Racconti
Coincidenze
Lui si chiama Guido, il flâneur. Come un personaggio di un’opera francese decadente, vaga per le strade del paese con una sedia sulle spalle su cui campeggiano citazioni di Neruda. Tutti lo conoscono e sanno che possono trovarlo seduto sul ponte lama Monachile, che separa le due anime del paese, nelle rare giornate in cui non soffia il maestrale. Sceglie con cura la posizione, sistema la sedia, si accomoda e si immerge nella lettura del suo quotidiano. La sua pelle abbronzata, ancora poco segnata dalle rughe per un uomo della sua età, desta ammirazione e forse un pizzico di invidia negli abitanti, che in fondo, ammirano la scelta coraggiosa di quest’uomo. Solitamente l’età di un flâneur non è data saperla. Ma con Guido è diverso. Lui firma le sue opere e le chiude con la sua data di nascita e di morte: 1946-2046. Perché lui sa già che vivrà cent’anni. Anche se il suo incedere si è fatto più lento, anche se non riesce a fare più tutto quello che faceva un tempo. Anche se i medici gli hanno detto che deve riguardarsi. Lui non conosce altro modo per vivere la vita. Se non sedersi e osservare il mondo. Emozionarsi e far dono delle sue emozioni sotto forma di parole. Lui dissemina il paese con frasi e poesie di autori conosciuti, scritte sui muri, sui tavolini dei bari, sulle sedie dei ristoranti. Parole disseminate quasi a caso. O forse, secondo un disegno più grande di lui. E di tutti noi. Che l’Universo ha un linguaggio magico. Fatto di segni apparentemente privi di senso. E si serve di persone come Guido per disseminarli in giro, come polvere di stelle in una notte buia.
Oggi Guido si sente pieno di vita. Più del solito. Così dopo aver letto il quotidiano e averlo scarabocchiato un po’, lo ha donato come fa di solito, con una scritta rossa in prima pagina a caratteri cubitali “gracias a la vida que me ha dato tanto”, un testo di Violeta Parras. Una canzone struggente ed intensa. Un’ode alla vita che ci riempie di doni, in ogni istante, se solo siamo in grado di coglierli. Un po’ come i segni di Guido.
La canicola imperversa. E anche un nomade come Guido ha bisogno di un po’ di refrigerio. Il campanile della Cattedrale sembra un riparo perfetto. Proprio lì, all’angolo tra Piazza dell’Orologio e Via San Benedetto. Che nei giorni in cui soffia il maestrale è impossibile rimanerci anche solo per qualche secondo, perché il freddo ti entra nelle ossa. Ma in quell’afoso pomeriggio di Luglio è l’unico posto in cui prendere una boccata d’aria. Certo non è un posto in cui poter meditare in silenzio sul senso della vita. Crocevia tra le due piazze principali, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di un’indicazione per raggiungere le terrazze o la Grotta Palazzese. E poi ci sono i proprietari delle botteghe, che appena i clienti vanno via, scappano a sedersi sui gradini della chiesa. Se c’è caldo possono invocare il maestrale, e se c’è il maestrale almeno hanno qualcosa di cui lamentarsi. Perché troviamo sempre un inspiegabile senso di conforto nel lamentarci della nostra vita. Quasi come un gesto scaramantico. Come se a dire che va tutto bene si diventasse vulnerabili ai tiri mancini del destino.
“Ciao Guido. So che la domanda ti sembrerà strana, ma ho cercato dappertutto e mi hanno detto che forse tu mi puoi aiutare. Hai per caso La Repubblica di oggi?”
I suoi occhi si illuminano. Guido adora quando qualcuno si ferma a parlare con lui. Sempre che non sia immerso nella lettura. Ma non sta leggendo. Riposa solo la sua gamba stanca.
“Io ho sempre La Repubblica! Ma ho già finito di leggerla e ne ho fatto dono. Non è un problema. Chiedi in giro. La troverai”.
La risposta di Guido ha tutta l’aria di essere un segnale, in questa insolita caccia al tesoro cominciata da qualche minuto. Sento che questo pomeriggio mi riserverà sorprese piacevoli.
Saluto Guido con un grande sorriso, augurandogli buon pomeriggio e mi dirigo verso Piazza dell’Orologio.
Allora vediamo. Il paese è piccolo, ma non tanto piccolo abbastanza da chiedere a tutti se hanno il quotidiano di Guido. Ma quel quotidiano è da qualche parte. E io desidero leggerlo. E quando qualcuno desidera qualcosa con tutto se stesso, l’Universo cospira perché possa realizzarla. Basta non scoraggiarsi.
Sento una goccia scivolarmi via lungo la fronte. Accidenti che caldo!
Ripenso divertita a come sia cominciata quest’avventura pomeridiana. Con una dedica.
Compra La Repubblica. Pag. 48. Duchamp dice ad Annina cosa avrebbe dovuto fare. E io la dedico a te.
Galeotto è stato il messaggio che ha interrotto il flusso dei miei pensieri mentre tornavo a casa dopo il bagno quotidiano. Ero sul ponte Lama Monachile, come Guido, e guardavo estasiata il mio paese arroccato sul mare. C’è qualcosa di magico in quei due costoni di roccia a strapiombo sul mare. Si osservano, divisi dal mare, come timidi amanti non coraggiosi abbastanza da avvicinarsi. Il mio divertimento più grande è attraversare il ponte e voltarmi indietro negli ultimi metri. Cambiando prospettiva le due scogliere si avvicinano, si sfiorano e poi si uniscono in un bacio struggente. Ma non oggi. Quel messaggio mi ha incuriosita.
Chi era Annina? E cosa avrebbe mai detto Duchamp di così rilevante per me? C’era un solo modo di scoprirlo. Compare il giornale.
Ma la domenica pomeriggio l’edicola del paese è chiusa.
Forse la signora dell’edicola ha fatto tardi. Forse non aveva di meglio da fare ed è rimasta lì seduta sul suo sgabello, dal quale osserva curiosa la vita dei suoi compaesani.
Minuta, con i capelli corti e il viso segnato dalla vita. E quegli occhi profondi, che osservano la gente che, persa nei suoi pensieri, chiede il quotidiano locale. Perché nel paese leggono tutti quello, La Gazzetta del Mezzogiorno, che è disponibile in tutti i bar. Ma oggi io cerco La Repubblica. Niente. La serranda è abbassata. L’edicola è chiusa.
Ma magari oggi è il mio giorno fortunato e in qualche bar c’è una copia de La Repubblica.
Comincio a girare divertita tra i bar. Nulla. Così sono arrivata a Guido. Lui legge sempre La Repubblica. Ma oggi ne ha gia fatto dono a qualcuno.
Ed eccomi qui. Alla ricerca de La Repubblica di Guido.
La piazza è ancora vuota. Il caldo afoso tiene le persone incollate agli scogli o a chiacchierare in acqua.
Mi serve uno dei deliziosi centrifugati della yogurteria all’angolo, da bere all’ombra.
Quel quotidiano deve essere nelle mani di qualcuno qui in piazza. Ne sono certa. Perché è quello che desidero con tutto il mio cuore.
E quando qualcuno desidera qualcosa con tutto se stesso, l’Universo cospira perché possa realizzarla.
Ma l’Universo parla un linguaggio silenzioso, fatto di sussulti, brividi e segni nascosti. E per ascoltarlo l’unico modo è affidarsi all’intuito. Sento già nell’aria la cospirazione magica dell’Universo. Chiudo gli occhi. Sorrido divertita e quando li riapro mi guardo attorno.
Allora, tanto per cominciare vediamo se c’è qualcuno degli amici di Guido e poi se qualcuno sta leggendo. Eccolo! Deve essere lui, Luca. Un mio vecchio amico.
Perché? Per una serie di buoni motivi. Perché ha lo sguardo simpatico e mi ha appena salutata con un gran sorriso. Perché ha il mio stesso cognome. E soprattutto perché gira in paese con una bici sgangherata come la mia.
“Ciao Luca. Per caso hai La Repubblica?”
Il cameriere seduto accanto a Luca mi guarda con aria sorpresa. Ma immaginate la sua sorpresa quando Luca si alza di scatto e fa ritorno dall’ingresso del ristorante sventolando il quotidiano stropicciato.
“È speciale. Ha la dedica di Guido!”
Quel quotidiano ha fatto il giro del paese, passando di mano in mano. Macchie di cioccolato, forse del croissant mangiato a colazione, e di olio, forse del bancone della pizzeria di Luca, che lo ha lasciato da parte. Perché non puoi buttare via un regalo di Guido, con tanto di dedica. E poi non si sa mai.
A volte la mania, tipica della gente meridionale, di “conservare” tutto, torna utile.
“Un estratto rinfrescante con cetriolo, sedano e zenzero. Ecco cosa ti ci vuole!”
Mi piace venire qui. Ci lavorava gente sempre sorridente. Quando mettono la polpa di frutta e le noccioline sullo yogurt sembra stiano componendo un’opera d’arte. Gli occhi di chi svolge il proprio lavoro la dicono lunga sulla qualità del prodotto finale. Non servono lunghe interviste per assumere qualcuno. Basta chiedergli di fare per qualche minuto quello che farà una volta assunto, e osservare i suoi occhi con attenzione. Non mentono mai.
Anche il tavolo è perfetto. All’ombra. In una posizione riservata, e soprattutto vicino all’incrocio dei due vicoli. C’è qualcosa di magico negli incroci. Sanno di possibilità. Ci ricordano che abbiamo sempre una scelta.
L’attesa era finita. A breve avrei scoperto cosa aveva mai da dirmi di così importante Duchamp.
Perché lo so che si tratta di un segno. E di un segno importante. Perché è arrivato proprio mentre pensavo che fosse giunto il momento di decidere cosa fare della mia vita.
E poi è arrivato da lui. Che avevo appena conosciuto, ma che mi sembrava di conoscere da una vita. Lui che nei rari scambi di messaggi, senza saperlo, dava voce ai miei pensieri. Ma ormai ho smesso di meravigliarmi. Perché in fondo lo so che le persone non si incontrano mai per caso. Le loro anime si sono incontrate molto prima che gli sguardi si incontrassero e si sono fatte una promessa. La promessa di consegnarsi un messaggio.
Pagina 25, cronaca internazionale. Pagina 55, cronaca sportiva. Devono aver confuso le pagine.
Non amo leggere i quotidiani, per via di quel formato poco pratico. Che se sei al mare devi assumere posizioni scomodissime per non far cadere tutte le pagine. E che quando soffia il maestrale leggere diventa un esercizio di calma interiore.
Niente da fare. Pagina 48 non è qui. Non è ancora giunto il momento di bere il mio estratto rinfrescante. E ora? In paese tutti sanno che Guido e la sua sedia hanno tempi di permanenza molto limitati in un luogo. Ed infatti. Non è più all’ombra della cattedrale. La strada è vuota. Dino, il salumiere, appena apparso sull’uscio della sua bottega, forse colpito dal mio sguardo che deve apparire un po’ deluso, mi chiede se ho bisogno di qualcosa.
“Guido. Dov’è andato Guido?”
“Era stanco. Non si sentiva molto bene ed è andato a casa a riposare”.
Un velo di delusione si insinua nei miei pensieri.
Era troppo bello per… – ma le parole di Judy mi tornano in mente. Quando un pensiero negativo sta per sorgere e te ne rendi conto, non portarlo a termine. Ferma la mente. E pensa di nuovo.
Ecco, ora era giunto il momento di mettere in pratica quel consiglio. Judy era un altro degli incontri stranissimi di cui era costellata questa calda estate. Una di quelle persone che arrivano all’improvviso, ti travolgono con la loro energia, e vanno via. Ma prima di salutarti, ti fissano dritto negli occhi e ti dicono qualcosa che ti fa venire la pelle d’oca.
Posso scegliere. E scelgo di sorridere!
Vai. Vai. Lo trovi sicuro. Non è passato tanto tempo.
Non me lo faccio ripetere ancora. Non può essere andato lontano.
E infatti, Guido si era spostato solo di pochi metri. Fermo sul ciglio della strada. A chiacchierare con Fabrizio. Fabrizio fa questo effetto a tutti. Ha un sorriso così contagioso e una voce così intensa e simpatica che è quasi impossibile non fermarsi a scambiare due chiacchiere con lui. Doveva aver fatto dimenticare a Guido del suo malore.
Grazie al cielo! Alzo lo sguardo al cielo divertita, mentre mi riprendo dal fiatone per la corsa.
“Ciao Vitto!” – la voce di Fabrizio tuona nel vicoletto.
“Per fortuna siete qui! Ciao Fabri! Guido ho trovato la tua Repubblica! Bellissima la dedica, ma non c’è la pagina 48″.
Il tono della voce è concitato. Devo essere rossa. Chiudo gli occhi aspettando la risposta di Guido sperando in un bel…”ma certo, è nell’inserto della cultura. Io compro La Repubblica per quello la domenica e lo tengo per me”.
Forse dovrei essere sorpresa, ma ho capito che tutto è possibile in questo afoso pomeriggio di luglio.
“Me lo presti per qualche minuto? Devo leggerlo. C’è un messaggio per me”.
“E da chi? Se non sono indiscreto”.
“Cioè il messaggio non è scritto per me, ma quello che c’è scritto è per me. Lo so è tutto un po’ strano. Devo solo leggere un articolo”.
“Certo. Quale? E perché?”
Guido non si accontenta mai di una risposta sbrigativa. Perché lui adora intavolare conversazioni. Se poi si tratta di cultura è un invito a nozze.
“Allora, è un articolo a pagina 48 che parla di una certa Annina. Ma tu la conosci?”
“Ok ok, aspetta. Eccolo qui”.
Grazie al cielo! L’Universo ha suggerito a Guido di tenere a bada la sua curiosità!
Estrae l’inserto ripiegato dalla sua borsa di paglia. Si, perché lui gira per il paese con un cappello in paglia modello panama, occhiali da sole femminili e borsa in paglia intrecciata con un grande fiore giallo!
Io da grande voglio essere Guido! A lui non importa cosa pensa la gente. Pensa solo a vivere lui. E ad essere se stesso.
“Mi permetto di aggiungere una dedica alla dedica. Posso?”
Come rifiutare una dedica. E soprattutto, come mettersi di mezzo con l’Universo che sta cercando in tutti i modi di comunicare con me. Dopotutto, continuo a fare domande. In qualche modo dovrà pure darmi delle risposte.
Sottoscrivo e condivido e sancisco quanto detto. Guido
Ringrazio calorosamente Guido, saluto Fabrizio e riprendo a correre. Il centrifugato mi aspetta.
Ci siamo. O meglio, ci risiamo!
Centrifugato, pagina 48 e un meraviglioso angolo all’ombra. Si è alzata anche una leggera brezza per rendere il momento semplicemente magico.
Scopriamo chi è Annina. Annina Nosei. Una gallerista d’arte. Romana, aveva conosciuto il successo tra Roma, Parigi e New York, ora in pensione. Di Duchamp nemmeno l’ombra. Gli occhi scorrono veloci. Perché è inutile, non riusciamo a goderceli questi istanti di pura magia. Dimentichiamo troppo di frequente che l’attesa rende il momento della scoperta più intenso. Ma non è proprio questo il momento di fare un esercizio di auto consapevolezza dei miei limiti. Voglio sapere cosa diceva Duchamp!
“Il faut que tu te transforme en argent”.
Ecco appunto, anche Annina alla fine dell’intervista dice che era rimasta delusa quando Duchamp gliel’aveva detto. Lui. L’artista a cui Annina aveva dedicato la sua tesi di laurea. Il suo mito. La persona che aveva adorato ed adulato per anni. Alla domanda “cosa dovrei fare della mia vita?”, lui aveva risposto “è arrivato il momento che tu faccia soldi”.
E la poesia? E il romanticismo artistico? Ma gli artisti non vivono di amore, ispirazione e creatività?
Sono delusa. Più di Annina. Perché almeno lei se l’era scelto Duchamp per la sua tesi. Io fino a quel momento ignoravo l’esistenza di Annina e di questo incontro e, soprattutto, di questa insignificante frase. E avrei vissuto benissimo anche rimanendo in tale ignoranza.
Benedetta impazienza!
L’articolo è lungo due pagine.
A me ne manca ancora una. Ma mi è passata la voglia. Finirò il mio centrifugato. Improvvisamente mi è tornato caldo.
La nostra mente riesce sempre a darci un motivo per cedere alla delusione e ritirarci. Come se volesse proteggerci dall’irreparabile. Spesso però, quando la seguiamo, sfioriamo la possibilità di scoprire qualcosa di magico.
E poi all’improvviso qualla sottolineatura. Perché Guido dissemina giornali e riviste di sottolineature nere. Un brivido mi attraversa la schiena.
“Durante una seduta di terapia motivazionale mi tornò in mente la frase di Duchamp (…) Gliela dissi (alla terapeuta). Non seppe rispondermi. Ma dove ero finita? Poi, un giorno compresi. Andava letta come trasformazione alchemica. Diventare come il metallo più nobile”.
“Argent” non significa denaro. Ma metallo prezioso. Ecco quello che le aveva detto Duchamp. Le aveva ricordato che in ognuno di noi esiste il potenziale per una trasformazione alchemica. Le aveva ricordato di guardarsi dentro, in profondità, avendo la pazienza di attraversare le tenebre, per portare in vita la luce. Perché questo fa un alchimista. E un artista lo sa bene.
Perché gli artisti lo sanno che le risposte sono dentro ciascuno di noi. Lo sanno, loro che rendono visibile quello che visibile non è. Loro che si trasformano in canali, in strumenti nelle mani del genio creativo universale, che li usa per donare a noi umani una bellezza che altrimenti rimarrebbe inespressa.
Piango. Perché piango sempre in quei momenti in cui la verità si schiude davanti ai miei occhi. In quei momenti in cui tutto diventa chiaro.
Avevo chiesto cosa dovessi fare della mia vita. Cercavo febbrilmente il senso della mia esistenza. E lo cercavo all’esterno. Nel lavoro che avrei dovuto fare, nei progetti che avrei dovuto realizzare. Lo cercavo negli altri. Come se non andassi bene esattamente com’ero e la mia esistenza non avesse valore. E l’Universo aveva deciso di venirmi in aiuto. Mobilitando un intero esercito di persone perché io potessi ricevere il mio messaggio. Chi mi aveva dedicato la frase. Chi mi aveva consegnato il giornale. Chi l’aveva comprato. Chi aveva scritto l’articolo e chi l’aveva commissionato. Annina e Duchamp. E tutti gli “aiutanti” che mi avevano accompagnato in questo straordinario pomeriggio estivo in una caccia al tesoro che mi aveva riportato al mio punto di partenza. Dentro di me.
Ma con una consapevolezza maggiore. Che posso smettere di cercare. Perché tutto quello di cui abbiamo bisogno è nascosto nel posto in cui non ci verrebbe mai in mente di cercare. Dentro di noi.
PS: Per i momenti in cui sicuramente metterò in dubbio che queste “coincidenze” siano state solo fortuiti accadimenti (perché il dubbio è un fedele compagno di vita): la frase che mi è frullata in testa per tutto il pomeriggio “E quando qualcuno desidera qualcosa con tutto se stesso, l’Universo cospira perché possa realizzarla” è una citazione de L’alchimista di Coelho. Così per dire…l’ennesima coincidenza!
Vittoria Scagliusi
Addii
Il sole disegnava forme geometriche sui palazzi signorili e sorrisi sui volti dei passanti. La felicità è un’idea semplice nelle giornate di sole autunnali.
Sorrideva anche lei. Del sorriso che dipinge il volto quando sappiamo che una persona che ci fa battere il cuore arriverà a momenti. Aveva voglia di dolcezza. E soprattutto voleva soffiare via le nuvole di un’incomprensione passeggera. In una giornata così non c’è spazio per le nuvole.
Dopotutto è normale che due persone che si conoscono da poco, a volte debbano chiarirsi. Così, per svelare un pezzetto di se stessi all’altro.
Lo vide arrivare in bici. Aveva gli occhiali da sole blu. Come quella volta: la prima volta che l’aveva salutata, andando via.
Il suo cuore accelerò il passo. La magia di un momento qualunque, che diventa straordinario.
La baciò sulla fronte. Un bacio leggero, dolce. Come fosse la cosa più naturale del mondo. Come un gesto abitudinario. Come chi ne ha già dati baci su quella fronte. E ne darà ancora in futuro. E quando crediamo che un gesto avverrà ancora, non lo assaporiamo davvero fino in fondo.
Un cappuccino e un ginseng. Il cappuccino tiepido. Il ginseng in tazza grande.
Si guardarono negli occhi e sorrisero complici. Quell’ordinazione aveva il sapore dell’estate. Di quella prima volta che si erano seduti al tavolino sospeso nel nulla, a picco sul mare. Con gli occhi scintillanti di chi è stato sorpreso dalla vita.
Erano passati pochi mesi. Ma era diverso ora.
L’atmosfera leggera d’Agosto aveva lasciato il passo alla frenesia novembrina. Perché Novembre è un mese davvero strano. Un rito di passaggio. In cui si ha nostalgia dell’euforia estiva, ma non si ha ancora voglia di fare bilanci per l’anno che si appresta a finire. E si sta sospesi.
Un fiore bianco. La schiuma bianca del cappuccino disegnava un fiore sulla tela marrone del caffè. Era quasi un sacrilegio cancellarlo.
Lo zucchero di canna affondò il fiore. E il cucchiaino cancellò ogni traccia dell’omaggio floreale. Girava il cucchiaino guardando fuori per strada. Le sembrò che avesse qualcosa da dire, ma non sapesse da dove cominciare.
Mi dispiace per quello che è successo nel weekend.
Ma no, non preoccuparti. Eravamo entrambi un po’ nervosi e abbiamo fatto un po’ di confusione.
Lui cominciò a parlare. Dava spiegazioni. Faceva pause. Lei non riusciva a capire dove volesse arrivare. Lo guardava con aria interrogativa e forse, un po’ incalzante. Voleva conoscere la fine di quel discorso.
Mi sono reso conto che non sono innamorato di te. Ecco, questa è la verità.
Quelle parole arrivarono appuntite al cuore, squarciandolo in mille pezzi. Le paure di una vita intera all’improvviso presero forma.
Lui la guardava dritto negli occhi. Ma lei guardava oltre quell’azzurro intenso. Viaggiava nel tempo e nello spazio.
Aveva un sapore ancestrale quella paura che l’aveva stesa al suolo.
Si, era stesa sul pavimento, tremante. Cioè il suo corpo era ancora lì, seduto al tavolo di un graziosissimo bar. Ma lei osservava la scena dal basso.
Quel luogo era quasi surreale. Ricordava le casette nel bosco delle fiabe dei fratelli Grimm. Un edificio basso, tra palazzi alti, ricoperto interamente dall’edera. Le vetrate si difendevano a fatica dai rami. L’ambiente era molto intimo. Pochi tavoli. E le specialità del giorno. Crostata pera e cioccolato. Eppure la dolcezza del cioccolato era stata completamente spazzata via.
Non era possibile. Non stava succedendo a lei.
Poteva cancellare quell’istante? Avrebbe tagliato la scena. Cambiato il montaggio.
Ma non era un film e non c’era nessuna scena da sostituire o rifare.
Il rumore di un motorino per strada la destò dal turbine di pensieri che si stavano accalcando nella sua testa.
Lui era ancora lì, seduto alla sua sinistra. Allora era tutto vero. Era davvero successo. Qualcuno le aveva appena detto di non essere innamorato di lei.
Va bene.
Pregava che quella lacrima restasse ferma immobile all’interno del suo occhio destro. Non voleva assolutamente che lui la vedesse piangere. Non voleva mostrargli le sue debolezze. Non le piaceva essere vulnerabile con lui. Non le andava giù mostrarsi vulnerabile e basta.
Ma cosa vuol dire “essere innamorati”?
All’improvviso era come se quelle parole avessero perso un significato. Non sapeva più cosa volesse dire. E lei era innamorata? Come poteva dirlo? Ogni volta che aveva creduto di esserlo era finita male. Perché dichiarare di essere innamorati ci proietta in un mondo irreale, fatto di aspettative, obblighi e doveri.
Mi ami? Allora dimostramelo!
Come se l’amore avesse bisogno di gesta eroiche e prove da superare.
Il suo cuore si era arrestato. Tratteneva il respiro. Forse se lo avesse trattenuto abbastanza sarebbe scomparsa. La vista si fece sfuocata.
All’improvviso era seduta sul divano del suo appartamento signorile in cui viveva anni fa. Scriveva. Scriveva sempre quando non sapeva cosa fare. Quando aveva bisogno di capire. Le parole sul foglio erano bagnate. Le macchie blu dell’inchiostro sciolto dalle lacrime rendevano la lettura poco agevole. O forse erano le sue lacrime che le annebbiavano la vista. La lettera era per lui. Lui che aveva mandato in mille pezzi tutto. Perché era difficile. Perché l’amava più della sua stessa vita, ma era complicato. Era sempre complicato amarla. Perché lei era difficile da amare. Lei che era indipendente. Lei che non chiedeva nulla.
Ma per essere amati bisogna essere deboli?
A Parigi, in una calda notte estiva, con la luna piena. La stessa luna che faceva sognare gli innamorati. A Parigi tutti dovrebbero sentirsi amati. Ma lei era lì, seduta di fronte alla Torre Eiffel illuminata, che vedeva a metà da quella stradina vicina al Trocadero. Aveva in mano il telefono. Scarico e muto. Non ricordava neppure l’indirizzo del suo appartamento affittato per il weekend. E forse non voleva neppure tornarci. Non voleva sentirselo dire ancora. Lo sapeva che era finita. Non aveva bisogno che quelle parole squarciassero ancora una volta il suo cuore. Noi sappiamo sempre dentro di noi quando una storia è arrivata al capolinea. Quando le strade si sono divise. Perché abbiamo scelto diversamente. O perché il ruolo nelle nostre vite si è semplicemente esaurito.
O forse perché ho fatto qualcosa di sbagliato?
Era avvolta nella sua sciarpa. Faceva freddo su quella panchina lungo un canale di Amsterdam. Scriveva. Su un foglio di carta recuperato al bar. Doveva permettere a quel fiume in piena di scorrere fuori dalla sua mente. Aveva bisogno che tutti quei pensieri si trasformassero in parole sulla pagina, che li accoglieva senza giudizio. Man mano che le parole lasciavano la sua testa e si fissavano sulla carta, lei si sentiva più leggera. Non facevano più tanta paura. E pian piano il suo respiro si faceva regolare e il suo cuore tornava a battere calmo. Era andato via per sempre. Senza voltarsi indietro un’ultima volta. Come aveva potuto voltare le spalle al futuro che avevano immaginato assieme?
Cosa c’era di sbagliato in lei?
Per me essere innamorato vuol dire che senti il bisogno e la voglia di trascorrere con l’altra persona il tuo tempo.
La sua risposta l’aveva riportata nel presente
Lei non voleva aver bisogno di qualcuno. Lei bastava a se stessa. Lei desiderava trascorrere momenti felici con lui. Ma era davvero felice?
Cominciava a pensare che l’amore, nel vocabolario dei sinonimi e contrari, fosse al contrario di felicità. Questo le diceva la sua storia. Ma non voleva arrendersi all’evidenza.
Forse abbiamo modi diversi di intendere l’amore. Ma non credo abbia importanza. Qualunque cosa voglia dire per te, non è per me che provi questo sentimento.
Sentì il retrogusto amaro del velo di vittimismo che si celava dietro le sue parole. Si sentì così vulnerabile che l’aria si fece irrespirabile. Il sole era alto e l’aria calda. Ma lei aveva freddo. Freddo dentro.
Forse dovremmo parlare d’altro. Godiamoci questo caffè.
Lo stava facendo ancora. Stava scappando da se stessa. E da tutto. Stava nascondendo i suoi sentimenti. Faceva finta che tutto andasse bene. Era forte lei. Sarebbe sopravvissuta anche a questo.
Non credi dovremmo parlarne?
Quelle parole affondarono il colpo. Il dolore era insostenibile. Sentiva che se lo avesse lasciato andare sarebbe esploso, travolgendo tutto e tutti.
Non mi interessa.
Cosa non ti interessa? Non capisco.
Anche lei non capiva. Non capiva in che incubo orribile si fosse cacciata. Come poteva fare finta che quelle parole non fossero mai state dette?
No. Erano lì tra loro. E segnavano un solco incolmabile. Era tutto uno scherzo. O un incubo.
Il conto per favore.
Rivolse lo sguardo al proprietario del bar. Aveva bisogno di una pausa da quegli occhi profondi, che le entravano dentro. Si sentiva allo scoperto. E aveva paura, paura di scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Sentiva i suoi occhi gonfi. Quelle lacrime pressavano per uscire. E lei non era ancora pronta. Non ora. Non davanti a lui.
Il tempo che gli occorse per liberare la catena della bici le sembrò un’eternità. Le piacevano i suoi gesti eleganti e lenti. Ma in quell’occasione erano interminabili. Interminabili come le lacrime che versò appena lui ebbe voltato l’angolo, dopo averle detto, ti chiamo più tardi.
Non riusciva a pensare ad altro.
Quel bacio leggero del mattino sarebbe stato il loro ultimo bacio. Ma non lo sapeva. Non possiamo mai sapere in anticipo se quello che stiamo dando sarà il nostro ultimo bacio. Perché dimentichiamo sempre che le cose possono cambiare in un istante. Il tempo di lanciare in alto una monetina. Testa o croce? Non importa cosa uscirà. Quando lanciamo in alto una monetina perché non riusciamo a decidere, è in quei pochi istanti in cui la monetina volteggia nell’aria che noi scopriamo in cuor nostro cosa desideriamo.
Ma lei non voleva lanciare in alto nessuna monetina. Aveva paura di scoprire la verità. I pensieri le si accalcavano nella mente. Le emozioni si facevano tumultuose e non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
Tutto quello a cui riusciva a pensare era che quel mattino, come in tutti i suoi addii inaspettati, a quel bacio, non aveva dato importanza. E che commetteva quell’errore ancora ed ancora. Dimenticava che un bacio era un sigillo sacro di unione tra due anime che si sfioravano. Una pausa nell’eternità in cui essere “presenti”, per conoscere e conoscersi.
Come poteva continuare a commettere quell’errore lei, che tanti anni prima ne aveva dato un altro di ultimo bacio, con indicibile leggerezza.
Come sempre, nei momenti di impacciata tenerezza, quel bacio era stato accompagnato da uno scherzo. Una battuta. Perché era così che loro due si volevano bene. Loro non sapevano parlar d’amore. E allora ci scherzavano su. Ma sapevano entrambi che quegli scherzi celavano l’amore più grande del mondo. Quello tra padre e figlia. E quel giorno, all’aeroporto di Fiumicino avevano dovuto scherzarci su a quel bacio. Avevano dovuto prendersi in giro perché lui andava via al tramonto, e lei, si risparmiava di offrirgli finalmente una cena.
Aveva davanti a sé quegli occhi azzurri e quel sorriso scanzonato.
Dopo tutti questi anni, stasera avresti pagato finalmente tu il conto.
Eh, ma tu devi andare…
Si, ma torno tra qualche settimana. E non mi scappi.
E invece era scappato lui. Senza preavviso. Senza un ultimo bacio.
Quando il dolore e il vuoto per la sua scomparsa si faceva insopportabile, soleva riempirlo con mille domande. Come è possibile abbandonare qualcuno per sempre senza un ultimo bacio? Ci si può rassegnare all’idea che un ultimo bacio debba essere dato senza sapere che sarà l’ultimo?
A cosa serviva fare tutte quelle domande? A nulla. O forse a ricordare rivivere quelle emozioni.
Ma non aveva imparato la lezione. Il loro bacio quella mattina era stato l’ultimo e lei l’aveva dato per scontato.
Perché quello sarebbe stato il loro ultimo bacio. Non si può baciare ancora chi ci ha detto che non è innamorato di noi.
O forse si?
Vittoria Scagliusi
Sogno o son desta
Cammino di Santiago: 5 Settembre 2016 – da San Anton a Villarmentero de Campos
Ogni santo ha un passato
e ogni peccatore ha un futuro
(Oscar Wilde)
Non credo ai miei occhi. Tre “tipi1″ nel bel mezzo di un campo proprio di fronte a me.
Sto sognando ad occhi aperti o il dolore nel mio corpo è così forte che sono morta e mi sono reincarnata in un villaggio Sioux?
Il secondo giorno nelle Mesetas: la cosa più vicina ad un deserto che io abbia mai sperimentato. Il dolore alla schiena mi sta facendo letteralmente uscire di testa e il prossimo albergue sulla lista è a 8 km di distanza.
Senza che ne sia troppo consapevole, la mia curiosità mi ha spinto a lasciare il cammino e ad avvicinarmi a quelle strane tende. Ed ecco che appare il cartello, come un’oasi nel deserto: Albergue Amenecer. Le lacrime cominciano a rigarmi le guance offuscandomi la vista. Questa giornata mi ha piegato in due il corpo e lo spirito.
Gustav (Germania) mi viene subito incontro e mi aiuta a mettere giù lo zaino. Alina (Russia) mi porta una bacinella con acqua fresca per i miei piedi bruciati dal calore. Tiro fuori il mio diario perché tutto quello di cui ho veramente bisogno è tirare fuori dal mio petto quel groviglio di emozioni che mi stanno impedendo di respirare. Il pensiero di mio padre fa capolino ed io scoppio in lacrime.
Scommetto che ti va una bella birra fresca.
Un uomo alto, magrissimo e biondo, con una maglietta rossa tutta macchiata appoggia una lattina di birra sul tavolo e se ne va via prima che io possa salutarlo. Cinque oche starnazzanti lo seguono.
Comincio a scrivere e l’effetto terapeutico della penna sulla carta, misto alla birra fresca, allenta la tensione. Accenno appena un sorriso pensando al pellegrino austriaco incontrato sui Pirenei che tanto mi aveva tessuto le proprietà di una caña2 a fine giornata.
Si è fatto buio e così raccolgo le mie cose e vado a cercare un letto per mettermi finalmente alle spalle questa giornata. Ed ecco lì, seduto al tavolo della reception, l’uomo con la maglietta rossa macchiata: “scommetto che tu stia cercando un letto”. Per la seconda volta sembra essere in grado di leggermi nel pensiero. “Seguimi, ti ho preparato el Tubo. Ti appresti a fare una delle migliori dormite della tua vita, vedrai”. Lo seguo come se in fondo sapessi che lui sa quello che è meglio per me in quel momento. Riconosco il mio zaino sul materasso in un tubo di cemento, proprio nel bel mezzo del prato a due passi dalle tende tipi.
“Puoi lasciare la porta aperta, questo è un luogo molto sicuro. Buona notte”. Ancora una volta va via prima che io possa proferire parola. Mi chiedo se non debba prendere il mio zaino e andare via da quel luogo strampalato, ma sono troppo stanca, così salto nel tubo, metto lo zaino sotto la mia testa e mi perdo nel buio del cielo interrotto solo dalla tenue luce di una luna meravigliosa luna crescente. Non mi sono mai sentita così sola, e triste.
Vedo mio padre venirmi incontro con una maglietta rossa tutta macchiata che mi sussurra che è ora. La sveglia sta suonando, sono le 5 ed una nuova giornata sta per cominciare. Sistemo le mie cose, mi allaccio le scarpe e mi avvio verso il piccolo bar sotto la tettoia per bere un caffè caldo. Resto incantata dallo spettacolare manto stellato che si staglia davanti a me, quando vengo distolta da un rumore.
“Buon giorno”. L’uomo dalla maglietta rossa macchiata mi sta davanti e sorride.
“Buon giorno. Spero di non averla svegliata facendo rumore. A proposito, non ci siamo presentati, io sono Vittoria”.
So chi sei, non potevo lasciarti andare senza salutarti. Si avvicina, mi stringe in un forte abbraccio e mi sussurra: “tesoro mio, nella prossima vita verrò a cercarti”.
Prima che io possa dire una sola parola è di nuovo scomparso.
Vittoria Scagliusi