Alla Parola

Parola

 

Segno?

 

Non solo

Salvezza?

Neanche

 

Cosa?

 

Bellezza

 

 

Stanco sono di volere capire

Perché azzurro è il mare

Perché provo dolore

Cosa sia l’amore

 

Stanco sono di volere aspettare

Un futuro celato in cortine

di fumo

Un giorno felice che mai si vedrà

 

L’unica arma che contro il non-senso

di questa esistenza

Io posso forgiare

 

È la Nuda Parola

 

Qual petal dal bianco

Candore Cremisi,

Fiocco di neve celeste

che cade potente dal cielo vuoto

della mia mente,

Foglia di verde bellezza che vibra

Sonora

al soffio dell’esistenza

 

Non voglio però strumento inumano

che il mondo scomponga con chirurga

mano

 

Non voglio però strumento divino

che il mondo riveli infinito

Od un Vero catturi

O senta le voci della Natura

 

Voglio però strumento di bellezza

Disvelator

 

D’etere

 

Portator

Non di sensi assoluti

Non di problemi soluti

 

Ma musica dolce e solo umana

Una goccia di sale

che scavi profonda nell’Abisso

del Mare dell’uomo

E prorompa qual sublime vulcano

Dalla mia mano febbrile

 

Parola Pregna

 

Come luce d’umana salvezza

Di Terra composta

Di Sogno velata

 

Ti inseguirò ora e per sempre

E rispetto è da me

per chi colse e coglie con me

Il tuo luminoso Splendor

 

Mistero Arcano e Bello è

Profondare nel Continente remoto

dei Segni

 

Ed ogni letter che potrò scerner

(pur con tanto tormento)

Lenirà il Duol(mio?) della vita.


 

Pro-vocando un senso

(“Perorazione a me stesso”)

 

Anni indarno trascorsi piango

Gocce amare, poi che non disperato

non matto fu il mio meridiano zelo

Φεϋ

Ad un tenario strame,

pendula e sospesa

sopr’ogni nata testa,

s’allaccia damoclea

la lama dell’oblio.

 

E rammarico, invero Giöia

Invidiösa ed Egoïsta,

talor atra m’apprende a veder

molti crini recisi e

poche draghe, ben poche

ancora pencolano,

e sotto eterni idoli d’oro,

e accanto soltanto polverosa

dimenticanza.

 

Ma voi vati della poesia mia

adorata, con non mortal balzo

valicaste l’erto colle dell’obito

e vinceste quella infame Bisca

che il Caso ammanna ad ognuno,

ed i crini or meno or più

spessi tende e dona voi perenne

gloria e a noi morte ed oblio.

 

Quanto genio vi è stato infuso!

Allor noi Giare vuote picciol aiuto

speriamo; invece da un dirupo,

giù, scagliaci beffardo

Il Giovin Bendato, e

cocci rotti in mille

frammenti confusi(violento fiume

or quinci or quindi depone), sul fondo

cadendo vediamo e siamo già

distrutti.

 

Perché tanto penare?

Vuoto è il mio scopo.

Quand’infatti, d’un greco cratere

il Poëta trae rubigno nettar

d’eterno e parole pregne empie

col calice d’oro, mentr’io con coppa

forata traggo aria e vuoti sono

i miei segni, ch’altro resta fuorché

il pianto?

 

Quanta superbia leggo nel mio dire,

qual tumido ufficiäle che

scagliar vuole la torma infernale

contro l’aëre odoroso d’un fiore,

che dei sogni la materia sua si compone,

e vince, mostro, del Bel sciupatore.

 

Ma la realtà non voglio soffrire

ed il suo bigio muro i’voglio

domare, stender sopr’esso profumi

a pastello, farlo tremar al suon

d’un archetto; il mio canto sia tuono.

Ed il lottar sarà per me già

Vittoria.

 

Non è illusion l’eterna vita

d’un genio…

Quant’io, eterno non sono,

ho voluto comunque

tentare, non me ne voglio pentire.

Vaghi pensier non sovvengono in me

e con mani agresti accarezzo

d’un cristal bianca e fragil la perla

Poesia.

 

Eppur chi solo Eterno Cibo

assapora, d’altro non si pasce

che d’esso, e l’impeto furioso

ci avvolge e bello vogliam

crear, e d’un duol soltanto

ci rapirà l’estrema ora:

la fine d’esto nostro mio canto.