Gravidanza

 

“La colazione è pronta… in tavola. Cerca di non farla freddare!”

 

Era lontana, un po’ estranea, la voce di Francesco che l’esortava ad alzarsi, come ogni mattino.

 

Era sempre stanca in quel periodo ma è normale, nelle sue condizioni.

 

“Faccia attenzione, il rischio in questi casi è che lei sia portata a cambiare la sua vita, ad impigrirsi. Va evitato accuratamente. Può succedere, nelle sue condizioni. Conosco casi di vera e propria depressione” le aveva spiegato il medico.

 

Per quello Francesco non le portava la colazione a letto, perché fosse costretta ad alzarsi, al mattino. “Ma non deve preoccuparsi” le aveva detto il dottore “vedrà che si adatterà molto più facilmente di quanto possa pensare ora.”

 

Adattarsi?

 

Un’esperienza meravigliosa… sì, meravigliosa, sentir cambiare il proprio corpo, sentire che quella volta, dopo tante attese, lui, tuo figlio, aveva scelto di venire, e che per venire si legava a te indissolubilmente, intimamente, entrando a far parte di te.

 

Da quel giorno, e fino al giorno della sua nascita, lui si sarebbe cibato del tuo cibo, avrebbe respirato, a suo modo, il tuo ossigeno, l’aria che tu respiravi, avrebbe interiorizzato la tua voce ed il ritmo del tuo respiro, avrebbe ascoltato la musica che tu avresti scelto di ascoltare e si sarebbe emozionato delle tue stesse emozioni.

 

Da quel giorno…

 

Da quel giorno lui avrebbe conversato con le persone con cui tu avresti conversato e avrebbe scelto i tuoi stessi film, i tuoi stessi libri, avrebbe formato, già lì, nell’inconscio, nella tua pancia, le sue idee e la sua personalità, i suoi futuri comportamenti ed i suoi condizionamenti, la sua gioia e la sua tristezza, il suo futuro, le sue vittorie e le sue sconfitte, le sue aspirazioni e le sue frustrazioni.

 

Da quel giorno…

 

Da quel giorno avrebbe vissuto, attimo per attimo, i tuoi stessi ritmi, i tuoi stessi tempi, i tuoi stessi orari: si sarebbe svegliato con te e con te si sarebbe addormentato; la tua notte tranquilla sarebbe stata la sua notte tranquilla e la tua notte insonne sarebbe stata la sua notte insonne.

E se tu avessi cantato di gioia, lui avrebbe cantato con te, se tu avessi pregato con speranza, lui avrebbe pregato e sperato con te e nulla e nessuno avrebbe potuto separarvi.

 

La vostra intimità sarebbe stata, da quel giorno e fino al giorno della nascita, totale ed assoluta. Nessun’altra donna, mai, avrebbe potuto condividere, con lui, un’intimità pari alla tua. Per quanto lui potesse amarla, per quanto potesse desiderarla, per quanto potesse rinnegarti, dimenticarti, odiarti, cancellarti dalla sua vita. E, inconsciamente, avrebbe cercato per sempre una tale intimità, completamente  appagante,  perfetta,  totale e totalizzante, senza mai poterla condividere di nuovo con nessun altro essere.

 

“Non è una malattia, non ne va fatta una malattia!” era stato molto determinato, con il suo slogan, il dottore, preoccupato di sfatare superficiali teorie allarmiste (“Bisognerà fare questo… quello… quell’altro…” e così via.)

 

No! non è una malattia.

 

E tu lo sapevi meglio di chiunque altro, ne eri convinta, e te ne compiacevi.

 

No! Tutt’altro che una malattia!

 

Anche se da quel giorno, tu ne avevi piena e precisa cognizione, lui sarebbe cresciuto a spese della tua energia, dell’energia delle tue cellule, dell’energia della tua schiena e dei tuoi muscoli, impegnati col peso sempre crescente. Anche se prima di nascere ti avrebbe fatta soffrire per ore, ti avrebbe fatta gridare, sudare, respirare affannosamente, e gridare ancora, scossa come vitello. Anche se il giorno che sarebbe nato ti avrebbe lasciata sudata e sfatta, come dopo una malattia, ingrassata e gonfia. Ma ti avrebbe anche donato la gioia più grande della tua vita: se stesso.

 

Forse è semplicemente l’istinto materno, forse è l’utilitaristica esigenza di conservazione della specie, ma da quel giorno tu saresti stata felice, magari più stanca, ma appagata. Avresti avuto, nelle vicende alterne della vita, la tua consolazione; avresti saputo, nell’andare del tempo, nell’invecchiare, nel morire stesso, che tuo figlio bello o brutto, intelligente o stupido, avrebbe conservato un po’ di te stessa anche dopo la tua morte e dopo la sua e quella dei suoi figli.

 

La porta si aprì ed entrò Francesco: “Ancora a letto! Tutto il giorno a letto! Ma non è possibile! Devi reagire!”.

 

Con dolcezza Francesco si accomodò sulla sponda del letto ed iniziò a carezzarle la fronte: “Ascolta: non siamo l’unica coppia che non può avere bambini ma non puoi deprimerti così. Ti prego.”

 

Si voltò verso il cuscino e quella sera, per la prima volta da mesi, riuscì a piangere: “Un buon segno”, avrebbe detto il dottore, se fosse stato lì, “Sta prendendone, finalmente, coscienza.


La crociera

La mia nave…

E’ veramente bellissima, la mia nave. Con l’immenso ponte lucido, la vernice compatta e luminosa, i mobili antichi, gli ottoni che risplendono al chiarore della luna…

 

La mia nave…

La mia nave è una grande nave da crociera, con le sue orchestre, i suoi teatri, i suoi cinema, le sue feste, le sue piscine, il personale impeccabile, nelle nobili divise, i suoi passeggeri, anch’essi impeccabili nei loro abiti pregiati…

 

La mia nave…

A bordo è sempre festa ed il comandante accoglie sempre gli ospiti più prestigiosi alla sua tavola…

 

La mia nave…

Sulla mia nave c’è un grande chef ed un maître di irraggiungibile stile e di gusto sublime, io lavoro per lui e sono molto orgoglioso di questo…

 

La mia nave solca, serena e maestosa, i mari caldi del sud ed i mari gelidi del nord, attraversa, imponente ed invincibile, i mari temperati e a bordo è sempre festa.

 

Eppure…

 

Proprio dalla mia nave, madre premurosa e protettrice, con cui ho affrontato e superato tempeste inenarrabili, ho subito il più grande tradimento della mia esistenza…

 

Ma preferisco raccontarvi con ordine…

 

Quella sera il mare era mosso ma a bordo, come tutte le sere, era festa… La mia nave è una grande nave da crociera e il mare mosso quasi non lo sente.

 

L’orchestra di musica classica di bordo (ce n’è anche una di musica leggera e di musica jazz) suonava un valzer di Strauss. Il titolo non lo so. Potrei provare a cantarvelo ma non credo che potreste sentirmi.

 

E proprio al culmine della festa, quando l’orchestra traeva dai suoi strumenti le armonie più dolci, mentre tutti si radunavano al centro dell’immenso salone dal parquet lucidissimo, mentre tutte le luci erano accese nello scintillio sfavillante dell’allegria, mentre il comandante, nella divisa più elegante, invitava alla danza la signora più bella, proprio nell’istante in cui veniva stappata la più pregiata bottiglia di champagne, insomma, proprio al culmine della festa, mentre tutto questo si compiva io caddi fuori bordo.

 

Subito, memore delle regole che i cartelli distribuiti in ogni andito della mia nave ricordavano ai passeggeri, gridai con tutto il fiato che avevo in corpo: «Uomo in mare! Uomo in mare! Aiuto! Aiuto!»

 

E mi resi conto, per la prima volta, del terribile ghigno che, seminascosto dal mare, attraversava il volto della mia nave, a prua…

 

Si trattava di una sorta di bocca terribile, larga e dai denti stretti e serrati. «La linea di divisione fra la parte emersa e quella immersa, direte voi? Oppure il segno della vernice consumata dal mare e ricoperta dalle alghe.» Anch’io lo pensai e certamente il termine tecnico è proprio quello ma la percezione che ne ebbi fu quella di un sorriso terribile della mia nave che, avendo ascoltato il mio grido disperato: «Aiuto! Aiuto!» si allontanava, veloce ed indifferente, dal punto in cui ero caduto.

 

Fu così che mi ritrovai naufrago, solo, in mezzo al mare e attesi, per giorni e giorni, sperando che qualcuno, sulla nave, si rendesse conto della mia scomparsa e gettasse l’allarme, decidesse di venirmi a cercare…

 

Ma non successe nulla di tutto questo… passarono le ore, albeggiò, si levò un sole fortissimo e impietoso, passarono i giorni, i mesi, gli anni… ed io ero sempre là, in mezzo al mare.

 

Non posso certo lamentarmi, la mia galleggiabilità è straordinaria, e solo uno come me può resistere anni in quelle condizioni, senza bere, senza mangiare, con la pelle screpolata dal sole e consumata dall’acqua… ma se è certo che galleggio benissimo, però non so nuotare e quindi non posso andare da nessuna parte. Oltre al fatto che non avrei neanche saputo bene quale direzione prendere.

 

E nel mio viaggio forzato ho cominciato, levigato dal mare, a perdere la mia forma: si sono consumati i miei lineamenti, la mia testa si è ridotta di dimensioni, si è rinsecchita, e la mia vita s’è allargata, gonfia d’acqua marina.

 

Nessun altro, forse, sarebbe sopravvissuto bevendo acqua marina ed anch’io, ve lo garantisco, ho sofferto molto, ma tant’è…

 

Fino al giorno in cui, esausto, ho visto, lontana, una piccola baia, dalla sabbia bianca, dall’acqua calma e, spinto dalla corrente mite e dalle onde della risacca, ho attraccato lì e sono rimasto per giorni e giorni nella stessa posizione, esausto, ad asciugare.

 

Nero.

 

Maria amava passeggiare sulla spiaggia al mattino, quando suo padre usciva in barca per pescare e mentre sua mamma e suo fratello ancora dormivano.

 

Amava, soprattutto, raccogliere conchiglie e recuperare gli oggetti portati dal mare.

 

Aveva un occhio speciale per riconoscerli subito, anche a distanza, anche se il mare, nel suo trasportarli, li aveva consumati e resi quasi irriconoscibili. Eppure, quella volta, pur incuriosita dalla bizzarra forma di quell’oggetto che sembrava una via di mezzo fra una conchiglia, un legno ed un’alga, faticò molto prima di capire cosa fosse. E mai lo avrebbe compreso senza l’aiuto del padre, appena rientrato a riva dalla pesca: «Cos’hai raccolto questa volta?» «Questo!» gli rispose porgendogli lo strano oggetto: «E cos’è? Vediamo un po’… Sembrerebbe… Ma com’è consumato. Sai cos’è?» «No», rispose Maria. «Non lo sai perché non sai ancora leggere… Vedi qui c’è rimasta qualche lettera: champ… E’ il tappo, consumato, di una bottiglia di champagne. Chi sa da dove viene?». E, dato uno sguardo a Maria, che assentì, lo lanciò di nuovo in mare, come lanciasse un sasso, mandandolo talmente lontano che fu portato via dalle correnti e la terra non la rivide mai più.


Questa notte

Questa notte non voglio
sentire le stelle né scrutare il mistero
dei tuoi occhi scuri.

Questa notte l’amore mio
è lontano e io non voglio
ascoltare il tuo canto e inebriarmi
delle tue labbra profonde.

Posso forse morire e mai più
ritornare ma non in questa notte
di stelle e primavera.

Perché l’amore mio è lontano
e voglio che torni prima
di salire al brullo monte.

Questa notte non è una notte
è la notte in cui la strega appare alle puerpere,
la notte

in cui il folle progetto s’avvera,
la notte che rapisce dalla culla
i neonati si porta i vecchi.

E al mattino l’urlo muto delle madri
è canto e serenata al sole
che ancora una volta

sorge.