Solo testimone il cielo

Del nostro amore
fu solo testimone il cielo.
Incenso ridotto in cenere
il tuo cuore
candela ridotta in lacrime
il mio.

Ho cucito con filo di ferro
i miei occhi
perché non potesse approdarvi il tuo viso.
Ho sigillato le labbra
col cemento del silenzio
perché prigioniera la voce
non potesse invocare il tuo nome.
Con catene ho legato i miei polsi
le caviglie con corde intrecciate
per negarmi all’abbraccio.

Ma tutto riverso all’interno
l’amore percorre le vene
con la potenza di un uragano
mi rintrona le orecchie il tuo nome
e il tuo viso si staglia
più nitido al buio
dietro le ciglia chiuse sul mondo.


Solitudine

Guardò per l’ennesima volta l’orologio a muro sulla parete di fronte al letto, nella speranza che la lancetta delle ore avesse già percorso l’ultimo tratto di quadrante che mancava alle sei del mattino. Alle sei ci si poteva ben alzare, nessuno gli avrebbe rimproverato di essere troppo mattiniero! Gli altri ospiti non se ne sarebbero neppure accorti, se lui avesse evitato di far cigolare la rete, se si fosse infilato le pantofole di panno e, soprattutto, se non si fosse messo a passeggiare nervosamente per la stanza, picchiettando sul pavimento col quel maledetto bastone.
Avrebbe avuto un po’ di tempo tutto per sé, prima di scendere a colazione nella sala comune. Che tortura! Tutti quei “Buongiorno!” da scambiare senza averne alcuna voglia; tutti quei “Dormito bene?” ipocriti, perché né a lui né agli altri interessava se l’ospite della camera accanto avesse dormito bene o male.
Le notti erano interminabili, un vero calvario, con tutti quei dolori alle ossa che nessuna posizione poteva alleviare: e lì a girarsi e rigirarsi senza posa, inutilmente. Quando credeva di averne trovata una adatta, quando il fianco sembrava aver smesso di dolere, ecco di nuovo quelle fitte lancinanti, quel formicolio snervante e quel montare irrefrenabile di una rabbia sorda e impotente contro il mondo intero, contro la vecchiaia, contro il destino, contro Dio, se pure esisteva un Dio.
Si svegliava alle sei per affacciarsi alla piccola finestra che dava sul fiume. A quell’ora, generalmente, un pescatore andava ad appostarsi con la sua canna di bambù sull’ansa sotto il pioppo e rimaneva lì per ore, nell’attesa che qualche trota abboccasse all’amo. C’era un silenzio assoluto a quell’ora, rotto solo dal frusciare delle foglie e dal cinguettio dei passeri. Nessuna voce umana a spezzare la pace.
A lui la pesca non era mai piaciuta: troppa pazienza, troppo tempo inutilmente sprecato per un risultato spesse volte deludente.
A lui era sempre piaciuto tutto ciò che comportava rischio, mente sveglia e prontezza di riflessi, creatività e immediatezza nel trovare una soluzione a qualunque problema.
Aveva praticato l’aeromodellismo per molti anni, costruendosi da solo modellini di aerei anche abbastanza complessi e si sentiva veramente un dio quando li faceva decollare dai campi appena rasati, con quell’erbetta verde che profumava di fresco. E poi li faceva volteggiare in cielo come piccole schegge argentee, tra looping e voli rovesci, picchiate e risalite che sembrava volessero perdersi tra le nuvole; e infine l’atterraggio, sempre perfetto, sempre straordinariamente preciso nel punto in cui aveva deciso che dovesse avvenire….
Poi quel maledetto ictus, l’emiplegia che gli aveva ridotto l’uso della mano destra, quella mano da “chirurgo e da orologiaio”, come la definiva lui…Ed era stata la fine, l’inizio della depressione, la solitudine, la perdita di ogni entusiasmo.
Si era aggrappato a quell’hobby per dare un senso alla sua vita dopo la morte di sua moglie, compagna fedele e premurosa, per rassicurare i figli che vivevano lontano, per sopportare l’invadente presenza della sua badante polacca (una bravissima donna, per carità, ma un’estranea per lui), per sentirsi ancora vivo e capace all’età di settantotto anni.
– Posso stare anche da solo, aveva detto ripetutamente ai figli in ansia per lui, posso cavarmela bene, sono autonomo, c’è Magda con me, riesco a sopportarla,purché non sia troppo invadente, non vi preoccupate, pensate alla vostra vita, ai miei nipoti, io so cavarmela.-
Ed era stato davvero così per oltre sei anni, ma infine aveva dovuto cedere all’evidenza: non poteva più cavarsela da solo dopo quell’ictus, e nemmeno l’aiuto di Magda era ormai sufficiente.
I figli avevano protestato, pianto, implorato: non avrebbero mai permesso che il loro padre, che aveva fatto tanti sacrifici, che li aveva sempre aiutati, che mai si era tirato indietro per risolvere ogni piccolo problema, dovesse finire i suoi giorni in una casa di riposo, mai.
E invece lui aveva deciso di sì; solo in quel modo avrebbe conservato intatta ai loro occhi la propria dignità, lo faceva anche per il loro bene: dopo la sua morte dovevano ricordarlo con lo stesso amore di sempre, come un aiuto, un conforto, un punto di riferimento, non come un peso, fastidioso e insopportabile.
Sentì picchiare alla porta e la voce di Stefano, l’assistente sociale del mattino, che lo invitava a scendere per la colazione, gli trafisse le orecchie. Era ancora alla finestra, e anche il pescatore era ancora sul fiume, con la sua canna in mano, in attesa che la trota abboccasse.
La pesca non gli era mai piaciuta, ma in quel momento lo invidiò, con quella mano destra che girava veloce il mulinello. E forse per soffrire un po’ di più, come se ce ne fosse bisogno, si svegliava ogni mattina alle sei, per spiare dalla finestra quello sconosciuto, che non aveva bisogno di bastoni, che teneva stretta nelle mani la canna per ore e faceva girare così velocemente il mulinello con la destra.
– Signor Luciano, vuole scendere per favore? Sono le sette passate, troverà il latte freddo. I suoi amici sono già tutti a tavola.-
Si vestì alla meglio, dopo essersi sciacquato il viso con l’acqua tiepida ed essersi ravviato i capelli bianchi come neve.
Stefano lo aspettava sul pianerottolo, con la porta del piccolo ascensore aperta chissà da quanto. Sorrise, ma a lui sembrò che lo facesse solo perché era pagato per sorridergli.
Nella sala da pranzo il solito brusio, i tavoli già tutti occupati, solo il suo posto ancora vuoto. Andò a sedersi tra Michele e Gianni, che lo accolsero come sempre con il loro viso malinconico e buono.
– Buongiorno a tutti!- disse, con tutto l’entusiasmo possibile – Dormito bene?-


I doni di Prometeo (fabula mitologica…o quasi)

Prima che Prometeo si facesse prendere dalla brama del successo e si intromettesse nelle faccende degli uomini allo scopo di diventare un mito a tutti i costi, gli esseri umani se la passavano davvero bene.
Guardavano e non vedevano, ascoltavano ma non capivano, si riparavano un po’ qua un po’ là, senza preoccuparsi di case di legno o di mattoni, rifugiandosi magari sotto terra, come formiche o talpe.
Indifferenti al freddo dell’inverno e alla calura dell’estate, non calcolavano il tempo e dunque non soffrivano di stress, trascorrevano la loro vita senza l’ansia della semina e del raccolto, senza calcoli né riflessioni filosofiche sui vantaggi e gli svantaggi dell’essere uomini invece che bestie. Anzi, le bestie erano i migliori amici degli uomini – e su questo non è che sia cambiato un granché nel corso dei millenni -.
Quando si ammalavano lasciavano fare alla natura, non conoscendo unguenti né pozioni medicamentose, e il più delle volte se la cavavano, tanto che la morte spesso doveva inventarsi degli hobby alternativi, per ingannare il tempo dell’attesa.
Ma se gli uomini erano saggi nella loro profonda ignoranza, non lo erano altrettanto gli dei che, come sappiamo bene, erano nati con una gran presunzione congenita e con la convinzione che, se per caso dovessero verificarsi problemi sulla terra, tocca sempre ad un dio risolverli – anche a questo riguardo le cose non sono cambiate poi molto nel susseguirsi dei millenni: infatti, a scadenze cicliche, in punti diversi del globo compare il dio del momento e ne conseguono catastrofi e genocidi.
Fu così che entrò in scena quel Prometeo di cui si è detto prima e decise del tutto autonomamente di donare agli uomini tutto ciò di cui non avevano affatto bisogno.
A partire dalla scienza degli astri – per cui si cominciarono a distinguere nel fluire del tempo le quattro stagioni, con la conseguenza che la fiorente primavera e la fruttifera estate vennero privilegiate rispetto al gelido inverno e al plumbeo autunno e gli uomini conobbero la tristezza delle lunghe giornate piovose e l’insofferenza del caldo afoso – forse per questo motivo nel futuro della storia dell’umanità ci fu chi si preoccupò di sconvolgere a tal punto l’equilibrio ecologico, da eliminare ogni differenza meteorologica e climatica tra le quattro sorelle e l’inverno si confuse con l’autunno, la primavera scomparve del tutto e l’estate, più capricciosa che mai, faceva capolino a suo piacimento nel corso dell’anno, portando con sé piogge rovinose e calure da piromania acuta.
Poi inventò per il genere umano la scienza dei numeri e le combinazioni delle lettere, sulle quali si basa il ricordo di ogni cosa, senza chiedersi se per caso qualcuno preferisse lasciare al buco nero dell’oblio il passato, per proiettarsi interamente verso il futuro.
Insegnò agli uomini come aggiogare le bestie, perché facessero al loro posto i lavori più pesanti – e da lì derivò l’unica , reale distinzione tra uomini e animali -.
Inventò le vele per le navi – le prime agenzie di viaggi nacquero allora – e le miscele calmanti per difendersi da tutti i morbi – cosicché, anche quando non ne avevano affatto bisogno, gli esseri umani si imbottivano di medicine, con la conseguenza di ammalarsi sul serio.
Ma il clou dei clou Prometeo lo raggiunse quando rivelò all’ uomo i beni nascosti nelle viscere della terra: bronzo, ferro, oro. Non poteva certo immaginare, l’ingenuo, che con il passare dei millenni un uomo più scaltro di altri ne avrebbe approfittato per spaccare in due l’umanità: chi ha l’oro e chi non ce l’ha – ma queste sono sottigliezze di fronte ai vantaggi del profitto.
Alla fine, però, commise un errore imperdonabile, che gli costò il fegato: volle strafare e rivelò agli uomini il segreto del fuoco, rubandolo al padre Giove.
E Giove, che non per nulla era il dio dell’Olimpo e per diventarlo aveva dovuto affrontare persino le cento teste di Tifèo – per non parlare della lotta coi Titani, che l’aveva davvero stressato – dopo aver lanciato dappertutto fulmini e saette, come succedeva quando si arrabbiava sul serio, scelse per il figlio degenere una punizione a dir poco crudele, da tortura cinese: lo incatenò su una rupe del Caucaso e ordinò ad un avvoltoio di rodergli il fegato durante tutto il giorno: ma questo, quasi a dispetto, ricresceva tale e quale durante la notte. E l’avvoltoio lì a rodere tutto soddisfatto da mattina a sera, sapendo che avrebbe tranquillamente digerito nel corso della notte.
Solo che Giove non aveva fatto i conti con Ercole, suo figlio – nato per caso da una relazione extraconiugale con Alcmena, mentre il marito di lei, Anfitrione inseguiva la gloria militare nella guerra contro i Teleboi – vedi a cosa porta la smania di successo?
Dunque Ercole, che non sopportava di essere un semplice semidio, spesso ignorato e snobbato elegantemente dai vip dell’Olimpo, volle farla pagare al sommo padre Giove – che nel frattempo continuava con le sue scappatelle, alle spalle di Giunone, sua moglie – e un bel giorno liberò Prometeo dall’avvoltoio.
Non mi chiedete come quest’ultimo si sia procurato il cibo da quel momento in poi, perché i testi antichi non lo dicono, ma certamente in qualche modo se la sarà cavata anche lui: lo dimostra la straordinaria proliferazione della sua specie nel corso dei millenni fino ad oggi.