Parvenze

Apparenti trasparenze sospese

e nell’aria densa rapprese.

Il vento impietoso ti insegna

a sognar di nuovo attraverso una penna:

Una tortora orlata di pioggia disegna

con ali grondanti due archi di nebbia.

Definisci; Cos’hai fatto?

Un dado lercio

su un foglio bianco

ho tratto.


 

Il ballo

Rinato dal soffrire

ora danzo per morire;

Nell’ampia sala spenta

che d’organo vibra,

un’ombra volteggia lenta,

di specchio legata ad un’altra.

Appassite nel baglior

di fioche candele,

le gambe sfumano

in passi, svelte e fiere

come maestoso rotear

d’ali di corvo nere.

E brucian sì gli sguardi

d’altri tenebrosi amanti.


 

Gli scacchi

E brindo ancora

ma ho un’amica accanto.

Oh sorella di luna nuova,

odendo i tuoi passi arranco.

Di notte vestita,

di pace profuma

ed i sensi ruberà

a chi al fianco suo

confidente berrà.

Oh nera regina perenne del fato,

il bianco alfiere al calar ti ha sfidato

e un brindisi macabro

al vento ha levato:

All’amor che dono alla morte,

alla morte che sogna d’amor.


Morbido, oscuro calar

Il cantar delle nere signore ombre

al più scuro risuonar d’organo!

 

D’impulso le trattieni

ma migrando, allungandosi

da un profilo tracciato

abbracciano gli alberi

confidandosi alla notte.

 

Perverso, questo sentir voci

al soffocar del buio m’inquieta;

Travolto anch’io mi spengo

e m’avvolgo di quelle siepi,

di quelle strade vicine al sogno,

sovrano del mio essere.


Metamorfosi

Da quando si è spenta la luce

nelle mie parole?

 

Quale attimo ha avvolto

di seta nera questo sole?

 

Che inganno ha travolto

quegli atomi, oh dolce sera,

mentre riempivi un buio

che caldo o freddo

riempivi di primavera?

 

Ignaro mi colgo appassito

nel campo dei miei sospiri

e nell’aria tesa dei miei lamenti

rinasco falena,

muoio falena

in un pugno di fiato,

in gabbie di vento,

nell’ultimo pianto

che in placide nebbie

il mio volto ha infranto.


Prede

Carne e sangue

su un tavolo taciti

a rapprendersi,

a macerarsi.

 

Calce viva sul mio corpo,

per non infettarti

dell’ardore bramoso

dei miei arti.

 

Rossi pretesti,

pavidi meriggi

a rincorrere i lesti

e feroci ghepardi

dei tuoi schivi sguardi.

 

Un paziente gufo notturno

ora è un’aquila

che alta spìa il mondo,

schiava del suo azzurro.