AARON E AHMED

( in ricordo di Vittorio Arrigoni )

Aaron aveva dieci anni e due grandi passioni: il Maccabi e il Merkava.
Sapeva tutto dei giallo-blu: storia, formazione, campionati e coppe vinti. Nella sua camera, sulla parete, i poster di Miki Berkovic che portò la squadra al primo successo in coppa campioni e a fianco quello di Air Jordan con la maglia dei Bulls.
Anche lui giocava a Basket, faceva il play nelle giovanili di Ashkelon e sognava un giorno di guidare il Maccabi. Sognava anche di guidare il Merkava che era il soggetto rappresentato nel terzo poster presente nella sua cameretta. Papà Israel, pure lui appassionto di Basket, ogni tanto lo portava a Tel Aviv a vedere la partita e per il piccolo Aaron entrare nel Nokia Arena era entusiasmante. Sentire i cori, vedere le bandiere con la stella giallo blu e poi gli eroi scendere in campo era sempre un sogno che si realizzava. Nei giorni successivi, con gli amici, l’argomento dominante erano le percentuali di tiro ed i canestri. Il padre, insegnante di matematica, e la madre Sarah insistevano molto anche con la scuola e lui cercava di non deluderli. Amava le materie umanistiche e in particolare la storia del suo paese, così tribolata ma per lui epica.
In casa c’era un problemino: la sorellina Yoah di sette anni, lei non amava il Basket e neanche il Merkava e quindi per Aaron era del tutto inutile. La sopportava con le sue bamboline insignificanti e pensava che crescendo avrebbe capito quali erano le cose importanti della vita. Aspettava sempre con ansia lo Shabbat perchè la mamma gli preparava i suoi piatti preferiti e spesso c’erano anche i nonni a pranzo e tutto sembrava normale. Ma Aaron sapeva che il suo non era un paese come gli altri, un paese da sempre in guerra non poteva essere normale. Ma loro erano il grande popolo di Israele e là in fondo, nella striscia, c’erano i terroristi.
Spesso nel suo letto guardando il grande Tank, raffigurato nel poster posto a fianco a quello di Jordan, che divorava imponente e implacabile le sabbie del Negev sognava di guidarlo per poter entrare nella striscia e uccidere tutti i terroristi. Come Del Maccabi, Aaron sapeva tutto anche del Merkava, il carro di fuoco. Del mezzo blindato orgoglio delle truppe corrazzate dell’esercito israeliano conosceva le varie versioni fino al recente MkIV e l’armamento: il cannone da 120 mm in grado di sparare missili anticarro, la mitragliatrice coassiale da 7,62 mm e la Browning M2.
Durante una parata mlitare, due anni prima, nel giorno dell’indipendenza, con la scuola ebbe l’occasione di salire con alcuni compagni, accompagnato da un pilota, sul Merkava. Un militare illustrò le caratteristiche del mezzo ed Aaron non perse una parola. Era restato affascinato dall’interno del carro, così scarno ma pieno di luci che pareva un lunapark e di pulsanti. Diversi monitor presiedevano tutte le operazioni del mezzo e il tenente del 188° battaglione meccanizzato gli aveva spiegato come potessero vedere anche di notte con il sistema ad infrarossi. Il sistema di pilotaggio era semplice: agendo sul freno di destra si rallentava lo stesso cingolo e quindi si svoltava da quel lato, stessa manovra per andare a sinistra. Tutto gli pareva fantastico come quando entrava al Nokia Arena; quei due luoghi, l’interno del carro e il palazzetto di Tel Aviv, erano l’oggetto di tutte le sue fantasie.
Quel giorno il tenente, con un sorriso di sfida, disse ai bambini
” c’è qualche coraggioso che viene a fare un giro? ”
Aaron che mostrò più entusiasmo dei suoi compagni si accucciò a lato dell’ufficiale. Guardò il giovane militare mettere in moto il possente mezzo e lo osservò compiere sicuro tutte le manovre. Gli parve un cavaliere invincibile, senza paure, un buono che li proteggeva dal male e in quell’istante decise che se non fosse diventato il play del Maccabi avrebbe pilotatato il Merkava. Il rumore del motore all’avviamento li fece sobbalzare poi, ai bassi regimi, divenne meno inquietante. In un monitor rettangolare comparve la visione del terreno davanti al carro: sul margine destro poteva scorgere la sua insegnante che li aveva accompagnati e i compagni “pavidi” che non avevano gradito l’idea del giretto sul blindato. Il tenente fece avanzare il mezzo per una ventina di metri e quindi lo fece ruotare di 90 gradi a sinistra fermandolo ed azionando il freno di stazionamento, fece ruotare la torretta e sullo schermo scorse il paesaggio circostante, quindi spense il mezzo. Aaron ovviamente fu l’ultimo a scendere, si issò allo sportello posto sulla sommità della torretta, mise fuori la testa e poi tutto il corpo. Aiutato da altri militari, all’esterno, scese dall’enorme blindato usando il cannoncino come corrimano per poi metter piede a terra sul davanti del mezzo. Vide gli sguardi ammirati delle sue compagne di classe e per un istante si sentì un eroe.
Tornato a casa raccontò a mamma e papà la sua avventura fin nei minimi particolari e ne aggiunse di fantasia: il breve tragitto diventò un lungo giro tra gli occhi ammirati della folla e per un tratto prese lui il comando del Merkava. Israel e Sarah sorridevano mentre Yoah, totalmente disinteressata, era intenta a vestire la sua bambolina preferita. Aaron ogni tanto la guardava irritato, poi proseguiva nel racconto.

Ahmed prendeva a calci la palla in un piccolo slarco contornato dalle misere case segnate dai proiettili e dalle schegge delle bombe che periodicamente investivano quei luoghi. Era solito ritrovarsi lì, tra i vicoli di Gaza City, per giocare a calcio con gli amici. Era riconoscibile tra quei mocciosi tutti uguali e malvestiti per la sua andatura saltellante, nonostante la protesi non smetteva di correre e si fermava solo quando il moncone gli faceva male. Una scheggia gli aveva maciullato il piede il 5 gennaio del 2009 durante “piombo fuso”.
Se non erano impegnati in una partita di calcio e non piovevano bombe dal cielo la loro occupazione principale era giocare alla guerra. Avavevano un arsenale di armi che si erano pazientemente costruiti con un seghetto da traforo e dei pezzi di compensato trovati qua e là. Pistole, fucili mitragliatori e persino due razzi qassam alti un metro con tanto di alette stabilizzatrici. Il capo era Mustafà che diceva di appartenere alle brigate Ezzedin al-Qassam, aveva dieci anni come Ahmed, dieci anni passati sotto le bombe. Suo fratello di diciotto anni faceva parte delle brigate e suo padre era morto durante i bombardamenti del gennaio 2009; non avevano trovato più nulla del suo corpo e Mustafà era convinto che prima o poi sarebbe ricomparso. Quel ragazzino talvolta sembrava un adulto, era determinato a vendicare suo padre e tutti i suoi amici morti e non aveva dubbi sul suo futuro: sarebbe diventato un combattente di Hamas. Guidati dal loro capo quel gruppo di ragazzini, armati di tutto punto, s’infilavano nei vicoli di Gaza City tra le bandiere di Fatha e Hamas e le case addossate l’una all’altra che sembrano difendere testardamente i gazawi. Tra l’odore di spezie e di miseria inscenavano battaglie eroiche da cui loro uscivano sempre vincitori.
Ahmed non era coraggioso come Mustafà, aveva continui incubi e il rumore degli elicotteri da combattimento e dei caccia dell’ esercito israeliano lo terrorizzavano. Si aspettava da un momento all’altro il sibilo di quegli aerei prodromo di boati terrificanti e morte. Mustafà era spietato e quando decideva di portare la sua truppa nei tunnel che portano nel territorio israeliano sceglieva i più valorosi – ” tu gamba di legno non puoi venire è troppo pericoloso”- sentenziò con piglio da comandante.
Il piccolo figlio di Hassan, pescatore a Gaza, e di Haniya ritornò a casa silenzioso. Frequentava la scuola gestita dall’Unrwa ed amava particolarmente l’aritmetica: fare addizioni e le altre operazioni era la sua passione, vedere i numeri perfettamente allineati, secondo le regole del calcolo, sul quaderno a quadretti, lo rassicurava. Era estremamente ordinato e preciso e non dimenticava mai di fare i compiti.
Questa era la sua vita a Gaza fino a quando quella maledetta guerra carsica non riemergeva drammaticamente, violenta ed implacabile, dalle viscere del Negev, come era accaduto il 27 dicembre del 2008, per poi rientrare negli abissi orridi da cui era uscita, venti giorni dopo. Poi restava lì sotto, sopita, con qualche bomba ogni tanto per non farsi dimenticare.
Ahmed aveva un amico speciale, per lui era un eroe, anzi il più eroe degli eroi. Conobbe Vik all’ospedale Al Shifa: si risvegliò, dopo che la scheggia lo colpì al piede mentre rientrava a casa, su un’autolettica che procedeva spedita nella corsia dell’ospedale, con una flebo nel braccio e quel ragazzo con il cappello da marinaio che gli sorrideva e gli tenava la mano. Poi entrò nella sala operatoria.
Nelle settimane successive al fianco di Haniya e Hassan compariva spesso quel giovane con il cappello e la barba, era un italiano dell’ism, dava una mano sulle ambulanze ed abitava vicino al porto. Anche nel mese in cui Gabriele, un altro italiano, gli costruì la protesi transtibiale, Vik era al suo fianco.
Un giorno Ahmed era giù di morale, non riusciva ad adattarsi a quell’attrezzo e il suo amico gli raccontò una storia. Vik aveva imparato un pò di arabo e anche se era un pò buffo il suo modo di parlare ad Ahmed piaceva ascoltarlo. Gli spiegò che nei mari del sud c’era un tempo un corsaro temutissimo, il più coraggioso di tutta la Tortuga. Gli racconò delle imprese di quel marinaio e per un’ora lo tenne avvinto tra arrembaggi e combattimenti all’arma bianca.
” al solo sentire il suo nome tutti tremavano ” concluse il suo racconto Vik
” ma come si chiamava? ” chiese il bimbo
” gamba di legno ” rispose il giovanotto con un sorriso grande come il mare che vedeva dal suo piccolo alloggio vicino al porto.
Ahmed lo guardò perplesso ” come me? ”
” no la tua è più bella c’e anche la bandiera italiana a fianco di quella palestinese…gamba di legno aveva un ciocco di legno stagionato che terminava con un tassello di caucciù”
” cosa è il caucciù ”
” una specie di gomma ” rispose Vik
Un sorriso, dimenticato da mesi, comparve inaspettato sul viso del bimbo . Ahmed si sentiva rassicurato, se gamba di legno era stato il corsaro più temuto dei caraibi anche lui si sarebbe fatto valere.
Ogni tanto il giovane italiano andava anche sulla barca di Hassan per dare una mano nella pesca.
Un giorno, verso la fine del 2009, appena rientrato dall’Italia, Vik arrivò a casa di Hamed con un pacchetto
” è per me? ” chiese il bimbo
” certo… dai aprilo ”
Ahmed aprì davanti ai genitori, alla sorella Huma e al fratello maggiore di un anno Jamaal, il piccolo involucro, timidamente quasi con timore. Era una maglietta azzurra, aveva sulla schiena il numero 7 ed il nome Del Piero: il suo idolo, il campione del Mondo. Era felice forse come non lo era mai stato ma non lo dimostrò, abbracciò Vik alla vita senza proferir parola. Il suo viso schiacciato sul petto del giovanotto esprimeva una gioia ed una gratitudine non documentabile.
” dai mettila ” disse il giovanotto
Ahmed guardò la madre e il padre per averne il permesso
” dai Ahmed mettila ” gli disse Haniya
Indossò la preziosa reliquia e fiero si volse verso Huma
” ah ah ti è grandee” disse la piccola con quel suo fare dispettoso.
Quando Vik se ne andò il ragazzino uscì e infilò fiero i vicoli di Gaza City, andando da un amico all’altro per mostrarsi. Si sentiva invincibile; era il corsaro gamba di legno con la maglia di Del Piero.

Dall’otto luglio del 2014 l’orrenda guerra carsica era riemersa dalle profondità della terra di Palestina con l’inizio dell’operazione militare israeliana denominata “margine protettivo” e Aaron e i sui amici non parlavano d’altro. I ragazzi erano eccitati dai bombardamenti e dal paventato ingresso nella striscia delle forze di terra. Le truppe con la stella di David si stavano ammassando al confine con la striscia e Aaron aveva visto gli squadroni di Merkava transitare nella periferia della città. Alcuni compagni raccontavano di essere andati sulle alture di Ashkelon, nell’entroterra, per vedere i bombardamenti. Il ragazzo era affascinato dai loro racconti, ricordava vagamente la precedente operazione piombo fuso e voleva andare sulle colline per vedere.
” andiamo sulla collina a vedere i bombardamenti dopo cena? ” chiese al padre mentre mangiavano
” non mi sembra il caso Aaron…non è uno spettacolo ” rispose sbrigativo il padre
” ma ci vanno anche i miei amici… non c’e pericolo ”
” no e poi dalla striscia lanciano i razzi ” disse Israel
” ma non passano vengono intercettati da iron dom ” replicò il ragazzino
” mangia ” Israel chiuse il discorso e il ragazzino non insistette.
Nei giorni successivi l’offensiva si fece sempre più pesante e anche l’insistenza del ragazzino con il padre. L’uomo stanco delle richieste del figlio decise di accontentarlo
” questa sera dopo cena andiamo in collina… ma torniamo presto e poi non mi stufi più ”
” certo papà ” rispose il ragazzo trionfante.
Aaron passò la giornata trepidante in attesa della sera. Cenarono rapidamente e poco dopo le sette presero la Passat e si diressero verso le alture. Arrivarono sul posto; un breve tratto a piedi e raggiunsero la sommità di quella piccola collina, poco più di una duna, dove decine di persone attrezzate con sdraio e binocoli assistevano allo spettecolo che era già iniziato. Per la verità non era mai finito. Era una bella sera tersa e l’orizzonte era sgombero.
Aaron osservava quei bagliori subito inghiottiti dal fumo a cui faceva seguito un boato sordo e lontano. Ogni tanto qualche esplosione era più fragorosa delle altre e gli spettatori s’alzavano con un ” OOOOh ” per poi risedersi. Chi era munito di cannocchiale, qualcuno anche agli infrarossi, scrutava il luogo dell’esplosione per poi commentare ai vicini. Aaron ogni tanto volgeva lo sguardo verso il padre che guardava impassibile l’orizzonte . Dopo alcuni minuti Israel si sedette e volse lo sguardo altrove, verso i piccoli centri abitati del Negev che le luci della sera cominciavano ad evidenziare. Il ragazzo, quasi ipnotizzato, continuava a guardare quella serie di lampi che non avevano soluzione di continuità.

Quello stesso giorno Ahmed viveva l’ennesima giornata di terrore tra il rumore delle esplosioni, le colonne di fumo che si alzavano cupe con il loro carico di dolore e le sirene delle ambulanze.
Mustafà sembrava una tigre in gabbia, era tutto il pomeriggio che andava su e giù lungo la spiaggia poco sotto Jabalia. Scrutava il mare dove incrociavano minacciose le corvette della marina israeliana che prendevano di mira la zona del porto di Gaza. Impugnava la sua inseparabile fionda ed ogni tanto estraeva un sasso dalla tasca e lo scagliava verso il nemico. Sassi contro missili superficie-superficie. Stanco si riposava all’ombra di un piccolo capanno isolato che i pescatori usavano come deposito. Con lui c’era Khalid che seguiva fedele il suo capo.
Verso le sei della sera decisero di rientrare a Gaza city.

Nella piccola casa di Hassan non arrivava l’acqua e Jamaal prese la tanica da dieci litri per andare a rifornirsi.
” vengo anch’io così porto una tanica ” gli disse Ahmed
” prendi quella da cinque litri” rispose il fratello.
Hassan non era ancora rientrato e Haniya restò in casa con la piccola Huma
” fate presto e state attenti ” disse la madre ai due fratelli mentre uscivano.
Si addentrarono nei vicoli dove tutto era ricoperto da una coltre grigia, il deposito di ciò che restava delle abitazioni colpite. Da un vicolo arrivò un’ambulanza, non aveva la sirena azionata, si fermò, quasi inchiodando, davanti a loro e si aprì il portello posteriore da cui scese Vik
” cosa fate in giro ”
” dobbiamo prendere l’acqua ” rispose Jamaal mostrando la tanica che teneva in mano
” fate alla svelta e tornate a casa ” disse perentorio il giovanotto
” va bene Vik ” rispose Hamed.
I due bambini procedevano svelti per le vie di Gaza City; quelle strade che fino a pochi giorni prima erano un brulicare d’umanità intenta in mille occupazioni erano semideserte. Un’esplosione vicina li fece sussultare e si rifugiarono in un portone semiaperto; stettero alcuni istanti ad osservare e poi ripresero il loro cammino verso la fontana. Svoltarono un angolo e si trovarono dinanzi Mustafà e Khalid, erano le sette e la luce del giorno cominciava a calare.
IL ragazzino con la fionda al collo prese a raccontare ai due fratelli, con piglio bellicoso, il suo pomeriggio a tirar sassate alle corvette israeliane e di quante fossero al largo del porto. I due bambini erano affascinati ed impauriti da quanto il loro capo raccontava.
” volete venire con me a vedere… in mezz’ora andiamo e torniamo ” disse Mustafà
I due fratelli si guardarono indecisi ma la curiosità e l’autorità del piccolo combattente vinsero le loro titubanze.
Di corsa, tra un vicolo e l’altro, raggiunsero il litorale dove Naadir, un pescatore che lavorava spesso con Hassan, li vide dirigersi verso il piccolo deposito delle reti. I ragazzini camminavano lungo il litorale guardando le navi minacciose al largo. Mustafà raccolse un sasso sulla battigia e lo scagliò con rabbia verso il mare. Arrivarano al capanno che era occupato dalle reti e alcune nasse
” non si vede nulla qua dentro ci vorrebbe una torcia elettrica ” disse il ragazzino con la fionda al collo
” ce l’ho io ” disse Jamaal che estrasse dalla tasca una pila e la accese.
Quella luce isolata, improvvisamente accesasi all’imbrunire, divenne un’obiettivo per le navi al largo.

Aaron dalla collina osservava lo “spettacolo pirotecnico” che a tratti si faceva più intenso per poi acquietarsi. Improvvisa l’esplosione lungo la spiaggia, più fragorosa delle altre, fece sobbalzare gli astanti. Un colpo di cannone di una corvetta aveva colpito l’arenile vicino al porto di Gaza. Il bimbo chiamò il padre che guardava altrove; Israel non era interessato ma si volse, osservò quelle decine di persone che cercavano di scrutare morbosamente attraverso l’oscurità
” andiamo a casa ” dissse al figlio
” ancora un momento dai ”
” no ” rispose perentorio.
I due s’incamminarono nel buio, in silenzio, mentre lo spettacolo continuava.

Vik correva lungo la spiaggia, dal suo piccolo appartamento che dava sul mare aveva udito l’esplosione, era aduso ormai a ogni orrore ma si avvicinò a quel punto con terrore. La deflagrazione aveva alzato una nuvola di rena che sembrava una tempesta del deserto e non c’erano più di dieci metri di visibilità. Si mise sul viso la Kefiah per proteggersi. Con lui altre persone si dirigevano verso il punto dell’esplosione. Scorse una voragine, un’unghiata che aveva asportato parte dell’arenile, null’altro. Alcune assi di legno semicarbonizzate emergevano qua e là e poi quell’odore acre, feroce. Forse non c’era nessuno pensò, gli parve di vedere un piede che usciva dalla sabbia, si avvicinò, era una protesi transtibiale con due piccole bandiere: quella palestinese e quella italiana.
Nota
Ogni riferimento a persone esistite o esistenti è casuale.


I have a dream.

Non é il grande sogno di M.L. King o di Kennediana memoria ma un, piu modesto, viaggio nel tempo e nel gusto. Ve lo racconto.
Il paesaggio é quello delle Langhe, l’ Autunno la stagione, il secondo lustro degli anni cinquanta il tempo, sfumati e tenui i colori, leggero lo spirito. Con la mia rombante FIAT 1100 tv ( turismo veloce ) color grigio speranza, capote nero sognante, pneumatico bordato di bianco e volante in bachelite color avorio, percorro le dolci asperità a sud del Tanaro. A fianco, delicatamente appoggiato sul sedile del passeggero, il mio inseparabile Borsalino.
Che spettacolo la bassa Langa con le vigne pettinate e gli spettinati cespugli di nocciolo spruzzati di nebbia! Ho appena guadato il fiume, provenendo da Asti, e oltrepassato Barbaresco, incontro un cartello che indica: Alba 5 Km – Barolo 20 Km. Quest’ultimo é la mia destinazione. Mi hanno parlato di una trattoria, poco fuori paese, di solida cucina langarola con locandiera avvenente. Mi perdo, non solo idealmente, nelle ritmiche sinusoidi che disegna il territorio, passo il cartello Castiglione Falletto ed un paio di chilometri dopo l’abitato intuisco l’insegna “locanda in Barolo” indicante una stretta strada sterrata, che si srotola nella vigna, al fondo della quale intravedo la mia meta. Fermo l’automobile, scendo non prima di aver indossato il cappello in feltro grigio London e mi dirigo verso il porticato del rustico casale tenuto con ordine e guarnito di viole e rose. Il mezzodì non si fa più attendere e neanche l’appetito, mi appropinquo rapido verso l’uscio. Apro ed appare lei, Miranda, la Locandiera di Tinto Brass, la lussureggiante Serena Grandi. Splendida con la gonna dal taglio a godet poco sopra il ginocchio color dell’arcobaleno, la camicetta in tinta ed i capelli corvini; mi liscio, con l’indice ed il pollice, il baffetto alla Buscaglione e penso:
” che bambola!”
“ Si accomodi “ dice ammiccante la splendida creatura e io ipnotizzato da tale beltà mi accuccio mansueto al tavolo indicato. Osservo l’incedere della Venere quando vengo richiamato dallo stomaco ad altre attenzioni, butto lo sguardo oltre la porta semiaperta sormontata dalla scritta CUCINA e scorgo, tra i preziosi fumi, due rassicuranti signore di robusta complessione intente nella nobile arte culinaria.
“ Bene” penso
“ oltre al fumo pare esserci anche dell’arrosto”.
La giunonica creatura compare nuovamente ed elenca i piatti del giorno, non ho dubbi: carpaccio di fassona all’albese con tartufo bianco, tajarin con fonduta di Castelmagno e tubero d’Alba, per finire il crescendo rossiniano gastronomico Stracotto di manzo, sempre razza piemontese, al Barolo.
La scelta del vino mi sollecita un amletico dilemma: meglio la potenza del Barolo o l’eleganza del Barbaresco, this is the question? Dopo breve e sofferto pensamento mi risolvo ad una scelta e opto per il Barbaresco Crù Rabaja della Cascina Luisin di luigi Minuto, un piccolo produttore la cui buona fama già mi aveva raggiunto: millesimo 1949 la prima annata buona dopo i disatri bellici.
Mentre cogito quanto sopra, guardando la creatura ondeggiare sinuosa con la gonna svolazzante a manca ed a mano bella tra gli effluvi di lavanda e stracotto, mi chiedo estasiato
“ è il paradiso! sogno o son desto?”.
La gentil donzella si avvicina tenendo con la mano destra un bilancino da speziale , nella sinistra il prezioso tuber Micheli e nel leggero inchino per posare il tutto avanti a me dà ampia visione del suo splendido decoltè. Tutte queste rotondità mammifero-botaniche strabuzzar l’occhi mi fanno e’l naufragar m’è dolce in questo mare. Solo pochi istanti e l’eterea visione svanisce, altri ospiti reclamano le sue attenzioni.
Appoggiati sulla linda tovaglia a quadri bianchi e verdi che riveste il mio tavolo, il cestino in vimini del pane ben lievitato dalla crosta dorata e la bilancia con il fulmine di Giove (la mitologia racconta che il fungo più prezioso al Mondo abbia la sua genesi in un fulmine scagliato da Giove nei pressi di una quercia ) del peso di 70 grammi; faccio due calcoli e capisco che il conto sarà impegnativo ma, che volete, si vive una volta sola! Pochi minuti e Miranda ritorna impugnando un’albeisa contenente il prezioso Nebbiolo, mi mostra l’etichetta, semplice di color seppia, con scritto in bella grafia Barbaresco Rabajà 1949 Cascina Luisin e il disegno di una sky line barbareschese appena accennato. Osservo i suoi movimenti lenti e sicuri nella delicata operazione di estrarre il sughero dal collo della bottiglia e poi , non prima di un radioso sorriso che sobbalzar il core mi fa, nel versare il nettare di Bacco in un ampio bicchiere a me destinato. La veste scarlatta di un bel granato con ampia unghia aranciata preannuncia un naso importante, intenso e complesso con note di mora in confettura, spezie, liquirizia, mandorla amara e cioccolato, all’inizio un po’ chiuso ma che presto si apre rendendo tutta la sua eleganza. Al palato conferma quanto promesso dall’olfatto, con tannini levigati dal legno d’invecchiamento si offre deciso per poi distendersi lentamente in un’infinita persistenza. Finezza ed eleganza ecco sua maestà Il Barbaresco. Mentre ondeggio il liquido divino nell’ampio calice, bevo e annuso, riannuso e ribevo, la bella cameriera mi allunga il carpaccio e, con un tagliatartufi in palissandro, delicatamente cosparge la fassona del pregiato d’Alba inondando le mie narici del suo intenso ma delicato aroma. Ingurgito con avidità il manicaretto accompagnandolo con meditati sorsi di vino e già mi guardo attorno cercando altro. Tartufo e Nebbiolo competono in persistenza al cospetto delle mie papille.
”Tutto bene signore?” mi chiede la locandiera riprendendosi il piatto vuoto
“splendide! rispondo trasognato
“splendide?” ribadisce lei incuriosita
“si splendide!” replico sorridente
“ lei e le cuciniere oltre quella porta”
“ grazie” mi risponde con una risata furbetta.
Pur essendo un dì feriale la locanda brulica di avventori e l’atmosfera è frizzante, carica di voglia di vivere e coinvolgente. Miranda è nuovamente al mio cospetto intenta a sparger tubero sui miei tajarin. Gusto con più calma la seconda portata; perfetta la cottura della pasta e commovente l’abbinamento Castelmagno-tartufo ossia sapidità vs aromaticità. Il Barbaresco completa l’opera accompagnando la lunghezza gustativa della preparazione.
Sono sempre più eccitato ed un fremito corre per il mio lungo corpo all’apparir di sua eccellenza lo stracotto al Barolo. Il cappello del prete di Fassone si scioglie in bocca intenerito dalla forza del Nebbiolo e dalla fiamma, avvolge il palato sapido e fresco con una straordinaria complessità di sensazioni gustative. Una polentina tenera, che spilucco a piccole prese, accompagna questo prodigio culinario.
Il fantasma di Pellegrino Artusi aleggia, ispirando, in questi luoghi. Son sazio ma non resisto all’invito di Miranda che raccomanda, per terminare, una fetta di torta langarola con le nocciole. Squisita.
Aimè è giunta l’ora del ritorno al borgo natio, riprendo il Borsalino che per tutto il tempo mi ha osservato tranquillo, alloggiato sulla sedia al mio fianco. Pago il dovuto e mi avvio all’uscita non prima di un ultimo sguardo alla dea della Locanda in Barolo e penso
“che sventola!”
“Arrivederci”
“Arrivederci a lei e grazie”.
Dissolvenza


Nella cucina di Pellegrino

Bolliti e stracotti brontolano, in pignatte annerite dal tempo e dalla fiamma, attesi da cuciniere rubizze. Sedani, peperone variegate e turgide barbabietole spuntano da ceste antiche. Il rabarbaro vermiglio e il cardo svettano. L’aneto, il coriandolo e la menta, quieti, attendono il loro ingresso in scena; appartata sonnecchia l’erba cipollina. La maggiorana e l’origano fan comunella mentre salvia e rosmarino,consapevoli, sorridono. Sopra un ceppo, una vigorosa coquinaria, fa di lombata marezzata succulente bistecche con ben assestati colpi di mannaretta. In un paniere di vimini: fagiani, pernici e anatre sembrano sparpagliato plotone di Bersaglieri. Il brasato bofonchia irrequieto a fianco d’un soffritto che sfrigola sprigionando prodigiosi effluvi. Un nudo capretto occupa il tavolaccio in legno e due conigli stan lì accanto. Polli dall’occhio vitreo s’accompagnano a rosei maialini. In un piccolo mastello la tinca e il luccio fan da arcigni scudieri a guizzanti lavarelli e anguille. Il persico reale con il Carpione attendono d’esser cucinati.
Vaporosi profumi, come brume d’Autunno, ammantano poetiche memorie artusiane.
Una cesta di vimini stracolma d’uve profuma di langa, di sodi sassosi e di morene in cui vitis vinifera rigogliosa impera. Le castagne e le mele rosse, lucide e fiere fan bella mostra.
Casseruole, padelle, pentole e pignatte, in ordine, aspettano d’ospitar vivande.
I cucchiai di legno d’ulivo, screziati, lisci e altezzosi stan da parte mentre i mestoli in faggio, ruvidi come carta vetrata, rovistano affannati in ogni pietanza.
Le pagnotte, ben allineate, profumano fragranze d’antica memoria affiancate da morbide focacce e nodosi grissini che crocchiano come foglie d’autunno al piede del cacciatore.
Un uomo, con una lunga barba bianca, in disparte, appoggiato a un piccolo tavolo di rovere, osserva e annota.