistono i fiori dell’anno precedente con i frutti di quello in corso. I fiori, bianco crema, sbocciano da novembre a febbraio in radi e corti grappoli, mentre i frutti, commestibili, rotondi e scabrosetti, di un colore rosso giallastro e grandi come una grossa ciliegia, maturano nel tardo autunno dalla fioritura dell’anno precedente, contemporaneamente alla nuova fioritura. (dall’ “Enciclopedia Europea Garzanti”)
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Mentre avveniva tutto questo una bimba, che se ne stava poco distante ma nascosta alla vista del mago, aveva seguito la scena.
Spaventata, corse piangendo in paese e raccontò l’accaduto.
La voce si sparse in un attimo: uomini e donne, armati di falci, bastoni, forconi e coltelli, guidati dalla piccola si diressero verso il luogo dell’incantesimo per farla finita con il mago.
Questi, vedendo la folla inferocita che incalzava sempre più, fuggì verso la vetta del monte Conero, arrivò in cima ad un costone dove il monte si spezzava e precipitava nel mare, ed era sul punto di compiere una delle sue magie, quando all’improvviso tra lui e la folla apparvero due lampi accecanti!
Devi sapere che, al momento della nascita, sia Piera sia Franco avevano avuto per madrine due fate buone, che erano sorelle.
Queste si trovavano in un’altra parte del mondo quando il mago aveva operato l’incantesimo contro i due giovani, ma per il legame misterioso che si crea fra le persone che si vogliono bene, pur nella lontananza le fate con raccapriccio avevano percepito e vissuto momento per momento quella metamorfosi.
Viaggiando con la magia erano finalmente arrivate ed ora si trovavano di fronte il colpevole di quell’orrendo misfatto.
Alla loro vista la folla si fermò, pronta ad intervenire in caso di necessità.
“Sii maledetto … “, esclamò la più anziana. “Tu e la tua magia possiate scomparire nei secoli!”
Pronunciando una formula misteriosa, le due sorelle alzarono le braccia verso di lui: dalle loro mani partirono dei fulmini che lo avvolsero in un campo di energia buona, tale da annullare la sua malvagità, e lo sollevarono da terra con queste parole:
“Sprofonda per sempre negli abissi marini!”
Con un urlo raccapricciante il mago precipitò dall’alto del monte e scomparve in fondo al mare.
Ed ecco che le fate colpirono il terreno con i piedi: due blocchi immensi si distaccarono piombando sopra il mago in modo da schiacciarlo per sempre.
Anche oggi le due rocce sono lì sotto il Conero e la tradizione popolare le ha sempre chiamate “le due Sorelle”(4).
(4) Alcune immagini degli scogli delle “due sorelle”
Compiuta la loro opera le fate, seguite dagli abitanti, si diressero verso il prato dove era l’albero, frutto del maleficio operato sui due giovani.
“La nostra magia non è così potente da riuscire ad annullare il sortilegio che vi è stato scagliato contro, ma una cosa ci è possibile fare: limitarlo nel tempo sconfiggendo il male con l’amore.
Poiché vi siete voluti bene ed è per questo che vi trovate avvinti, quando mille coppie di innamorati si saranno baciate sotto la vostra pianta l’incantesimo sarà sciolto e voi tornerete ad essere liberi.
Il nome di questo albero sarà “corbezzolo” e come tale si moltiplicherà per tutto il monte Conero (5), perché anche così dal vostro amore possano nascere frutti copiosi!”
Pronunciate queste parole, le due sorelle sparirono.
Sono passati secoli e secoli.
Le fate ed i maghi, ormai scomparsi dalla faccia della terra, hanno trovato un mondo dove ancora qualcuno crede in loro.
Il corbezzolo si è sparso per tutto il monte, ma l’albero della storia è là che sta ancora aspettando.
A proposito!
Ascoltando la voce del vento io so per certo che finora si sono baciate sotto di lui novecentonovantanove coppie …
Chissà quale sarà quella che finalmente scioglierà l’incantesimo?!
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(5) Diversi autori si sono occupati dell’etimologia del nome Conero. Fra le varie ipotesi circa la sua origine c’è chi la fa risalire al vocabolo greco Comaros = corbezzolo. Quindi , per derivazione e successivi passaggi rilevabili da diversi testi scritti, Comaro – Conaro ed infine Conero starebbe a significare il “monte dei corbezzoli”. Così affermano Mittarelli e Costadoni: “Mons appellatur Cònerus a multiplicitate arborum, quas Còneros vocant”. (Vedi “Guida del Monte Conero” di Francesco Burattini, pag. 42)
L’ALBERO DI NATALE
Antonio ed Anna erano una coppia come tante.
Avevano superato ormai entrambi la quarantina e non avevano figli. Avevano sperato tanto e si erano rivolti a tanti specialisti ma il loro sogno era svanito.
Si trovavano nella fase in cui , pur nella certezza dell’impossibilità di aver figli, non riuscivano ad accettare l’eventualità di un’adozione.
E così si preparavano a passare un altro Natale.
Gli impegni di lavoro li avevano costretti a rimandare fino alla vigilia l’acquisto dell’albero. Ogni anno infatti sceglievano un bell’abete che poi, finite le festività, piantavano in un terreno fuori città sui fianchi di una collinetta di proprietà di un amico di Antonio.
Quel pomeriggio si diressero subito verso la piazza della città dove abitualmente sostava il venditore di abeti.
Giunti all’angolo videro un bambino di circa otto anni che chiedeva la carità. Era vestito solo di una giacca che teneva chiusa fino al collo con una mano per ripararsi dal freddo e portava un paio di jeans consumati e scarpe da ginnastica.
I due si avvicinarono e gli diedero cinquanta euro:
“Possa anche tu passare un Natale migliore!”, poi Antonio aggiunse “Aspetta…!”
Pochi metri più in là c’era un venditore di caldarroste. Ne comprò un cartoccio che porse al bambino:
“Tieni, queste serviranno a scaldarti. Almeno per un po’!”
Quindi si diressero verso il venditore di abeti.
Mentre sceglievano un albero e guardavano quelli che ai loro occhi sembravano più belli, una voce alle loro spalle esclamò:
“Prendete quello!”
Si voltarono e videro che il piccolo mendicante li aveva seguiti e ora, con lo sguardo sorridente, indicava loro un abete là in un angolo. Era stato messo in disparte perché a vederlo non era per niente bello, “striminzito” com’era.
“Ma ce ne sono di più belli!”, esclamò Anna stupita dalla richiesta del bambino.
“Mi piace quello!”, ripeté il piccolo.
Sembrava loro scortese non accontentarlo, per cui si guardarono negli occhi e con un sorriso si capirono senza dir parole.
“Va bene. Allora prendiamo questo!” dissero al venditore. Pagarono e con l’abete sotto braccio si girarono verso il bambino. Ma questi se n’era andato.
Arrivati a casa piantarono subito l’alberello in un vaso grande pieno di terra che tenevano per l’occasione. Lasciarono l’abete all’aperto in terrazzo per non farlo inaridire dal caldo dell’appartamento. Cominciarono ad addobbarlo con palle di vetro multicolori, con luci intermittenti e fili argentati.
Quindi guardarono la loro opera soddisfatti.
Abitavano al piano rialzato, il terrazzo dava direttamente sulla strada ad un’altezza di circa un metro e l’alberello era come un punto di riferimento per la gente che passava di lì.
Rientrati in casa si misero a cenare, poi Anna riassettò la cucina ed insieme si recarono in sala dove in un angolo Antonio aveva predisposto un tavolo per sistemare il presepio.
La capanna, le casette con il muschio, gli alberi, le luci, il ruscello con il laghetto di carta stagnola erano già al loro posto.
Anna aveva cominciato a sistemare le statuette: i pastori, le pecorelle, gli abitanti del villaggio … I re magi li metteva distanti dalla capanna perché aveva l’abitudine di farli avanzare un po’ ogni giorno fino al sei Gennaio, data in cui li collocava davanti al bambino, come a ripercorrere le tappe del loro viaggio dall’estremo oriente.
Aveva messo anche il bue e l’asinello, Giuseppe e Maria, ma non ancora il Bambino Gesù. La tradizione che le era rimasta fin da piccola le diceva che il bambino doveva essere collocato nel presepio allo scoccare della mezzanotte.
Finito il presepio collocarono ai suoi piedi le scatole dei regali che si sarebbero scambiati il giorno di Natale e che ognuno per proprio conto aveva scelto con attenzione, cercando di prendere qualcosa che sarebbe stato gradito dall’altro e con la certezza di poterlo fare felice.
Il regalo doveva essere una sorpresa!
Mancavano pochi minuti a mezzanotte.
Antonio e Anna, che stringeva fra le mani la statuetta di Gesù Bambino, si avvicinarono al presepio. Ad un tratto Anna inciampò nel tappeto posto in sala e per trattenersi fece cadere la statuetta di gesso che si ruppe in mille pezzi.
“Come sarà questo Natale senza Bambino?!”, esclamò Anna che si bloccò di colpo.
Le parole appena dette le ricordarono che non potevano avere bambini e mai ce ne sarebbero stati. Lacrime silenziose presero a scorrerle lungo le guance, mentre Antonio che aveva capito quello che stava passando nella mente e nel cuore della moglie la stringeva a sé cercando di consolarla.
“Su, non fare così! Ti capisco sai.”
Ed ecco che dalla terrazza si udì un pianto di bimbo.
Uscirono all’aperto e con meraviglia trovarono deposto sotto l’albero di Natale un bambino di pochi mesi, avvolto in una coperta.
Si guardarono subito intorno e Antonio si sporse dalla ringhiera della terrazza per vedere se scorgeva qualcuno. Ma non vide nessuno.
Anna prese il bambino e insieme rientrarono in casa.
Il bimbo, rassicurato dalle braccia che lo stringevano, si era calmato e ora li guardava sereno.
Sulla coperta trovarono un biglietto appuntato con una spilla da balia:
“Sono Emanuele (*). La mia mamma non può tenermi con sé ed io ho tanto bisogno di affetto. Vogliatemi bene!”
Anna e Antonio si guardarono con gli occhi lucidi e si abbracciarono, con il bimbo fra loro.
“Sarà nostro figlio!”, esclamò Antonio.
“Oh, sì!”, sorrise Anna baciando il piccolo sulla fronte.
Tutti e tre uniti in un unico abbraccio si diressero verso l’angolo della sala dove stava il presepio per ringraziare il Signore e …
Nella capanna, sul piccolo mucchio di paglia fra Giuseppe e Maria c’era un Bambin Gesù di gesso.
Il suo viso sembrava sorridere e stranamente somigliava al piccolo mendicante che aveva scelto quell’albero di Natale.
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(*) Emanuele in ebraico significa “Dio è con noi”
LO STORNO … STORNO
Era uno storno balordo.
Ma che dico balordo!
Vivace, imprevedibile, mutevole, volubile e volitivo allo stesso tempo, strano, fantasioso, pazzoide, spavaldo, impetuoso, ecc. ecc. … insomma, per dirla con una parola che si usa dalle mie parti allo scopo di definire un carattere soggetto a cambiamenti di umore repentini, era “storno”.
Là, dall’autunno fino alla primavera, nel cielo di Roma, sopra la piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini, stormi di uccelli si riunivano tutte le sere all’imbrunire a cercare un posto sui pini dove passare la notte.
La gente osservava le loro evoluzioni su nel cielo, incuriosita, stupita, ma anche preoccupata di qualche bombardamento di escrementi.
Erano passeri, per la maggioranza, ma c’erano anche alcuni merli e centinaia di storni. Ogni stormo era guidato da un capogruppo che dirigeva le evoluzioni fatte per avere il diritto di scegliere il posto migliore, più riparato, sugli alberi.Lui no, era indipendente. Da tempo il suo carattere così autonomo e impulsivo lo aveva allontanato dal proprio gruppo di origine e, una volta “libero”, aveva gridato al vento questa sua libertà.Ricco di fantasia, era lui che si gettava improvviso nel mezzo di uno stormo che si |
stava riunendo compatto e creava uno scompiglio tale che tutti si allargavano in volo nuovamente. Nel frattempo lui era piombato nel bel mezzo di un altro stormo che per disperdersi si scontrava, mescolandosi, con il gruppo precedente. Ed allora succedeva un putiferio e tutti lanciavano i loro trilli per chiamarsi, riconoscersi, riunirsi … ed intanto lui volando, girava la testa a vedere il caos che aveva combinato e cantava allegro tuffandosi in picchiata in un altro stormo che stava sopraggiungendo.
E la baraonda ricominciava.
Ma per coloro che sapevano ben guar-dare e che dalle pedane della fermata degli autobus ingannavano l’attesa osservando le evoluzioni degli uccelli, quello che acca-deva su nel cielo non era caos. Sembrava come se una armonia unica scorresse su un pentagramma musicale. Non erano i trilli acuti dei passeri, degli storni e degli altri uccelli che davano questo senso, anzi erano talmente eccitati che sembrava di essere in una bolgia infernale.Era il movimento di tutti gli stormi che dava questo senso armonioso, come se una musica li guidasse nelle loro evoluzioni. |
Era come una sinfonia in cui ogni gruppo di strumenti si distingueva, si fondeva, si esaltava, si sfumava, esplodeva da un andantino ad un andante veloce con brio, ad un crescendo che poi si ricomponeva in toni più lenti salvo poi riprendere immediatamente a crescere.
Era un’orchestra che suonava ed i branchi di uccelli su nel cielo si muovevano sotto la bacchetta di un maestro.
Ed il maestro era lui!
Era vecchio, Pietro, ormai!Aveva compiuto da pochi mesi ottanta-cinque anni.Le gambe non lo reggevano più.Anche per casa era costretto a camminare appoggiandosi ad un bastone, ma ogni mobile, ogni maniglia, ogni sporgenza erano per lui l’occasione per fermarsi a riprendere fiato.Ma quello che più di tutto lo preoccupava era il “padrone di casa”: il cuore.Quel cuore che da giovane era stato così serio e giudizioso, ora, in vecchiaia, faceva pazzie e |
ogni tanto “perdeva” i colpi, il ritmo degenerava e Pietro era costretto a mettersi seduto sulla poltrona, lì, vicino alla finestra, dove riprendeva un po’ di fiato … ed una pillola che gli aveva dato il dottore. Ormai non usciva più di casa.
Per fortuna una signora che abitava al piano di sotto gli faceva la cortesia di comprargli quello di cui aveva necessità.
In verità non era che avesse più bisogno di tanto: un po’ di minestrina fatta col brodo di dadi però la faceva tutti i giorni, un formaggino, un po’ di frutta, una bella tazza di latte caldo per cena con qualche biscotto.
Erano queste ormai le sue esigenze.
Di tempo ne aveva tanto. La giornata era lunga. Non aveva nemmeno la televisione. Ascoltava però volentieri i notiziari alla radio (un regalo della signora che lo aiutava) e qualche programma che gli piaceva e di cui non perdeva la puntata.
Ma c’era un altro appuntamento cui non sarebbe mai mancato.
Tutte le sere quando imbruniva e i primi stormi di uccelli cominciavano a riunirsi, si metteva seduto sulla poltrona vicino alla finestra e osservava le loro evoluzioni.
Certamente il suo posto di osservazione era dei migliori, in quel sottotetto dove abitava, in un vecchio palazzo nei pressi del piazzale della Stazione Termini.E proprio per questa sua vicinanza rispetto agli stormi da tempo aveva capito quello che significavano quelle evoluzioni e mentre distingueva i gruppi dei passeri fatti di puntini più piccoli rispetto a quelli più grossi degli storni, “guardava” la musica che scorreva davanti ai suoi occhi e cercava di viverla “sentendola” vibrare armoniosa nel proprio cuore.A volte alzava il bastone a mo’ di bacchetta ed immaginava di essere lui il maestro che, dal podio, dirigeva quella orchestra così immensa dove centinaia e centinaia di uccelli si muovevano in mille armoniche direzioni. Capitò per caso.Durante una delle sue evoluzioni che causavano tanto scompiglio, mentre passava all’altezza di un palazzo, lo storno “storno” incontrò lo sguardo di un vecchio che, seduto su una poltrona, agitava ritmicamente un bastone per aria.Più che dalla scena in sé, lo storno rimase colpito dal |
colore degli occhi che contraccambiavano il suo sguardo.
Era un pezzo di cielo sereno che lo stava fissando, quel cielo che egli amava così tanto nella sua libertà estrosa da dedicargli quelle nascoste “sconvolgenti” armonie.
Proprio così. Aveva gli occhi celesti, Pietro.
Di un colore limpido in cui ritrovavi tutta la saggezza degli anni, il sorriso della serenità, la malinconia della solitudine, la consapevolezza del senso della vita con le sue gioie e i suoi dolori, le sue preoccupazioni e le sue spensieratezze … e nel cielo di quegli occhi leggevi mille storie.
Chissà quale fu la storia che riuscì a leggere lo storno “storno” quel pomeriggio sull’imbrunire. Si sa solo che da quella volta, tutte le sere, le sue evoluzioni finivano per passare, al loro culmine, proprio davanti alla finestra di Pietro.
Nacque pian piano una specie di intesa silenziosa.
Pietro aspettava con gioia che arrivasse l’imbrunire per trovarsi pronto a quell’appuntamento. Si sedeva per tempo sulla poltrona ed aspettava lo storno.
Ed eccolo, puntuale, egli sbucava fra le nubi o da dietro un raggio di sole che fino all’ultimo lo nascondeva alla vista. Ed era come un ritrovarsi tra vecchi amici, un salutarsi con trilli che riempivano l’aria ed un agitarsi del braccio. E subito dopo lo storno si buttava a capofitto nel bel mezzo dei branchi di uccelli a sconvolgerli con le sue piroette. E quando molti si erano già posati sugli alberi in cerca di un posto migliore dove trascorrere la notte, egli si buttava veloce fra i rami e costringeva tutti gli uccelli a risollevarsi nuovamente fra un gridio continuo di protesta.
Pietro osservava con attenzione ben sapendo che tutte quelle scorribande, quelle improvvisazioni, quelle “composizioni” erano dedicate anche a lui.A volte Pietro, aspettando, si appisolava.Allora lo storno “storno” si posava sul davanzale della finestra e bussava col becco via via più forte finché Pietro non si destava e lo salutava.E le evoluzioni riprendevano improvvise! Passarono tanti giorni ancora e Pietro continuava la sua vita.La mattina la vicina di casa, che aveva le |
chiavi, passava a vedere che tutto fosse regolare e gli chiedeva che cosa desiderasse per mangiare, poi usciva e dopo qualche ora ritornava dal mercato portandogli la spesa.
Ogni tanto faceva anche qualche pulizia per casa o lo aiutava in qualche cosa e Pietro gliene era infinitamente grato e si schermiva dicendo:“Ah, se avessi ancora vent’anni!”E lei di rimando:“Va’ là, sor Pietro, che ancora è un giovanotto!!”Ma la gioventù era ormai passata da un pezzo e gli acciacchi erano sempre più in aumento.Il cuore gli dava sempre più problemi, le medicine non erano più efficaci come le prime volte, ma Pietro non diceva niente |
alla vicina di questo suo aggravamento per non preoccuparla e pensava nella sua mente:
“Tanto alla mia età a che cosa serve ancora il dottore?!”
Un pomeriggio, verso le quattro, gli sembrò che il cuore si stesse squarciando nel petto. Un dolore atroce partì dal braccio sinistro su su fino alla spalla.
Respirava a stento.
Pietro capì che era arrivato il gran giorno ma qualcosa lo spingeva a resistere.
Di lì a poco avrebbe incominciato ad imbrunire ed egli aveva un appuntamento.
Lentamente, appoggiandosi al bastone, si avvicinò alla finestra e la aprì, poi tornò alla poltrona e si accasciò seduto.
Fissava quel cielo ancora azzurro nonostante l’ora ed una preghiera salì muta alle sue labbra.
“Signore, ti prego, accoglimi nel tuo cielo!”
In quel momento giunse lo storno “storno”.Capì subito che c’era qualcosa di diverso.I due si fissarono a lungo in silenzio dicendosi cose che solo loro potevano sentire.Poi, con un sospiro, Pietro si appoggiò sullo schienale della poltrona.Nella stanza, improvviso, si sentì co-me un frullo di ali … La vicina lo trovò la mattina dopo così, seduto, sorridente, con lo sguardo sereno |
che ancora fissava il cielo …
Se nel periodo dall’autunno alla primavera qualche volta ti capiterà di passare a Roma per il piazzale della Stazione Termini verso l’imbrunire, alza gli occhi al cielo.
Vedrai migliaia di uccelli in grossi stormi che si riuniscono, si allargano, si ricompongono per poi iniziare nuovamente questo gioco di movimento così imbrogliato ma nel contempo così armonico.
Quando avrai superato il primo impatto, guarda meglio.
Ti renderai conto che a dirigere tutta questa sarabanda sono due storni “storni” che volano sempre uno di fianco all’altro cantando la loro serenità al mondo intero e lanciandosi a volte anche in mezzo alla gente.
“E’ strano!”, penserai tu quando ti passeranno vicino, “Uno di essi ha gli occhi celesti!”
L’OMBRELLO CHE PORTA IL SERENO
Cominciò a piovere.
Dapprima una nebbiolina leggera, quasi impalpabile che ti faceva ritrovare gli abiti bagnati senza che te ne rendessi conto.
Poi, piano piano, giorno dopo giorno, la nebbiolina si fece più insistente fino a trasformarsi in una pioggerella monotona e uggiosa.
Il cielo, costantemente coperto di nubi e di un persistente colore grigio plumbeo rattristava la vista.
Inizialmente la cosa fu accolta con sollievo.
Dopo mesi e mesi di siccità, se ne sentiva proprio il bisogno. I disagi della circolazione delle auto a giorni alterni, il rincaro dei prezzi, più o meno giustificato, dei prodotti agricoli.
“Era ora!”, la gente esclamava.
L’atmosfera si sarebbe ripulita e lo smog, causa di tanti disagi, se ne sarebbe andato. L’ambiente ne avrebbe guadagnato.
“Era ora!”
Ma le ore passavano e la pioggia non accennava a smettere.
Le gocce si erano fatte più pesanti e cadevano sonore scrosciando sull’asfalto, sui tetti delle case, sopra le macchine, sulle fronde degli alberi, sugli ombrelli aperti.
E sì! C’era stato un fiorire di ombrelli che s’aggiravano multicolori per la città.
Proprio così!
Da quando gli ombrelli, fortunatamente, hanno perso il loro aspetto funereo (una volta erano tutti neri o marroni) e i tessuti di cui sono rivestiti hanno assunto colori più vivaci e variopinti, si aveva l’impressione di un prato fiorito dopo una lunga siccità. Uscendo dal portone di casa o dall’automobile, dall’ufficio o dalla fabbrica, ognuno alzava il proprio ombrello con apertura manuale o a scatto e sembrava che mille corolle spalancassero i loro petali per farsi ravvivare dalla pioggia dopo aver sofferto una lunga arsura.
Ma la pioggia continuava a cadere, sempre più fitta e la gente camminava infreddolita, col bavero alzato, rasente ai muri delle case, come a cercare riparo nonostante l’ombrello che la proteggeva.
Oramai era più di un mese.
Fortunatamente la pioggia cadeva pressoché costante e non si verificavano quelle perturbazioni violente che a volte erano accadute nel passato.
Pioveva sì, ma senza gravi danni o conseguenze.
Il primo ad accorgersene fu un bambino di circa cinque anni.
“Guarda, mamma, su quell’uomo c’è il sole!”
“Cammina e non dire sciocchezze!”
E il bambino, pur continuando a girarsi per vedere, affrettò il passo per affiancarsi alla mamma e cercare protezione sotto l’ombrello che ella teneva basso e le nascondeva in parte la vista.
Dopo qualche giorno fu un automobilista che, fermatosi alle strisce pedonali per far attraversare i pedoni, si vide passare davanti un uomo con un ombrello e su di lui c’era un raggio di sole e la pioggia non cadeva.
Stupito lo seguì con lo sguardo fino a che quello non ebbe attraversato la strada e, salito sul marciapiede, non fu sparito dietro l’angolo del palazzo … e l’autista non fu richiamato alla realtà dai clacson delle auto ferme dietro di lui che lo incitavano a riprendere la marcia.
La cosa gradualmente finì per non passare inosservata.
Dove camminava quell’uomo, dall’alto del cielo un raggio di sole lo colpiva e sull’ombrello che lui portava non batteva la pioggia.
“Buongiorno!”, accennava titubante qualcuno, “Bella giornata!”
“Splendida!”, rispondeva cortesemente l’uomo sorridendo “non potrebbe essere migliore!”
E qualcuno che, stupito nel vederlo, aveva abbassato involontariamente il proprio ombrello, si ritrovava zuppo fradicio della pioggia che continuava imperterrita a cadere.
La notizia si sparse per tutta la città e la gente cercava di ritrovarsi dove si pensava l’uomo potesse passare. Le domande e i commenti si facevano sempre più pressanti.
“Chi sarà?” … “Da dove viene?” … “Cosa fa?” … “Com’è possibile che solo dove passa lui ci sia il sole?!” … “E’ una magia!”
E sì! Di fronte all’ignoto e all’inspiegabile, l’Uomo ritorna ai primordi e se non ritiene che quello che vede possa essere opera divina o del maligno, a seconda che la valutazione sia positiva o negativa, non gli rimane che giustificare il “mistero” come opera di magia.
“Ma se è una magia, quale può esserne lo strumento?”
La domanda saliva muta alle menti di chi aveva avuto la casualità di incontrare quell’uomo o ne aveva sentito parlare.
“E’ l’ombrello!”, disse qualcuno. “E’ l’ombrello che è magico e porta il sereno!”
Stranamente, come raramente accade nei rapporti di ogni giorno, tutti furono concordi.
“E’ l’ombrello che porta il sereno!”
L’uomo vedeva questo interessamento nei suoi confronti che aumentava giorno dopo giorno ma continuava tranquillo a svolgere la propria vita.
Trovava sempre più gente ad attenderlo all’uscita del portone, gente che lo salutava con la speranza di entrare in confidenza, di carpire il suo segreto, e che lui salutava affabilmente senza cogliere appieno il perché di tutto questo interessamento.
Ritrovava le stesse persone o altre ancora all’uscita dell’ufficio (nel frattempo avevano scoperto dove lavorava), lungo la strada che era solito fare per recarsi al supermercato o al bar dove faceva colazione.
Accadde una mattina.
Dopo che era uscito di casa un uomo l’aveva seguito fino al bar e, approfittando del momento in cui stava prendendo un cappuccino, si era appropriato velocemente dell’ombrello che era rimasto incustodito. Uscito dal locale lo aprì soddisfatto. Finalmente, pensò, un raggio di sole dopo tanti mesi che si era dovuto riparare dalla pioggia … che imperterrita continuò a cadere su di lui nonostante avesse aperto l’ombrello.
Stupito, lo richiuse e lo riaprì diverse volte come a verificare il fenomeno, ma niente da fare: la pioggia continuava a bagnarlo.
Adirato scagliò l’ombrello a terra all’ingresso del bar proprio nel momento in cui il proprietario, che nel frattempo aveva finito di far colazione, stava uscendo.
L’uomo si chinò, raccolse l’ombrello, lo aprì e subito un raggio di sole lo illuminò riscaldandolo mentre si avviava lungo il marciapiede.
La persona che si era appropriata dell’ombrello, stupita, gli si avvicinò e con un tono che era frammisto di scuse, rammarico e rabbia mal celata, domandò:
“Ma com’è possibile?!”
“Vuole l’ombrello? Lo prenda pure senza problemi!”, fece il proprietario accennando a porgerglielo.
L’uomo, ancorché titubante, lo prese e ancora una volta, con il braccio sollevato e lo sguardo alto, si ritrovò sotto la pioggia, pur riparato dall’ombrello.
Ma la sua sorpresa fu ancora più grande quando, riabbassando gli occhi, vide che l’uomo che gliel’aveva dato si ritrovava sotto un raggio di sole completamente asciutto.
“Ma com’è possibile?!”, ripeté stupito, mentre nel frattempo parecchia gente, che aveva assistito alla scena si era radunata incuriosita e meravigliata.
“Ma non avete ancora capito? Non è l’ombrello che porta il sole ma quello che c’è dentro di noi. Se ci facciamo condizionare dall’egoismo, dal proprio interesse (per un verso) e dal disinteresse (per un altro), se siamo eternamente scontenti di tutto e di tutti, se ogni cosa che accade non ci sta bene e cogliamo solo gli aspetti negativi della vita e nello stesso tempo non facciamo altro che piangerci addosso, allora la pioggia, questa pioggia non cesserà mai più perché sono le nostre “lacrime” che ci bagnano. Se invece riusciamo a capire che la vita è un dono meraviglioso e che vale la pena di essere vissuta e che chi ci sta accanto è una ricchezza da riscoprire, cominciando dai nostri familiari, gli amici fino a qualsiasi persona che incontriamo casualmente, allora il nostro animo si rasserena, pur nelle difficoltà, e forse un piccolo raggio di sole scenderà a riscaldarci perché gradualmente anche noi si possa essere raggio di sole per gli altri. Cerchiamo di vedere con occhio diverso ogni cosa così come è per i bambini che riescono a sognare ad occhi aperti. Facciamo sì che il vento della fantasia e della speranza spazzi via le nubi che offuscano il cielo della nostra mente. Riscopriamo quei valori che soli possono dare sapore alla nostra vita ed essere il sale che la rende meno insipida.
Mentre l’uomo diceva queste cose la gente intorno rifletteva più o meno intensamente sul significato delle sue parole e su qualcuno cominciò a scendere un raggio di sole che tendeva ad espandersi illuminando anche altre persone.
“Devo andare al lavoro. Arrivederci a tutti!”, fece l’uomo incamminandosi in direzione del proprio ufficio.
Quando fu distante una ventina di passi, dalla folla si alzò una voce:
“Scusi, ma non conosciamo il suo nome. Come si chiama?”
E l’uomo si voltò ancora una volta sorridendo loro:
“Ma come, non l’avete capito? Mi chiamo Sereno!”
IL VECCHIO
Il bambino incontrò il vecchio se stesso.
“Vedi”, gli disse “tu hai vissuto tutta la mia vita e ormai sai. Ma io ho ancora mille incognite davanti a me ed ignoro che cosa mi riserva il futuro! Ti prego, aiutami a colmare la distanza che ci separa, questo tempo che ci ha resi e ci rende così diversi.”
“Ti è noto che quanto mi chiedi non è possibile. Devi vivere tutta la nostra vita in maniera autonoma e totale. Devi far sì che il tempo scorra sul futuro del mio passato.”
“Non è semplice! Averti incontrato ed essermi reso conto del tempo che ho ancora a disposizione è un dono che non a tutti è dato. La mia curiosità, la voglia di essere e di conoscere è tale però che mille domande mi si accavallano nella mente e nel cuore. Tu lo sai come ero fatto e mentre ti parlo sento che stai rivivendo ogni mio momento passato, mentre io non ho ancora alcun tuo momento futuro su cui basarmi e in cui credere.”
“E’ vero quello che dici e ti capisco. Ma niente può esserti rivelato. Mi è consentito darti solo un motivo di riflessione che ti accompagni nei giorni del mio passato che verranno. Se riuscirai a vedere i colori del vento, se saprai ascoltare la musica del tempo, se sarai in grado di scoprire la voce del silenzio, allora la vita per te acquisterà un senso e finalmente capirai!”
Detto questo, con un sorriso il vecchio scomparve.
Il bambino restò solo col suo futuro da vivere.
Quelle parole risuonavano giorno dopo giorno nella sua mente e nel suo cuore, ma non arrivava a comprenderle.
Passarono gli anni, ed il futuro cominciava a diventare sempre più passato.
L’uomo – ormai tale era diventato – stava conducendo la sua vita con i mille impegni e problemi, con le gioie e soddisfazioni, nella speranza che prima o poi avrebbe colto il significato di quella esortazione.
E in questo suo esistere veniva a contatto con persone che amava e lo amavano e con altre che gli erano simpatiche o indifferenti, stringendo con ciascuna di esse rapporti più o meno intensi.
Nel contempo non aveva mai perso il contatto con la natura che lo circondava ed appena poteva vi si abbandonava a ritemprarsi lo spirito ed il fisico. Ed allora erano camminate per i campi e per i boschi oppure immersioni nel mare e nella sua immensità. Questi momenti erano vissuti in solitudine o in compagnia, così come le occasioni e i luoghi permettevano …
Un giorno, in cui se ne stava da solo sulla cima di una collina, scoprì finalmente la “verità”.
Sotto di lui si stendevano campi biondi di grano e verdi appezzamenti nelle più svariate tonalità.
In lontananza si estendeva l’azzurro del mare.
Correvano su nel cielo bianche nubi sospinte dal vento.
Davanti ai suoi occhi i colori cambiavano continuamente in un gioco di luci e ombre, di chiari e scuri, a seconda di come il vento sospingeva le nuvole o il sole appariva tra di esse o le spighe di grano e i fili d’erba venivano agitati o le fronde degli alberi si muovevano e le foglie mostravano ora una ora l’altra faccia.
E così ogni particolare assumeva toni diversi davanti ai suoi occhi.
Lo stesso mare passava dal verde intenso all’azzurro, all’indaco, al grigio, e spruzzi bianchi sollevati dal vento cominciavano ad increspare la superficie che andava tingendosi di un giallo dorato al lento abbassarsi del sole sull’orizzonte.
I raggi illuminarono di un rosa pallido le nubi che assumevano pian piano un caldo tono aranciato.
Ecco! Finalmente vedeva i colori del vento.
In tutti quegli anni era stato spettatore di scene simili centinaia di volte, ma solo ora capiva.
La gioia della scoperta non lo aveva ancora abbandonato che le sue orecchie percepirono un’altra sensazione.
In un primo momento, quando aveva appena cominciato ad osservare, era stato colpito dal canto assordante delle cicale nel primo meriggio, che poi si era affievolito ed era stato il garrire delle rondini a sostituirlo, intervallato dal cinguettio dei passeri e dallo zirlare delle allodole.
Tali versi si confondevano di tanto in tanto con lo stormire delle fronde e il frusciare delle spighe di grano che, strisciando tra loro le reste, imitava il rumore della risacca marina. Il mare, sebbene visibile, era tanto remoto.
E a tratti un rumore lontano di macchine, un colpo attutito di clacson, un suono ovattato di campane, un fischio smorzato di treno nella valle, un rombo grave di aereo nel cielo … man mano che il tempo passava!
Da varie ore stava lì ormai.
Era questa dunque la musica del tempo di cui il vecchio aveva fatto cenno?
Quell’armonia di suoni e rumori che dava una dimensione alle cose vicine e lontane e le faceva apparire, anche se non si riusciva a distinguerle …
Ed in questo tacere per vedere i colori del vento ed ascoltare la musica del tempo, andava scoprendo se stesso.
Ripensò a quando, trovandosi accanto a persone care o appena conosciute, era stato ad ascoltarne in silenzio i problemi fino a trovare per loro una parola di conforto.
Ripensò anche a quando aveva dato o ricevuto, in silenzio, un piccolo gesto di affetto, di incoraggiamento, di rimprovero … A come uno sguardo, un sorriso, una stretta di mano sincera, una carezza avevano saputo dire, a lui e agli altri, più di mille parole … Di come si potesse affrontare serenamente l’impatto del vivere quotidiano, essere vicini pur nella lontananza, accettare nel pieno rispetto la diversità delle opinioni altrui, dare e ricevere fiducia, sentirsi liberi pur nella determinazione delle scelte imposte dalla concretezza di ogni giorno …
Ripensò ancora a tutte le cose dette e fatte e sperate e tralasciate ed al perché di quello che gli stava passando per la mente … A come avrebbe potuto o dovuto continuare a vivere, che cosa poteva o doveva cambiare dentro di lui.
E ripensò a tante altre cose ancora, in un silenzio in cui prendeva sempre più consapevolezza di sentimenti, dei quali si assumeva la piena responsabilità.
Era questa dunque la voce del silenzio?!
La coscienza del proprio “essere” gli parlava finalmente libera!
Adesso tutto nel suo cuore era chiaro.
In quelle ore passate in cima alla collina aveva finalmente scoperto il colore del vento, la musica del tempo e la voce del silenzio.
Quella sera, mentre faceva ritorno verso casa, ogni passo lo avvicinava al successivo incontro col vecchio se stesso.