Ragazzo d’altri tempi

(prefazione)

La frenesia della vita quotidiana di ogni uomo tende a far perdere i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Ragazzo d’altri tempi è un racconto veritiero di una domenica mattina da me vissuta diversamente. Nel ripropormi gli stessi percorsi e le stesse tappe che erano abituali nella mia giovinezza, ho rivissuto un’esperienza ormai dimenticata da anni. Sono stati i dettagli e le casualità che mi hanno portato a ricordare la vita tranquilla e spensierata di un ragazzo come tanti. È stato un rivivere di emozioni, che non mi ha risparmiato commozione e nostalgia. Parlare di un ragazzo d’altri tempi significa riferirsi non a tempi particolarmente lontani né ad eventi storici particolarmente importanti, ma solo a due o tre decine di anni fa e ad una vicenda esclusivamente privata. Questa puntualizzazione è necessaria, poiché un aspetto fondamentale del racconto è la differenza che esiste tra la presente generazione e quella immediatamente prima: la differenza tra genitori e figli. I genitori si aggrappano ai ricordi della loro giovinezza, evidenziando l’importanza di quei momenti quotidiani, semplici e pieni di soddisfazione, mentre i figli, gli odierni giovani, che vivono nell’era dell’informatica e delle virtualità, sono poco attenti alle cose fondamentali della vita, come la moralità e il sacrificio, e danno quasi sempre tutto per scontato. Rivivere una domenica mattina, così come la vivevo da ragazzo, mi ha suscitato ricordi che non solo mi hanno riportato indietro nel tempo, ma mi hanno anche fatto riflettere sul cambiamento esistenziale che si verifica attraverso gli anni e ci rende diversi nella visione della realtà. Ciò che mi ha affascinato di più è stato provare le stesse sensazioni che provavo da ragazzo. È stata un’esperienza bellissima che mi ha permesso di descrivere particolari che il tempo non ha cambiato.

È domenica mattina…
Il cielo è sereno ed il sole illumina anche gli angoli più nascosti. Una cornice perfetta per una piacevole e gioiosa passeggiata. Non so perché ma mi sento sfavillante, non ricordo da quando non mi accadesse.
Decido di lasciare l’automobile e di camminare per recarmi in chiesa e partecipare alla funzione domenicale. Sarà l’atmosfera di questo giorno primaverile a farmi ricordare le liete domeniche di un ragazzo che a piedi si recava alla funzione della messa delle nove.
Mi avvio compiaciuto del vestito che indosso.
Passeggiando arrivo sul ponte che attraversa il mio bel fiume, mi sporgo lievemente ed osservo lo scorrere dell’acqua trasparente.
Il tiepido sole risveglia i miei ricordi.
Nella mente, in un attimo, affiora il ricordo della pesca e dei bagni, che un ragazzo d’altri tempi divideva con il suo migliore amico.
Adiacente alla riva, nascosto tra il verde dei salici piangenti, si intravede un vecchio rudere che emana ancora odore di stalla e letame. L’odore che mi arriva mi ricorda quando quel ragazzo d’altri tempi da quell’odore scappava via. Sono attimi di memoria, piccoli bagliori che infondono nostalgia.
Malinconico riprendo il mio cammino.
Sulla strada sono solo, l’abbaiare di un cane è l’unico rumore che interrompe il battito dei miei passi. Sono passi di un adulto… Mi fanno ricordare le corse fatte a piedi, quando quel ragazzo d’altri tempi si recava alla messa del mattino.
Arrivo su in paese e mi accorgo che il tempo che ho impiegato è maggiore di quanto ne impiegava quel ragazzo.
Attraverso la vecchia piazza.
L’orologio del municipio è ancora fermo.
La campana della chiesa, con la porta spalancata, è silenziosa.
È la chiesa di San Leonardo, bella e antica, ma la mia meta è l’altra chiesa, quella madre, sull’acropoli alla fine della salita.
Mi fermo solo un attimo, quanto basta per vedere tre ragazzi che rincorrono una palla. Mi ricordano le ore liete, che quel ragazzo d’altri tempi trascorreva con gli amici e con il pallone.
Si giocava nella piazza e si ignoravano i richiami, era tutto molto semplice e gli adulti erano i veri avversari.
Intanto il mio vestito, così elegante, non mi rende la razionalità che viene sopraffatta dall’emozione dei ricordi. Il cuore mi batte forte. È l’emozione incontrollabile di un adulto che ritorna ragazzino. Mi trovo per un secondo al centro del mondo. La piazza mi appare enorme, come appariva a quel ragazzo dal corpo minuto. L’aroma del caffè, del vecchio bar, è in sintonia con il mio vestito, ma il ricordo del pistacchio vince la mia sobrietà.
Un attimo di pausa e torno in possesso della ragione. Il tempo sta passando in fretta, devo sbrigarmi, altrimenti farò tardi alla funzione.
Intanto continuo ad osservare, come non avevo fatto mai. Vedo tante cose che gli anni non hanno cambiato, cose che stimolano nuovamente i miei ricordi. A fatica riesco a trattenere l’emozione. Adesso, però, l’ultimo sforzo, il più pesante per un uomo in giacca e cravatta, quello di affrontare la salita. Quella salita così ripida, che mi porta fino alla chiesa di Santa Maria Assunta, la chiesa madre. Mi appare maestosa, come mi appariva in altri tempi. Senza nemmeno entrare, rivivo la mia prima Comunione, rivedo il vecchio parroco e riascolto le sue omelie.
Il mio vestito, sempre elegante, si è impolverato. Immerso nei miei ricordi, mi sono lasciato andare, sedendomi sulle scale della chiesa, cosa, questa, sconveniente per un uomo ben vestito come me, mentre era usuale per quel ragazzo d’altri tempi che insieme al suo migliore amico ci passava lunghe ore.
Adesso è proprio tardi, devo smetterla di distrarmi. Ma all’improvviso nell’aria si propaga l’odore di un ragù. È l’esplosione dei miei pensieri…
Rivivo i momenti del dopo messa quando, tra i vicoli del paese, quel ragazzo gustava il profumo dei pranzi domenicali. Vivo quei momenti con piacere assoluto e torno a comportarmi come quel ragazzo. Nel ritrovare le stesse emozioni, mi avvio verso casa non pensando più alla funzione. Corro velocemente sperando che il sogno non svanisca. Già sento il sapore, di quando entrando a casa, il sugo caldo mi solleticava il palato.
Improvvisamente mi fermo…
Mi accorgo di star esagerando. Rifletto con l’attenzione e il sentimento che si confanno ad un signore in giacca e cravatta. Ma debbo concludere che quello stesso signore è stato un ragazzo d’altri tempi, e allora decido che è giusto continuare a farlo sognare. Adesso le mie memorie si confondono con il sogno, sicché non so più se sto ricordando oppure sognando.
Intanto, vedo ancora quel ragazzo d’altri tempi che, rientrando a casa, ancora prima del pranzo, si gustava il profumo del sugo che bolliva lentamente. Era un piacere ancora più immenso, perché c’era la mamma che con dolcezza accoglieva e abbracciava il ragazzo.
Adesso il mio vestito non è soltanto sporco, è anche bagnato da qualche lacrima. Quel ragazzo d’altri tempi non immaginava che un giorno avrebbe indossato un vestito così bello. Tanto meno poteva immaginare che sarebbe stato invidiato da quel signore in giacca e cravatta.
Non mi aspettavo che una semplice domenica di primavera avrebbe potuto a tal punto sconvolgere i miei sensi, che una domenica di sole avrebbe risvegliato i miei ricordi. Purtroppo, però, sono soltanto ricordi del passato che non fanno che confermare il presente.
Si sta facendo tardi, la funzione ormai è persa. Torno a casa…
Apro la porta ed entro, a fatica nascondo la nostalgia. Evito la mia cara moglie e rimango assorto nei miei pensieri.
Capisco che non è il vestito, mai indossato da quel ragazzo d’altri tempi, che mi obbliga a dare un senso al presente dei miei figli. Mi disfo del vestito e li osservo orgogliosi dei loro indumenti. Li ammonisco per la loro esuberanza e gli chiedo di non perdere quella messa delle nove. Poi resto in silenzio e loro molto stupiti.
Non sono consapevoli che il loro presente sarà il loro passato.
Non sanno che il passato sarà sempre di quel ragazzo d’altri tempi.

 


Centocinquanta anni d’Italia Da: “Vita come pensieri e ricordi”

Prefazione

Festeggiare la ricorrenza del 150° anniversario dell’unità d’Italia è davvero importantissimo. Assume un’importanza tanto maggiore, quanto più si considera l’oblio che il suo valore conosce presso i giovani. Io mi sono rivolto proprio a loro, per tramite di mio figlio, cioè rivolgendomi anzitutto a lui. Questo non è stato solo un espediente retorico volto a facilitare la ricezione di un messaggio, bensì a dare quel concreto segno di moralità, che ogni genitore dovrebbe lasciare ai propri figli. Il messaggio che lancio, attraverso la poesia, è di non dare tutto per scontato. Le nuove generazioni vivono in un contesto sociale dove tutto ciò che si ha è frutto del benessere.
È importante, però, capire che il benessere del presente si è raggiunto solo grazie ai sacrifici di chi ci ha preceduti. Sacrifici che, come la storia ci insegna, sono stati la base degli ideali di fratellanza e di unione. È proprio su questo tema che la poesia avanza riflessioni. Riflessioni naturali per chi ha vissuto e per chi ha combattuto negli anni dell’ultimo evento bellico. Riflessioni quasi naturali per chi, come me, ha prestato il servizio di leva. Riflessioni obbligatorie per tanti giovani, che non conoscono l’emozione e il sentimento di patriottismo e per i quali la bandiera tricolore rappresenta soltanto il simbolo della nazionale di calcio o di qualche altra disciplina sportiva. Se il mio messaggio riuscirà ad emozionare, ciò significherà che la poesia sarà riuscita a dare un senso più profondo, almeno per qualcuno, ai festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Italia unita. Negli ultimi versi ricordo a mio figlio, e quindi ai giovani, che tutti insieme, raccolti sotto gli stessi colori, uniti e lottando spalla a spalla, possiamo veramente onorare chi ha sacrificato la propria vita per offrirci una patria unita e che oggi è un motivo in più per dare continuità a quel sogno che 150 anni fa si concretizzava.

Tanti gli anni trascorsi
dacché si moriva per un’ideale comune.
Sembrano tanti…
in fondo solo quattro generazioni.
Figlio mio, mio nonno mi raccontava di suo padre.
Mi raccontava di un sogno
che suo padre divideva con milioni di fratelli.
Milioni di fratelli che insieme spargevano il loro sangue…
Milioni di fratelli che insieme raccoglievano il loro sangue…
Figlio mio, il padre di mio nonno non credeva
che un giorno milioni di fratelli potessero dimenticare
del sangue che, per loro, si stava versando.
Sangue rosso versato sul bianco della neve,
dove per proteggersi dal freddo si ricorreva al verde
dei sacchi fatti con foglie di ortica.
Erano questi i colori della vittoria
che univa milioni di speranze.
Colori con i quali milioni di fratelli
creavano la bandiera tricolore.
Figlio, spesso ti diranno che i colori della bandiera assomigliano al verde del denaro,
al bianco della sposa e al rosso del piacere.
Ti diranno che dividerla servirà
per star meglio al di qua più che al di là.
Ti diranno che i più forti
non hanno bisogno dei più deboli.
Stai attento, figlio mio,
son coloro che la fratellanza non hanno mai amato,
son coloro che d’egoismo fanno virtù.
La terra riunita da nord a sud;
la terra cantata da un coro di milioni di fratelli;
la terra dove sventola la bandiera a tre colori,
questa terra solo Dio potrà dividerla.
Figlio mio, per essa un’arma
si è dovuta più volte imbracciare,
per essa si è dovuto sparare.
Quell’arma, che pesa e che stanca,
emoziona chi la imbraccia
nel nome dell’ITALIA UNITA.
Quell’emozione che si genera dentro
è l’emozione più forte che c’è.
Si gela la pelle… vengono i brividi…
si sciolgono lacrime… si sveglia la mente…
si ricorda il passato… nasce nel cuore
un sentimento d’amore.
L’ITALIA UNITA è il sentimento
che unisce i fratelli… fratelli d’ITALIA…
Figlio mio, ricorda, anche tu sei un fratello d’ITALIA.

18 febbraio 2011


L’UOMO E LA TERRA

Prefazione

È importante ricordare che tutto, per la sopravvivenza della specie umana, parte dalla terra.
È la terra che, in sincronia con il resto della natura, provvede a darci i generi di prima necessità per la nostra sopravvivenza. È ovvio che al centro di questo meraviglioso fenomeno c’è l’uomo.
L’espressione massima di questa poesia è data dall’importanza dell’uomo che, con determinato sacrificio, incurante delle fatiche fisiche, rimane attaccato alle proprie origini, proprio per via del lavoro più antico di sempre.

Mi ritrovo a sera di una lunga giornata…
Con le mani incallite e di terra impregnate.
Lo sgabello di legno avvizzito mi invita a sedere…
Con istinto placato un bicchiere riempio di vino invecchiato.
La freschezza e il suo gusto mi rigenera il corpo…
Ancora uno ne verso e lo bevo senza prendere fiato.
Sul tavolo ho posato i frutti che la terra ci dona…
Ma che dico… doni non sono i frutti di terra.
È solo frutto di lavoro stancante e di sudore versato e mischiato alla polvere.
Caldo o freddo, estate o inverno, non fa differenza…
Al calor del fuoco che arde sotto il caldaio rovente, che contiene le patate lessate.
Tutto serve, tutti dobbiamo mangiare…
Anche le bestie, non per natura, ma rinchiuse per sacrificio richiesto.
Così che provvedo al loro pasto…
Ma senza indugi bestie le chiamo.
Il fumo mi secca la gola…
E allora ancora un altro bicchiere di vino mi bevo.
Fino a quando le forze mi tengono, ancora qualcosa sistemo…
Piantine, sementi e paletti, tutto quanto per il giorno seguente.
Allorché per la cena in casa rientro…
E mia moglie, contadina anche lei, mi riscalda lo stufato di ieri.
La cena, importante e gradita, fatico a mandarmela giù…
Tutta colpa della stanchezza acquisita, che adesso mi culla, ma mi spegne ogni giorno di più.
Libero i piedi dagli scarponi pesanti di terra, che ripongo sulla soglia di pietra al rinfresco.
Mia moglie, santa deve essere, anche dopo che addosso acqua e sapone mi scorre,
silenziosa il mio fetore sopporta, consapevole che è il segno di fatiche pregnanti.
E intanto che fuori è già buio, la sveglia poco più delle nove rintocca…
Mi accingo a mettermi a letto, mentre fuori c’è chi sveglio inizia a sfidare la notte.
La notte che per altri significa giorno…
Io invece mi abbandono in un sonno profondo, perché il mio giorno inizia ben presto.
La notte poi vivo un sogno diverso…
Sogno di vivere come tanti di cui sento, la cui esistenza scorre senza fatica.
Il pensiero di ogni risveglio lo rivolgo alla mia vita…
Mi chiedo se io l’ho scelta così, o se lei ha scelto me.
Cambierei volentieri…

Ma assomiglio a quell’uccello che in gabbia per tanti anni non ha mai detto no,
poi un giorno, per donargli il mio amore, l’ho ammazzato, liberandolo, per permettergli di dire sì.
La sua vita era in gabbia…
Forse proprio perché era nato lì.

Vittorio Di Sandro, 26 gennaio 2015