Autoritratto

C’è stato un tempo morbido

quando trasalivo a una farfalla

sul soffitto o sul filo del telefono,

ritardavo il suono della sveglia

alla rincorsa del giorno

fra le ringhiere infreddolite, riordinavo

ogni briciola in un cerchio pieno

sulla tovaglia.

 

Nella bassa marea dei dormiveglia

speravo il fruscio della risacca,

il tocco della vita. La finestra

mi regalava l’aria dei glicini

del campanile, della notte.

 

Ora vivo di corsa per non vedermi

in un’altra me stessa

senza nessuna verità,

non ho più fretta di conoscere

la cifra dei colori.

In una pagina ho messo il verde,

quello che più mi assomiglia.


 La gara delle solitudini

Sorride con aria serafica a specchi e lavabi

la Gabri, facendo i capelli alle donne

che parlano. E parlano forte

di figli, mariti, discorsi e contrasti

a colpi di sole, lucidi sogni permanenti

che si raccontano “ai miei tempi…”

 

Soffi di lacca e fon, si fondono

ai sospiri della Gemma:

per quarantatré anni con Davide

ha sperato in fortune e traslochi

litigando di conti e di soldi,

per mille e mille mattine si è spesa di fede

preghiere, candele accese, anche se

quasi mai prendeva la Messa, non c’era

mai tempo coi figli, la casa, le galline…

E il cuore di Davide… il cuore che inciampa

perde il passo appena il lavoro si assesta

e chiude spiragli che era troppo sperare.

 

Cola una lacrima di schiuma

sul naso dell’Eugenia, che sussulta…

“Mah” esclama impaziente la Resi:

“se restare soli fa male, ancora di più

stai male se un figlio ti lascia!”

Sospira un istante la Gabri e la sua spazzola

si artiglia sui ricci della Resi che pentita

rinuncia all’inutile gara

delle solitudini: ben sa

che da quando non ha più Davide, la Gemma

non esce neanche alla sagra del Santo.

 

Paga il conto in silenzio l’Eugenia,

con un breve sorriso ci saluta

nel suo stridulo

semitono di straniera.

Scialba dentro il colore della sua giornata

lei non è sola quando accosta piano

alle sue spalle una porta

blindata, e qui l’attende

un vecchio a letto,

un bagno, il pranzo…


Eppur si muove…

Basta un arco di luna per diffondere

sull’erba e le colonne il guizzo morbido, che adagia

sul marmo un chiarore di mandorla: risplende

la Piazza dei Miracoli.

S’inchina la torre al maestro

insieme ai discepoli, che osservano

proiettili diversi cadere a terra sincroni…

È la fine di una legge, frana l’impeto!

Ma nel duomo si compie

la magia della lampada, che vibra

in accordo coi palpiti del cuore. Attonito

il maestro si commuove:

finalmente è crollata l’incertezza

insanabile ad esprimere l’entità più volatile,

da sempre in fuga, inafferrabile…

Composto, semplice, conico, balistico,

appena nato è il pendolo!

 

E colei che di lassù forse non vede

accadere i miracoli, ma sa

di non esser perfetta sostanza cristallina

di natura divina…  lei complice sorride

all’occhio acuto che l’ha vista in volto,

corrugata tra monti e mari aridi:

“Se potessi volare al di là delle nere voragini

vorrei balzare da quei fogli, i calcoli,

le tue mappe celesti, a dimostrare

la bellezza della nuda verità!

Eppur si muove non sia grido vano,

dietro la canna che racchiude il cielo,

a chi lo scruti con la mente limpida

libera dai precetti dei dottori del tempio…”

“Questa mia voce non grida, si spegne

in un soffocato sussurro,

e non è alba in me che non esiga

la forza che ora mi manca,

non al deserto una pioggia concede

fiducia in future foreste…

 

Eppure, a questo verde di mare e arte

che non mi è d’alcun conforto

o gratitudine, io ora chiedo

di perdonare una colpa anche mia:

abiurai, maledissi, detestai

ogni sussulto di sapienza e amore

in cambio di un tramonto mite

che si va consumando senza luce

sulla mia disabitata solitudine.”