Verde

Indosserò il mio vestito verde
e tu, dea evanescente
non mi potrai guardare
dall’atona distanza della tua assenza.

Indosserò il mio vestito verde,
e nella sua magia saprà evocare
la tua immagine inconsistente.

Indosserò il mio vestito verde,
e saprà ancora parlarmi
delle tue mani e dei tuoi occhi
di un fuoco solo a mezzo consumato
in una notte distante, inghiottita
da una vita che sussurra: non voltarti.

Indosserò il mio vestito verde
e penserò ai campi in estate
al verde vento di primavera
e alle sere morenti d’autunno
che nel buio mi riportano a te.

Indosserò il mio vestito verde
e mi preparerò all’inverno,
il freddo inverno che mi attende
nella crepuscolare tua assenza.

E verde sarà per sempre
il colore della foglia acerba
che tu sola hai conosciuto.
Anche se un giorno tremerà la terra
sotto l’addio dell’ultima foglia, matura
che cade – e tu, bambina mia inconsapevole
amore dagli occhi bendati –
non riconoscendo i segnali, griderai:
terremoto.


Tra molti anni

Oggi ho visto tua figlia camminare lungo la strada. È cresciuta ormai: è tutta sua madre. Ho notato che di te ha i capelli bruni, le spalle sottili, il collo di cigno attonito – gli occhi bui e vivaci. Ci siamo costeggiate come navi in mare aperto – funerea illusione che un fantasma beffardo tendesse i fili della mia memoria, come fossero corde di un violino su cui improvvisare una danza macabra. In un fremito la lama del disincanto ha ricacciato la Speranza negli antri bui della mia mente, colma di vergogna: confondere quell’immagine con la tua, equivale a blasfemia.
I suoi capelli bruni erano i tuoi, eppure non profumavano dei nostri giorni; le sue spalle, curiosamente tue, non si scuotevano nel pianto dell’ore nostre crudelmente fugaci; l’esile cigno era tutto bianco – sì: ma privo del marchio incandescente dei miei baci.
E io ho riso – così tanto e amaramente, quando guardandosi indietro quella tua creaturina si è fermata a fissarmi! Com’è stato crudele il destino, quando nel modellare quei tuoi occhi in replica li ha privati dello specchio del mio amore! Avrei voluto che almeno quel tuo sguardo fosse mutato in eterno retaggio, per non dimenticarlo mai – persino lì dove la tua presenza è mera ombra fugace.
Lei mi ha sorriso, in quel modo tutto suo in cui tu sei quasi assente – quel placido sorriso, in cui manca la tua firma di fiele e ambrosia. Mi ha scambiato per l’amica di sua madre – quella donna che vedeva così spesso, da bambina, far visita alla sua dimora.


Turbamento

Era solito guardarla da lontano, e come di nascosto.
Quando era certo che nessuno lo guardasse, rimaneva a lungo ad osservarla con la sensazione di trovarsi in una bolla al di là dello spazio e del tempo comune a tutti coloro che aveva attorno.
Fin da quando era stato assunto grazie alla propria brillante ricerca scientifica, aveva sempre considerato il suo luogo di lavoro come un rifugio, un porto sicuro in cui fermarsi ogni volta che la vita al di fuori dell’ospedale manifestava la propria frenetica energia in un caos che sapeva minacciare aspramente il suo bisogno di quiete.
James Holden era famoso fra colleghi e pazienti per la propria fermezza di spirito, che costantemente gli portava dei successi professionali di risonanza nazionale. Perfino dinanzi alle situazioni più scabrose, nulla sembrava poter scomporre la compostezza che già dal suo aspetto si rifletteva nei gesti. Aveva un modo estremamente scientifico di trattare i pazienti che si recavano da lui – e li considerava, indistintamente e senza farne mai segreto, un mero caso da studiare. Nella propria osservazione scientifica del corpo umano, tendeva a razionalizzare con metodo estremo perfino la più naturale delle reazioni umane. Il respiro stesso era divenuto per lui un’unità in grado di essere scandita dalle lancette di un orologio, e anch’esso poteva seguire allo stesso modo un ritmo preciso e prevedibile.
Questa attitudine professionale non era che il riflesso del suo modo di comportarsi con chiunque di umano lo circondasse. Anche chi non lo conosceva intimamente avrebbe saputo indovinare con facilità che il dottor Holden non era affatto una persona espansiva; chi lo conosceva intimamente, invece, sapeva che cercare di essergli accanto equivaleva a sentirsi continuamente respinti dall’avversione inconscia ma profondamente radicata che egli iniziava a manifestare ogni qual volta qualcuno tentasse di approfondirvi un legame umano.
Era cresciuto, insospettabilmente, in una stretta ed arretrata cittadina vicino Baltimora. Negli anni dell’infanzia e più ancora fortemente durante l’adolescenza, si era sviluppato in lui un paradossale stato d’animo in cui coesistevano, contrastandosi continuamente, l’amore provato per l’apparente quiete di quel luogo e la discordante sensazione di soffocamento che la vita laggiù gli provocava. Gwynn Oak era al tempo stesso la sua gabbia e il suo porto sicuro, ed egli amava e odiava la prospettiva di poter un giorno recarvisi ancora, non sapendo immaginare in quale stato d’animo il ricongiungimento con le proprie radici avrebbe potuto gettarlo. Sapeva soltanto che non sarebbe mai più tornato stabilmente a vivere lì.
Ed infatti aveva avuto la fortuna di poter frequentare un buon college, dove si era laureato in medicina a pieni voti – distinguendosi dai coetanei per quella sua sovrabbondanza di tacita curiosità che lo portava sempre a caparbie sfide contro i suoi stessi limiti. Ora, col passare degli anni, era diventato l’eminente simbolo del prestigio nazionale del Baltimore Memorial Hospital – un ospedale all’avanguardia che vantava oltre alla presenza di uno dei maggiori rappresentanti in campo medico quale il dottor Holden, anche una compatta schiera di collaboratori efficienti che sin dal gradino più basso del loro impiego contribuivano a rendere ineccepibile la funzionalità della struttura.
Il Baltimore Memorial Hospital era stato anche il primo ospedale a dare ampio spazio al lavoro operato dalle segretarie, la cui presenza era ormai divenuta indispensabile al rapido e proficuo funzionamento di ogni reparto.
Sebbene fosse stata assunta già da diverso tempo, era stato soltanto negli ultimi mesi che James Holden aveva notato la presenza di Ellen. Doveva essere stata assunta tempo addietro come segretaria di un altro reparto e successivamente spostata al proprio, di neurologia, perché frequentemente la vedeva passeggiare per quegli stessi corridoi in cui lui stesso, anche a tarda notte, vagava in cerca di riposo dalle innovative ricerche scientifiche che sempre lo impegnavano.
E tuttavia soleva guardarla di rado. Quando lei ne cercava un consulto, le parlava con la stessa freddezza che dedicava ai pazienti cui doveva comunicare notizie negative riguardo lo stato di salute.
Dopo ogni conversazione, perfino la più breve e strettamente professionale, qualcosa che emanava da lei come un’irriducibile eco lo spingeva a sollevare lo sguardo dalle solite cartelle cliniche e referti medici, e soltanto allora – quando era ormai certo che non solo lei ma anche chiunque altro gli fosse stato attorno avesse smesso di guardarlo – restava ad osservarla allontanarsi per degli istanti che nella sua mente a scompartimenti si propagavano come cassetti liquefatti. Allora il tempo sembrava assumere una lunghezza fuori da ogni calcolo: diveniva estremo, estenuante ed estraniante.
Aveva sviluppato verso di lei, specialmente la percezione delle mani. Erano la parte del suo corpo che più egli osservava: ogni volta che lei gli porgeva dei documenti o delle cartelle cliniche, trovava come un diversivo nella prolungata attenzione che concedeva alle dita bianche e sottili, dalle unghie curate nella più pura semplicità ma così totalmente incapaci di rispecchiare la profonda complicatezza della loro portatrice. Guardare quel piccolo ma importantissimo particolare gli permetteva di tenere a bada l’impaziente curiosità di fissarle la curva dei gomiti, sino a desiderare di risalire per la tondeggiante forma delle spalle spiandole fino alla morbida valle del seno, celata dall’ombrosa presenza della camicia in cui minuscoli bottoni trinceravano al di là del proprio velo la carnagione candida. Solo concentrarsi sulle sue mani riusciva ad impedirgli di fugare lo sguardo sino alla linea palpitante del collo e più su ancora, dove sapeva che il suo viso dai grandi occhi color di foglia lo stava fissando. E forse dietro quei suoi occhi si nascondeva un pensiero rivolto altrove o una chissà quale disattenzione; e in certi momenti egli temeva che guardandola dritto nelle pupille non avrebbe visto altro che la sua assenza, o la sua perfetta presenza nell’esattezza di un remotissimo altrove – e ne sarebbe uscito devastato, lo sentiva, se solo un giorno quei suoi occhi di foglia non gli avessero saputo rispondere in una lingua che egli potesse comprendere – e che tentava, nel silenzio dei propri atti mancati, di comunicarle disperatamente. Sapeva e temeva di sapere che quei suoi occhi non gli avrebbero mai trasmesso lo sguardo che tanto bramava; uno sguardo che urlasse il desiderio di perdersi in lui allo stesso modo in cui il proprio, quieto e disperato, aveva desiderato di perdersi, devastarsi, morire, in quel breve angolo senza nome che è lo spazio fra le dita di una mano – la sua, sempre.
Invece non le aveva mai rivolto parola se non per questioni lavorative, e tutte le volte che le circostanze lo avevano così costretto a farlo, aveva pronunciato il suo nome con l’agghiacciante distacco che si prova nel parlare in pubblico sapendo che solo uno dei presenti saprà cogliere un significato sottinteso. E lei non sapeva – non avrebbe mai potuto saperlo – che ogni volta che lasciava il suo studio dopo una qualche comunicazione lavorativa, sentendo ancora nelle orecchie un’eco di quel suo imparziale “la ringrazio, Ellen” con cui soleva eloquentemente congedarla attraverso la bassissima voce quasi impercettibile, il dottor Holden ripeteva fra sé quelle ultime due sillabe, quasi fossero un segreto che l’aria nella stanza avrebbe rischiato di far dissolvere se solo l’avesse ceduto con sguaiata facilità; o che il vento avrebbe minacciato di sfilargli via dal respiro se soltanto si fosse arrischiato a pronunciarlo piuttosto che saperlo preservare nel silente sepolcro del proprio petto.
Talvolta, osservando i propri colleghi e il personale dell’ospedale in mensa durante il pranzo, gli pareva di muoversi nella lampante incoerenza fra il tumulto del proprio spirito e la quiete del proprio corpo; allora tutto ciò che lo circondava gli appariva così tremendamente fuori luogo – e le persone attorno, col semplice suono delle loro vite e delle loro chiacchiere e delle loro risa, sapevano far risonare il feroce vuoto che giorno dopo giorno scavava voragini nel suo cuore. Spesso aveva l’impressione di trovarsi come in un cimitero, dove infinite schiere di bambini venissero a giocare inconsci della sacralità di quel luogo.
Questa vacua sensazione di morte nella vita, la avvertiva anche nel rapportarsi a lei, quando alle volte il senso d’impotenza in grado di inibire e al tempo stesso di alimentare il suo desiderio, lo faceva sentire simile a un fantasma.
Cresceva col tempo il proprio bisogno di averla, insieme con la disistima verso se stesso per ogni parola non detta, per ogni gesto evitato.
Eppure paradossalmente, era l’assenza il terreno fertile del suo desiderio. Ogni sera in cui richiudendo alle spalle la porta di casa trovava ad aspettarlo una moglie che l’adorava e un bambino appena nato con il quale non riusciva a spendere neppure un istante; durante ogni cena silenziosa e ogni notte in cui la luna stessa sembrava volersi seppellire al di là del buio, il suo pensiero andava a lei. A Ellen che era a casa con i bambini, i suoi due bambini piccoli dal padre lontano e incurante in cerca di fortuna per il continente. Pensava ad Ellen dai capelli bruni e al modo in cui erano capaci di rivelargli l’evento più delicato del mondo nel momento in cui, sfiorandole appena le spalle quando lei si chinava al di sopra della scrivania per porgergli dei fogli, creavano nella stanza come un senso di sospensione che gli suggeriva che qualunque cosa stesse accadendo, era diverso da tutto ciò che fino ad allora avesse vissuto.

Durante uno dei tremendi pomeriggi del venerdì, che gli rendevano sempre più incombente la separazione dalla presenza di lei imposta dal weekend, il suono dei tacchi di Ellen lasciò presagire il suo arrivo nello studio del dottore sin dal corridoio. Nell’avvertire quel ticchettio fino a poco tempo prima attribuito alla categoria dei rumori, Holden sollevò appena la stilografica dalla propria agenda – senza tuttavia spostare minimamente lo sguardo dal foglio. Il suono che si propagava nella distanza sempre più breve che li separava, aveva il potere di confonderlo, agitarlo, di fargli perdere la concentrazione: per questo, lo irritava. Sovente gli era capitato di risponderle in modo brusco; ciò che Ellen attribuiva puramente ad un carattere iracondo, coincideva invero con la volontà di Holden di difendere quel personalissimo spazio colmo di quiete e di silenzi che gelosamente racchiudeva dentro di sé, e che lei con così candida inconsapevolezza riusciva ad invadere. Senza permesso, senza coscienza, lei ne varcava i confini. Più e più volte nella propria mente l’aveva paragonata alla cittadina in cui era nato, e ogni volta lo lasciava attonito riflettere su come si sentisse anche in presenza di lei invaso da due sentimenti contrastanti. Amava e odiava averla vicino, così come amava e odiava Gwynn Oak; entrambe gli provocavano un senso profondo di pace e un senso profondo di soffocamento. Entrambe lo riducevano alla solitudine del proprio spirito.
Il profumo di Ellen invase la stanza. Holden sentì la porta richiudersi e ne dedusse, avvertendo ancora il breve incedere dei suoi passi avanzare impietoso nella sua quiete folgorata, che lei era lì per comunicargli qualcosa di più di un semplice appuntamento con un paziente.
Holden si alzò, divorando la distanza che lo separava dalla finestra come se nulla fosse accaduto. In qualche modo gli pareva che una farfalla fosse entrata nella stanza come di nascosto, agitando appena lievemente le sottilissime ali e provocando, a insaputa di quel piccolo luogo, un uragano all’altro capo del mondo. Il grigiore della giornata cedeva l’anticipazione di una sera prematura; i colori apparivano scuri al di là del vetro, e una luce trattenuta ad ogni costo dalle nubi pesanti stentava ad entrare all’interno della stanza. Una fitta pioggia non aveva smesso di cadere dalla notte precedente, e si era da poco tramutata in un forte temporale. Il bagliore di un lampo mise in risalto il riflesso del suo volto, e nell’abbagliante rapidità della sua comparsa gli parve di percepire tutta l’angosciante stanchezza della sua folle resistenza. Ruotando appena il capo lasciò vagare lo sguardo al di sopra della propria spalla, verso la scrivania di mogano dove una cornice racchiudeva la fotografia di sua moglie. Era così diversa da Ellen, e così diversa da tutte le altre mogli; eppure così identica al modello muliebre che lui si era sempre figurato in gioventù. Era una biondina delicata e curata, che l’aveva posto fin da subito su un invisibile altare dal quale lo venerava come un dio, e come a un dio gli chiedeva miracoli che, rivestendolo come un manto, lo ricoprivano d’aspettative che gli era impossibile immaginare di disattendere. Sembrava che agli occhi di una donna così semplice, che nulla pretendeva dalla vita se non di essere moglie e madre, niente si potesse mostrare se non la fatiscente onnipotenza di un dio; né più né meno che quel che lei si aspettava – né più né meno di quel che lei avrebbe potuto sopportare. Chiedere ad una simile creatura di sopportare la verità, equivaleva a chiederle di strangolare il proprio bambino nella culla: nulla del genere le sarebbe mai stato possibile fare, perché non sapeva immaginare neppure lontanamente l’esistenza di una realtà in cui certe cose accadevano veramente. La sua vita aveva la purezza dell’inconsapevolezza; era impossibile chiederle di non vivere ad occhi bendati, quando il buio fra le sue bende costituiva tutto il suo semplice mondo.
Un altro lampo gli fece riportare lo sguardo all’esterno, al di là del vetro. La voce di lei lo raggiunse dicendo qualcosa. Lo stupì riflettere su quanto poco gli risultasse familiare; da qualche parte dentro di sé, sapeva che rimuovere il suono della sua voce dalla propria memoria manifestava un personalissimo meccanismo di difesa – e questa scoperta lo atterrì all’improvviso, sino quasi alle lacrime. Che cosa sarebbe accaduto se solo gli fosse capitato di rincontrarla tra trent’anni? Avrebbe dimenticato di lei ogni cosa – la forma del viso, la linea delle mani, perfino la ritmica precisione del suo passo colmo di una musica tutta propria? Perché amarla, sia pure in silenzio, doveva irrevocabilmente significare lottare contro se stesso e contro i propri impulsi alla razionalità?
Mai come in quel momento si era sentito tanto disperso dinanzi al bivio che divideva il percorso dell’uomo che desiderava essere da quello dell’uomo che doveva essere. Soltanto uno sarebbe stato il suo cammino.
“Dottor Holden?” lo chiamò ancora una volta la donna.
“Sì, Ellen?”
Ne aveva cercato brevemente il riflesso nel vetro della finestra, e soltanto ora si era voltato a guardarla, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni dell’elegante completo grigio, e un sorriso vacuo profuso fra le sue labbra, a celare una sofferenza che sapeva trasparire dai suoi occhi sotto forma di uno sguardo perfettamente imperturbabile, distante, indifferente.
“Come le ho appena detto, è mio desiderio… cambiare reparto. Vorrei richiedere il trasferimento al reparto di ostetricia perché lo riterrei più… alla mia portata. Mi sembrava corretto parlarne prima con lei.”
Lo sentì sbuffare. Aveva imparato, col tempo, che quello era il suo modo di ridere quando non desiderava lasciarsi trasportare dalle cose.
“Non ha certo bisogno del mio permesso, Ellen. Qualunque cosa la possa aiutare per la sua carriera, la persegua. Io non posso che augurarle buona fortuna.”
Lo vide trattenere a lungo quel sorriso distante e pacifico sul viso. Avrebbe desiderato scuoterlo dal torpore in cui gli pareva sprofondasse costantemente. Spesso prima di entrare nel suo studio, si soffermava un istante o due fuori dalla porta chiusa, ancora prima di bussare. Amava cercare di cogliere i suoi respiri al di là del legno che li separava. Lo faceva poco vistosamente, e con una delicatezza tutta propria – tanto che a guardarla sembrava che indugiasse sulla porta solo per pura timidezza, quasi rimanesse immobile a riordinare le idee un attimo prima di entrare a parlargli. C’era qualcosa nei silenzi del dottor Holden che aveva iniziato presto ad attrarla. Non era qualcosa che gli aveva sentito dire, a dispetto del parere comune secondo il quale James Holden fosse un perfetto oratore, il cui potere seduttivo sopperiva verbalmente alla sua grossa mancanza di perfezione fisica. Era certo un uomo alto, e ben fatto seppur non propriamente muscoloso. Ma aveva un volto spigoloso in cui spiccavano due occhi grigi che gli conferivano un’aria spenta, assente, irraggiungibile. Questi, assieme ai capelli folti ma prematuramente ingrigiti, attribuivano alla sua figura un’età senza tempo, come avvolta da un velo che sembrava tacitamente esprimere la sua incapacità di stabilire dei contatti umani veri e propri. Anche semplicemente guardarlo dava l’impressione di esserne respinti; e sebbene il suo modo di parlare risultasse spesso attraente, ad un successivo passo ecco che di nuovo il suo atteggiamento restituiva la sensazione di essere appena rimasti fuori casa in una notte tempestosa, senza le chiavi.
Era stato proprio questo suo particolare a provocarle un certo tumulto. Per molti anni, si era sentita fra gli uomini come un cervo durante una battuta di caccia: le pareva che l’avessero sempre desiderata per esporla come trofeo nelle loro belle case, divorando di lei in privato tutto quel che restava al di là dì ciò che poteva essere mostrato pubblicamente. Avevano finito per consumarla, esaurirla, e dopo l’ennesimo uomo a cui i suoi figli avevano finito per affezionarsi e che lei non era riuscita ad amare, aveva scelto la solitudine.
Per diversi mesi aveva trovato la quiete, ma poi era arrivato Holden con la sua eleganza e i suoi modi bruschi e la sua brillante carriera, e avrebbe scommesso allora che i continui sguardi – nonostante quel suo strano gioco di limitarsi a guardare a lungo solo alcune innocenti parti del suo corpo, sarebbero presto sfociati nell’ennesimo equivoco.
Eppure il tempo era passato, e da lui non aveva mai ricevuto una parola fuori posto. Sembrava anzi saper comprendere i suoi silenzi; e quando a mensa – scegliendo di sedere in disparte – le capitava di incontrare lo sguardo di lui seduto a un tavolo solitario dall’altro lato della sala, aveva come la sensazione che quella sua tacita attenzione cercasse di schermarla da tutto il caos circostante, quasi volesse crearle una barriera all’interno della quale, estraniandosene lui stesso, lei avrebbe potuto coltivare in pace i propri pensieri.
Aveva imparato col tempo a conoscerne le reazioni, misurando la sua collera, la sua gioia, il suo disappunto – e aveva scoperto con estrema sorpresa, che nessuna emozione sembrava essere chiaramente manifestata dalla voce, le parole o le movenze di lui. C’era soltanto qualcosa – qualcosa di così sottile da rischiare di apparire inesistente; qualcosa di insospettabilmente forte e presente nel modo che aveva di distogliere lo sguardo da un oggetto per posarlo verso qualcos’altro, passando gli occhi su di lei per poi fuggire come un ladro verso l’angolo di un foglio in cui le parole perdevano momentaneamente il significato che avevano sempre avuto.
Mille volte avrebbe desiderato semplicemente trattenergli il capo fra le mani, per costringerlo ad affondare nei propri occhi quello sguardo incapace di assalirla, eppure così immaterialmente invadente che col tempo le sembrava avesse perso la capacità di avere dei limiti: lo sentiva quando c’era, e ancor di più quando egli non la guardava. Lo sentiva su di sé nella distanza che li separava ogni notte, quando tornava a casa dai suoi figli e lui da sua moglie e dal bambino. Con un ardore che la disillusione verso la vita le aveva lasciato credere che mai avrebbe potuto provare ancora, si era scoperta a desiderare ogni istante di divorare l’invincibile senso di distanza che da lui emanava. Lo sognava la notte eppure di giorno le pareva che i loro reciproci desideri avessero raggiunto una profondità tale da superare la brama di un superficiale contatto. Sentivano entrambi che sarebbero accadute loro cose terribili e cose squisite se solo si fossero provati a sfiorarsi veramente; eppure la consapevolezza dello stato civile di lui aveva tenuto Ellen sempre a un solenne passo dallo spezzare il filo di quella debolissima distanza. Sapeva che tutto ciò in cui aveva sempre creduto e che l’aveva condotta fin lì, tutto ciò che le permetteva di guardare con fierezza la propria immagine riflessa nello specchio nonostante il senso di brutalità che aveva lasciato il fallimento dell’amore nella sua vita, era la consapevolezza della sacralità dell’unione fra due persone, tale che mai avrebbe permesso a se stessa di essere il motivo della separazione tra due esseri sentimentalmente legati.
Nelle parole che aveva appena rivolto a Holden era insita tutta l’irrevocabilità del proprio credo, e per quanto sembrasse ignorarla egli l’avvertì con chiarezza. Distolse lo sguardo dal suo viso ancora una volta, in quel modo che Ellen conosceva bene. Lo vide fissarle una mano, il modo in cui le dita spuntavano al di sotto dell’incavo del gomito nella posa incrociata delle braccia.
Sapeva che lei avrebbe potuto trovarsi dall’altro capo del mondo, e cionondimeno l’avrebbe sentita sempre così vicina al proprio cuore, a una parte di se stesso che forse non avrebbe mai trovato il coraggio di lasciar correre libera per indicargli il cammino. Non senza di lei.