Ionut

A Ionut piaceva leggere le dediche dei libri perché diceva che erano storie dentro ad altre storie.
Leggeva “A mio padre” e subito la fantasia iniziava a viaggiare, disegnando un uomo dalla testa
calva e i baffi marroni, le unghie ingiallite dal fumo e un maglione a rombi neri e blu, sgualcito e
consunto sui polsi. Vedeva un bambino leggere di pirati davanti ad un fuoco ed un adulto dal
sorriso gentile aiutarlo ad interpretarne le gesta e all’improvviso il romanzo vero e proprio perdeva
la sua consistenza e l’irrefrenabile curiosità di conoscere la persona che tanto lavoro aveva ispirato
prendeva il sopravvento.
Ionut adorava fotografare i ragazzini dell’oratorio mentre giocavano a pallone da dietro la rete,
fissare il rosso e il celeste che sfrecciavano veloci dallo sfondo di terriccio, come fossero fuochi
d’artificio a rallentatore, tanto che quasi si poteva percepirne i bordi dorati e le scintille.
Era un campione nelle parole crociate: non dava mai il tempo di pensare o ricordare una
qualsivoglia definizione che lui già aveva appuntato le prime quattro lettere della risposta,
suggerendo col labiale la conclusione della parola con fare soddisfatto, quasi dispettoso.
Amava il tiramisù al pistacchio di Pompi e le passeggiate in motorino alle sei del mattino, quando
Roma ancora sonnecchia e sono in giro solo i lavoratori veri, quelli che si sporcano le mani in
fabbrica e in officina, che odorano di benzina, che allineano i flaconi al supermercato e raccolgono
le lattine dalla strada, e non gli incravattati da ufficio che hanno la sveglia al massimo alle sette e
mezza.
Ionut era un sognatore, uno di quelli che non avrebbe mai percorso il sentiero più battuto ma, di
contro, si sarebbe fatto kilometri di radura palustre solo per il semplice gusto di non permettere a
nessuno di dire che un qualcosa era difficile, o peggio ancora impossibile. Credeva meno in un dio e
più nel progresso, nella scienza e nel bene. Ma soprattutto credeva in lei.
Era morto ormai da tempo, ma Chiara sentiva di essere sola da molto di più.
Si erano conosciuti al primo anno di ragioneria. Lei indossava un paio di jeans strappati alle
ginocchia e una maglietta rossa, lui ray-ban neri e converse tarocche azzurre; lui la amò dal primo
istante per quanto era bella, ingenua ed intelligente; lei capì solo dopo che era lui il ragazzo con cui
avrebbe voluto prendere il 3 senza biglietto per la prima volta, fumare sul retro della scuola e farsi
accarezzare le cosce da sotto il banco.
La madre di Ionut faceva le pulizie in casa di una famiglia di Piazza Bologna, il padre era muratore
e il fratello di ventiquattro bazzicava le zone Prenestina e Casilina facendo lavoretti di idraulica e
spacciando erba. Viveva in un appartamento di Casal Bruciato, con le tende impregnate di fumo ed
un divano verde dove da piccolo passava ore a guardare i cartoni animati senza mai stancarsi, grazie
ai quali imparò l’italiano più in fretta di suo padre. Il nonno, a Tirana, aveva un negozio di
ferramenta e lui, fino ai 10 anni, costruiva forme diversi con i chiodi e le viti sul bancone della
cassa. “Servono per reggere insieme i mobili” gli spiegava sempre con pazienza e Ionut lo ascoltava
riordinando i piccoli pezzi secondo la grandezza. Quando lasciarono il loro paese aveva appena
undici anni e di quel giorno e di come non rivide più suo nonno ed il suo migliore amico non
parlava mai volentieri. Per i primi tre anni, finche frequentò le scuole medie, fu difficile istaurare
nuove amicizie, vuoi per i pregiudizi come per l’italiano altalenante. Il suo unico amico fu Federico,
un compagno di scuola, con cui ogni tanto faceva i compiti e qualche ragazzata per il quartiere.
“Perché non vieni anche tu a catechismo?” “Perché io sono musulmano.”
Venne invitato a qualche festa di compleanno e quando ci andò si divertì molto, anche se non tutti
gli diedero confidenza.
“Perché ero e non eravo? Non ha senso, non riesco a farmelo entrare nel cervello!” imprecava sua
madre di continuo “Loro ridono, ma vorrei vederle a parlare albanese, alle signore!”. Ionut si
dispiaceva sempre di vederla coi capelli arruffati e un giorno le chiese di andare dal parrucchiere,
almeno prima dei colloqui coi professori.
Poi, dopo qualche tempo, la sua vita cambiò, senza che fosse necessario fare nulla di particolare.
Semplicemente, le parole e le abitudini e i rumori cominciarono a diventare banale quotidianità.
La prima volta che portò Chiara a casa sua provò un profondo senso di vergogna: immaginava
quella ragazza dal profumo raffinato in una camera rosa e bianca, fatta di libri, foto e peluche,
mentre la sua era spoglia e piena solo dei vestiti sporchi di suo fratello; non era come portarci
Giacomo, Mattia o Saverio perchè loro erano maschi, non badavano poi troppo all’odore o alla
miseria quanto alla play e ai dolci alla cannella di sua madre. Con loro poteva essere se stesso, ma
con lei doveva essere all’altezza.
Chiara lo amò per la prima volta in un pomeriggio di novembre, mentre fuori pioveva e sua madre
accompagnava la sorella a lezione di violino; gli strinse la mano incastrando tutte le dita nelle sue
dall’ingresso sino al portone del palazzo e lo baciò due volte prima di lasciarlo andare. Ionut corse,
con poche gocce ad inumidirgli i capelli, fino a casa di Mattia, che era solo a due isolati da quella
della ragazza; citofonò, lo fece scendere e sulle scale del kebabbaro gli raccontò la sua adrenalina,
ricevendo qualche pacca sulla spalla. Mentre aspettava l’autobus e fumava avidamente la Camel,
come la sua vita, sentì che non sarebbe mai stato più felice come in quel momento, e sorrise tra se e
se.
Furono tre anni di compiti in classe, birre, fughe a ostia, gambe congiunte, gelosie, partite di
calcetto, sms e speranze.
Ionut aveva lottato e sperato, e alla fine aveva imparato ad essere uno di loro, più o meno. C’era
dentro, dopotutto. Ora si sentiva italiano, a casa.
Quella stupida notte che gli tolse il respiro Chiara la ricorda come freddissima, anche se era quasi
maggio: i rumori ovattati delle sirene, la disperazione tutt’intorno, la luce arancione e l’odore dei
pneumatici bruciati e, ancora e più forte, l’odore del sangue sull’asfalto.
Era tutto terribilmente gelido.
Al suo funerale abbracciò la madre di Ionut e le sussurò “Unë kurrë nuk do të harroj” nell’orecchio
prima di andarsene, la stessa frase che lui le aveva scritto dietro una foto di loro due per la prima
volta in campeggio a Tarquinia.
Il tempo passò, Chiara amò ancora, si iscrisse all’università e penso a Ionut di tanto in tanto, quando
si sentiva triste o si vedeva coi vecchi compagni di classe; si abituò a quel bruciore di stomaco che
le prendeva quando se ne parlava e lo fece diventare parte del suo essere, senza badarci più come i
primi giorni.
Poi, alle 3.24 di un sabato sera, uscì da un locale a fumarsi una sigaretta col suo nuovo ragazzo e,
appoggiata alla parete del vecchio stabile, giocò coi capelli di lui e baciandolo lo chiamò “Amore”.
Un cellulare squillò, lei sbuffò ma poi sorrise e il ragazzo, divertito dalla sua espressione, la baciò
ancora e rispose, allontanandosi dalla confusione del chiacchiericcio. Solo allora Chiara potè notare
la faccia di una donna sui trentacinque, bionda e con le labbra rossissime, guardare dietro di lei
inorridita, scuotere la testa e rigirarsi verso le sue amiche, mostrando la schiena seminuda.
Dapprima fu catturata dalla scollatura della donna, solo dopo si voltò e lesse “Albanesi de merda
tornatevene a casa vostra. ROMA RIPULITA” proprio vicino al suo corpo, sul muro che la
sorreggeva fino ad un istante prima.
Chiara, quella notte, ripensò a Ionut come non faceva da tanto tempo, rimpianse tutto quello che
sarebbe potuto essere e che non fu, tutto quello che sarebbe potuto diventare ma che il destino volle
amputare. Aspirò la Malboro e si asciugò col pollice una lacrima, pensando a quanti Ionut sarebbero
rimasti feriti da una frase così stupida e da quante Chiara si sarebbero sentite imbarazzate, non
accettate e sole. Aspirò ancora, sentendo che non sarebbe mai più stata felice come quel pomeriggio
di qualche anno prima, quando la madre aveva accompagnato sua sorella a lezione di violino e lei lo
aveva baciato due volte sulla soglia del portone del palazzo prima di lasciarlo andare via.
Anche Chiara si sentiva italiana, ma affatto a casa.


Le linee della lentezza

Gli ultimi quattro anni
le due scale mobili
quel “Femme rompue”
e i sempiterni ritorni.

Vorrebbe lacrimarlo via
ma si aggroviglia alla gola
e il popolo dei pendolari con le loro madonne
e le ragioni dell’inchiostro sfiorate coi polpastrelli
e le tempistiche di arrivo del tramonto aeroportuale
e l’Ipod che canta il ricordo abissale
e Vale che gioca col fermacapelli.

I due vecchi cani e il loro scodinzolare
Dead poets society e gli acquerelli in cantina
Rieti, l’acquamarina
e i souvenir americani.

Le linee della lentezza l’avevano
e gli occhi fermi vagavano
sopra i passeggeri
e oltre la stratosfera
e si scontravano col vetro opaco
per imparare a tornare
dove tutto era iniziato.


Journal intime, 12 janvier: La casa sull’albero

Davanti alla finestra della mia stanza, che dà sulla piccola traversa petulante arrampicata tra la gare
e la tangenziale, c’è questo albero, questa enorme massa di ricci verdi, gialli e rossastri, dai quali si
dipana sempre l’odore di prato appena tagliato. A primo impatto, sembrerebbe un arbusto triste,
imbronciato, quasi sul punto di morire; ad una osservazione più attenta, però, ci si accorge subito
che è proprio questo cipiglio vissuto a donargli fascino. Appena arrivata qui, non mi sono accorta
subito dell’entità guardinga e fiera del mio ospite, tanto che, quando qualche settimana fa, mentre
fissavo distratta il cielo grigio, me lo sono ritrovata davanti, sono rimasta assolutamente stupita di
come la sua rigogliosa imponenza possa essermi sfuggita per tanti giorni. Da allora mi capita spesso
di scoprirmi ad osservarlo, mentre sorseggio caffè allongé aspettando la fine della pioggia. Mi
protegge dagli sguardi indiscreti degli inquilini di fronte, che altrimenti si accavallerebbero sui vetri
mai lucidi, visto che io, ragazza di campagna abituata alla solitudine, sono solita lasciare le serrande
spalancate, per catturare dal quartiere luce e calore naturali. Si muove lento, quasi ondeggiando con
il ritmo del vento, imitando il ticchettio dei minuti sulla lancetta, mentre fisso l’orologio e aspetto
che il tempo passi, che spunti il sole; mi tiene compagnia, lanciando disordinatamente qualche
foglia sopra i tetti dei palazzi e salutandomi coi lunghi rami affusolati. Si staglia in cielo, come per
accompagnare i fumi che esalano dai tubi di scappamento delle auto in perfetta fila, lontani dai
bambini nei jardins. Mi accorgo dei suoi bisbigli, nelle notti in cui rincaso all’alba e fatico ad
addormentarmi; comunica coi rumori del buio e io non posso non spiare i suoi segreti, spalancando
le braccia e tenendo gli occhi chiusi. È un pezzo di autenticità nel centro del cemento, quasi retrò
nella sua banale perfezione.
Se penso all’Italia, ormai lontana chilometri ed ore, ai miei amici di sempre, a mia madre, alle aule
deserte alle sei di pomeriggio e al traffico in tilt nell’ora di punta, alla pasta, ai cellulari squillanti
negli autobus, ai racconti di guerra di mia nonna, alle serate passate in macchina a gridare canzoni e
ai tramonti d’erba e pane e mortadella, alle corse sotto il sole e alle partite di calcio sul divano, mi
sento radicata, solida e sicura, sento di essere parte di qualcosa di definitivo e definito per sempre.
Di qualcosa di retorico, dicono, ma di reale e di mio, come solo una casa sa essere.
Spio il mio amico sempreverde e ripenso ai tanti alberi della mia infanzia: alla casa di rami secchi
arrangiata con i miei cugini, alcova di mille sogni e altrettanti giochi; agli ulivi di mio nonno, alla
cura e al tempo che dedica loro con lena e abilità, alla fierezza che gli leggo nel viso quando li
osserva crescere sani e rigogliosi.
Per me, in questo nucleo pulsante di Europa, casa è quest’albero.
Sono partita il 7 gennaio. È stato mio padre ad accompagnarmi all’aeroporto. Era una scena che
avevo vissuto già tante volte: apro la portiera della Mercedes e mi siedo appoggiando la borsa a
terra, fra le gambe, mentre, dall’altro lato lui lascia lo sportello aperto; si sente sbattere forte il
portabagagli, dove papà mi sistema le valigie; mentre mi allaccio la cintura sale anche lui, e si sfila
la giacca per allungarla sul sedile posteriore, perché non si sgualcisca; poi da gas e partiamo; mentre
anche lui si allaccia le cinture, un attimo prima di varcare il cancello, io accendo la radio e alzo due
tacche di volume, perché a mio padre piace ascoltare la musica sempre un po’ bassa; mentre siamo
in viaggio mi fa le solite raccomandazioni, addolcite da qualche battuta, mi elenca gli oggetti che
avrei potuto dimenticare e si assicura che abbia abbastanza denaro; una volta arrivati, parcheggia ed
è più rapido di me a scendere dall’auto, mi sistema il trolley accanto ai piedi, sollevandomi l’asta
per trasportarlo; poi mi abbraccia, con un braccio solo, e mi da tre baci, due sulla guancia destra e
uno sulla sinistra. Mi giro sempre per salutarlo con la mano, e lui ricambia da lontano, con un
sorriso appena accennato. Poi parto, e so che al mio ritorno lo troverò sempre là, con la solita
espressione tra lo spazientito per l’attesa e la gioia nel rivedermi; so che premurosamente prenderà il
trolley e lo riporrà nel solito portabagagli e che farà viaggiare la macchina in direzione di casa,
compiendo gli stessi piccoli gesti che rendono tutto prevedibile e quotidiano. E prezioso.
Il mio tragitto stavolta non prevederà l’ultima fase per un bel po’ di tempo, e le paure che additavo
agli altri ed ero convinta non mi appartenessero iniziano a fare capolino nella mia nuova ed
entusiasmante vita. Ma ciò che attendo di vivere non mi spaventa, tutt’altro: si è sempre entusiasti
quando si conosce il punto esatto dal quale si è partiti e, soprattutto, si ha la consapevolezza che è
lo stesso nel quale si può far ritorno in qualsiasi sempre.
Sono partita il 7 gennaio mentre fuori pioveva e, per tutto il tempo, non ho fatto altro che
osservare queste piccole gocce rincorrersi sul finestrino, incontrarsi e incanalarsi in un unico
grande corso, defluire sul fondo, per poi perdersi e ricominciare.