Ematopoiesis

E’ tutto il giorno che lavoro, tra microscopi, siringhe e campioni di sangue. Mi presento. Mi chiamo Sebastian Meier e sono un dottore. Un ematologo, a dirla tutta. Qui fino a poco tempo fa lavoravo bene, ma da quando c’è questa dittatura, il clima è diventato più teso. Ogni giorno sparisce qualcuno, rapito dagli squadristi. Il regime propaganda che essi siano soggetti pericolosi, in realtà o sono oppositori politici, oppure è gente normale, la cui sparizione poco interessa alla società. Ognuno ormai tende a mantenere cara la propria pelle, si fa i fatti suoi. Anche io mi faccio i fatti miei. Lavoro e basta. Questo stato di cose non mi piace, ma non voglio, non posso lamentarmi. Sto pensando di emigrare, di andare in America. Sono un professionista molto stimato e non ho dato nessun problema al regime. La mia partenza quindi non darebbe nell’occhio, anzi, potrei aumentare il prestigio del mio Stato all’estero. Sono stanco, molto stanco. Mi siedo, mi riposo. Quando qualcosa colpisce la mia attenzione. Dalla finestra, si sentono urla. E’ sera ormai, dovrei essere a letto. Butto un occhio fuori. Ah, il solito. Squadristi entrano nella casa dei miei vicini, forse li stanno picchiando, poi più niente. Silenzio. Distolgo lo sguardo. Lo spettacolo è finito. Vado a dormire.

Sveglia pesante, come tutte le mattine. Giornata umida, come al solito. Oggi però voglio prendermi proprio una pausa. Mi vesto, esco. Camminare è inquietante. La città è spoglia e grigia, e i militari non aiutano a migliorare le cose. Hail! China il capo Sebastian, china il capo. Non crearti problemi che non sussistono. Ma li sento parlare. Di un certo tipo, il signor Frank, un impiegato alla banca centrale, una persona per bene. Frank è un mio caro amico. E quando i militari dicono il tuo nome, è solo per una cosa. Giro l’angolo, e corro. Corro a casa di Frank. Busso, ma Frank non risponde. “Non c’è nessuno!” mi gridano dal balcone di fronte. Capisco. Si sarà nascosto, ma dove? Gli avevo già detto più volte di fuggire, ma lui non ne voleva sapere. Aveva coraggio nell’opporsi, e non voleva scappare con la coda tra le gambe né tanto meno piegarsi come invece avevo fatto io, diceva. Era grazie a gente come me se non eravamo più liberi, diceva, perché la sua forza erano i vigliacchi, gli ignavi, quelli a cui va bene tutto. Rumore. Un camioncino pieno di soldati passa nella parallela. Lo seguo tenendomi a debita distanza. Volevo trovare Frank. Il camioncino fa il giro della città, poi arriva. I militari entrano in un negozio. Altre urla, anche di donne e bambini. La famiglia del mio amico. Mi prudono le mani, piango in silenzio. Sulla vettura c’è solo il conducente. Allora, senza farmi sentire, salgo su, nella parte posteriore, dove di solito vanno i deportati. C’erano altri prigionieri. Mi confondo bene tra loro. Aspetto che arrivi il mio amico, sono deciso a portarlo via.

Un buon giorno. Proprio un buon giorno. Il viaggio è durato così tanto che mi sono addormentato. Sul furgoncino ho ritrovato il mio amico, ma non ho potuto parlargli. Mi guardava con astio, come per dire che cosa ci facessi lì, io che ero un traditore. Un traditore tra i traditori, che paradosso. E’ bello il soffitto; è morbido il letto; è profumato il cuscino. Adagio. Finalmente del sole entra dalla mia finestra. Ma non era la mia finestra. Come quella non era la mia luce. Intontito, mi siedo sul letto. Una bella stanza. Mi alzo, vado verso un armadio: vestiti, belli e comodi. La finestra: vado, vedo. Ma cosa…? Che razza di mondo era? Strane automobili molto veloci camminavano su lunghe lingue di asfalto. Immensi palazzi di un grigiore alieno le contornavano. Mi resi conto di essere anch’io in quella strana costruzione, così alta, come se fosse un pilastro del cielo, di un azzurro come non mai. E la gente camminava, sembrava leggera. Chi sorrideva, chi pensava ai fatti suoi.. nessuno abbassava la testa a nessuna guardia. Era un moto uniforme di umanità. Già, un moto uniforme. Mi vesto, scendo. La via era perfettamente geometrica. Cammino, meravigliato. Dove mi trovavo? Quale razza umana aveva concepito cotanto stupore? Seguii la mia via. Era fantastico. Poi svoltai a destra. Un’altra strada geometrica seguiva il suo corso, col suo fiume di autovetture ed esseri umani a riempirla. La percorsi, poi svoltai a sinistra, e poi a destra, e poi dritto, poi ancora a sinistra, a destra, e dritto, ma qualcosa in me diceva che c’era un errore. Era tutto, troppo uguale. Mi tocco il viso, mi do qualche schiaffo per svegliarmi. Ma evidentemente non è un sogno. Provo a fermare un passante, mi ignora. Ne fermo un altro, mi guarda ma poi prosegue il suo cammino. Preso da uno strano pensiero corro ma una mano blocca il mio moto. Mi volto, due occhi spenti e un sorriso da bambola. Mi dice: “Qui non si corre”. E va. Ma che cazzo vuole quello da me? Cambio strada, e riprendo a correre. Vengo di nuovo fermato. Sorriso ebete e occhi di vetro. Ancora. Allora lì scorgo: in lontananza, lunghi capannoni grigi e bassi, da cui sgorga quel fiume. Da un capannone fuoriescono donne, da un altro uomini, da un altro ancora bambini. Louise! La moglie di Frank! Louise, Louise! Come se fosse un pupazzo meccanico, va avanti per la sua meta, semmai ne avesse una. Mi paro davanti a lei. “Ciao” La guardo preoccupato. “Non devi essere confuso, tutti qui a Isborg sono felici” Isborg? “Se non sei felice sei fuorilegge. E chi va contro la legge va contro la nostra sicurezza e felicità” dice il tutto come un automa, sempre con quella smorfia che mi rifiuto di chiamare sorriso. Sono senza parole. “Allarme, allarme! Un pazzo! Un criminale! Chiamate le forze di sicurezza!” L’automa comincia ad urlare, ma senza emozione. No, no…! Altri automi mi circondano. Provo a difendermi, sono troppi, mi hanno preso, sta venendo qualcuno, uomini forti senza armi, mi consegnano a loro, mi mettono un sacchetto di stoffa nero in testa, mi portano via. Scale, quasi inciampo. Ho le mani legate. Non percepisco più luce, devo essere all’interno di un edificio. Una porta si apre. Vengo buttato sul pavimento. “Ecco un altro caso di rigetto”. Passi che si allontanano, la porta si chiude. Rantolo. Una voce fredda, maschile. Mi toglie il cappuccio. “Ah, capisco” Un barlume di interesse nei suoi occhi freddi. Mi aiuta a sedermi sul pavimento, sempre con le mani legate. Noto che ha indosso un camice sporco di sangue. O è un macellaio o un chirurgo. Lei dev’essere un dottore! “Oh si, ho appena concluso un’operazione” Deglutisco “E lei dev’essere il nuovo assistente” Lo guardo perplesso. Assistente? “Lei non sa niente, vero? Comprendo, è arrivato in anticipo. Mi chiedo solo il perché.” Perché? “Lei è Sebastian Meier, l’ematologo” Ma come sa… “Ebbene, devo raccontarle tutto dall’inizio. Gli imprevisti non sono ammessi qui a Isborg, ma per lei farò un’eccezione“ Mi slega e mi aiuta a rimettermi in piedi. “Il mio nome è Einrich Schmidt, dottor Schmidt” Sbianco. Il dottor Schmidt era famoso per i suoi esperimenti crudeli, ma poi sparì dalla circolazione, per la gioia di tutti “Penso che lei abbia sentito parlare di me. Ebbene, come penso lei sappia, è da un po’ di tempo che il mio nome non compare più nelle cronache locali. Ciò è dovuto alla mia venuta qui, a Isborg”. Collego tutto: il dottor Schmidt era scomparso da quando si era instaurato il regime. Chi ha costruito questa città? “Costruito? Io direi progettato e pensato. Sa, il regime è solo una copertura. La gente non sparisce: viene portata qui, con una certa regolarità. Anche lei sarebbe stato portato qui, ma non ora. Ma, a differenza della plebe, lei sarebbe stato avvisato ed invitato con tutti gli onori. Il carico di uomini che ogni giorno arriva ad Isborg è troppo grande affinché una persona sola se ne possa occupare. E questa persona sarei io” Quindi è lei a progettare i rapimenti? “Io non progetto. Io mantengo l’ordine. Guardi” Mi porta ad una finestra “Non è forse la civiltà perfetta questa? Niente disordine, niente disubbidienza” Ma chi ha voluto tutto questo? “A lei non compete saperlo. Sa perché questi uomini ora sono così perfetti?” Perché hanno perso la loro anima? “Più propriamente, la loro coscienza. Ciò è dovuto ad un potente vaccino che viene inoculato a tutti gli abitanti, una volta arrivati qui. Io stesso lo preparo, e i miei assistenti lo somministrano” Quindi anche io dovrò subirlo? “No: per i miei assistenti non ce n’è bisogno. Ma su qualcuno non ha effetto. Rigettano la cura. Allora vengono portati da me. Sa, se non avessi saputo che fosse un mio aiutante, anche lei sarebbe stato operato” Un brivido mi corre lungo la schiena. E’ una follia, una immensa prigione a cielo aperto. Parlo: ci sono altre città come Isborg? “Altre città? No, il mondo è Isborg. E ovviamente, da Isborg non si esce” Un sorriso sadico gli compare in volto. Deglutisco di nuovo. “Lei comincerà il lavoro domani. Per oggi si goda la città. Ah, stia attento con le regole. Abbiamo già tollerato troppo la sua… irruenza.” Se ne va. Impaurito, cammino velocemente verso l’uscita. Ancora gli automi. Anche il cielo e il sole mi sembrano finti. Ma dove sono finito? Come ci sono entrato, così voglio uscirne. Cerco di evitare gli automi, ma è impossibile, la città ne è piena. Provo allora ad aggregarmi alla massa. Li seguo. Azioni monotone, e ripetitive. Azioni non degne di un uomo. I passi hanno tutti uno stesso ritmo, l’andatura è regolare. Se entri in un negozio e non chiedi niente, vai fuori legge. Per ogni azione devi avere uno scopo programmato, anche se è in realtà uno scopo fittizio. Cammino senza emozione. Provo a non pensare. Niente. Non ce la faccio. La parte umana prevale sulla mia natura. Però volevo vedere. Se anche Frank avesse fatto quella fine. Mi dirigo verso i capannoni. Orientarsi è difficile quando tutto è uguale. Le vedo, in lontananza. Vedo il fiume in piena, ma non lo evito. Provo a sembrare uno di loro. Entro nella sorgente maschile. Una serie di letti semplici, a castello. Sembrano comodi, senza personalizzazione. Alla fine della stanza c’è uno strano specchio. Mi avvicino. No, non è uno specchio: è una lastra come di vetro nella quale c’è come un ipnotizzatore, davanti al quale una decina di automi sedevano. Sembravano affascinati. Ho provato a seguire l’uomo. Era stupido: compieva azioni senza senso e parlava un linguaggio basso e becero, ma agli automi piaceva. Alcuni compivano le stesse sue azioni. Non capivo, ero frastornato. Provando ad essere calmo, cerco Frank. Non c’è. Scoraggiato. Sarà diventato anche lui un imbecille. Ma meglio che finire nelle mani di Schmidt. Esco. E’ primo pomeriggio ormai. La noia mi assale. Ma non la solita noia. Quando sei l’unico a sapere cos’è la vita, ecco che ti nasce il male di viverla. Non voglio conoscere altri assistenti, di essi ho paura. Ho paura del loro uso della medicina. Come si può volgere questa disciplina al male? Ora quasi capisco il senso di ribellione di Frank. Ma io non sono come lui. Io sono un debole. E da inerme quale sono, domani comincerò il mio compito, e manderò giù, manderò giù tutto. Non avrò avuto il vaccino, ma diventerò come gli automi. Solo che la mia è una scelta. Comincio ad ambientarmi. Vagare con uno scopo senza una meta. Ricaccia indietro le lacrime Sebastian, questo cielo non le merita.

Dicono che la notte porti consiglio. Vorrei dire che a me ha portato sollievo, ma il pensiero di dovermi alzare e non vivere mi angosciava. Mi alzo, come ieri. Mi metto vestiti belli e comodi, come ieri. Vado alla finestra, ma vedo che la città è rimasta come ieri. Almeno qui, posso piangere? No. Esco. Raggiungo la residenza di Schmidt. Mi aspetta fuori da una finestra del secondo piano, sorridendo, sempre con quel suo sorriso, il bastardo. Sicuramente stava compiendo un altro dei suoi esperimenti folli. Scende dopo un po’. “Ti aspettavo. Sapevo saresti venuto. Vieni, ti faccio strada, andiamo al posto.” Lo seguo. Mi porta in periferia, dietro quei capannoni. Una fila di persone in stato di incoscienza vigile. Dietro di loro, i camioncini partono. Voglio seguirlo un’altra volta, rinascere alla vita. Mi passano un camice. Lo indosso, mio malgrado. Fiale, siringhe, laccio. Vado col primo. Non fa resistenza. Vado col secondo. E poi il terzo, il quarto.. La mia coscienza si assopisce sempre più, a mano a mano che mi scorrono i pazienti. Urlo. Un uomo urla. Una voce nota. Frank! Mi volto. Frank corre verso di noi, grida, è vivo! Subito degli automi lo raggiungono. “Sebastian, hai toccato il fondo! Sei uno di loro! Fate schifo, siete solo macchine senza senso!” Sebastian hai toccato il fondo. Un moto di orgoglio mi nasce da dentro. Automi. Circondano Frank. Lo bloccano a terra. Urlo. Corro verso di lui. Frank! Provano a bloccarmi. Non mi fermano. Cerco di raggiungerlo. Sono più veloci. Schmidt. Su di lui. Sorride. Coltello. Viscere. Sangue. Strazio. No! Mengele. Si gira. Verso di me. Tocca a me. No. No. Corro via. In città. Evito gli automi. Non possono fermarmi. Non devono fermarmi. Sono alle costole. Solo palazzi. Solo macchine. Solo palazzi. Palazzi. Mi fiondo nel mio. Salgo le scale. Una ad una, due a due, salto. Fiatone. Stanco. Stremato. Fine della corsa. Porta. Apro. Cielo. Chiudo. Sono solo. Solo il cielo sopra di me. Solo la mia coscienza con me. Piango. Frank, no. Non sono più un ignavo. Ora ti capisco, ti capisco in pieno. Ho provato ad essere un automa, non ci sono riuscito. Non sono governabile, non sono manipolabile, non sono una marionetta. Non avranno mai la mia coscienza. Tutta la tecnologia e il progresso del mondo non valgono l’emozione di un sorriso, il moto di un ideale, il sacrificio estremo. Ho vissuto tutta la vita all’ombra della mia professione, nascondendo la mia vigliaccheria sotto la sua ala di neutralità. Ora basta. Sono un uomo. Sono libero. E troverò la mia libertà. Bussano alla porta. Sono riusciti a salire. Sono un uomo libero. Non mi avranno mai. Mi avvicino al parapetto. Non mi avranno mai. Metto un piede sul cornicione. Non mi avranno mai. Cielo. Non mi avrete mai.