Giorno di fine febbraio

Giorno di primavera!
Cielo azzurro violentemente,
stralci di nuvole trasparenti,
colori sbiaditi come la cenere,
anche il verde è svanito.
Alberi scheletriti,
rami che sembran dita morte,
il vento non li culla, passa
raspando via un po’ di corteccia.
Chissà se quest’acqua leggera
ravviverà la campagna!
Giorno di primavera!
Pendii giallastri, rovi secchi, stecchi,
campi arsi, nereggiar di viti,
contorsione di tralci.
La natura grande pittore stanco
aspetta ancor l’ultima neve
per scagliare ovunque/strisce di tinte vivaci.
Lo sciocco fiume in pendio,
incassato tra rive tagliate/come fette di torta
-sulle rocce stratificate/ciuffi d’erba ingiallita-
ruba l’azzurro dall’alto/solamente,
gorgogliando in schiuma bianca si perde/tra la ghiaia.
Muore di noia in un letto di sabbia.
Silenzio! Non s’ode il brusio degli insetti,
il segreto crescer dell’erba.
Aspetta! Marzo è ancora lontano.
Eppure anche tu scivoli via,
seguendo l’orma antica del fiume
scendi verso la grande ferrovia.
Tornerai a marzo, credi a me,
per vedere il verde cupo
del nero sambuco.


Americano

Al giovane americano/che mi guarda dall’alto
del suo metro e novanta,
io, basso un metro e settantadue scarsi,
dico: “Ingenuo ragazzo/si vede bene
che sei stato nutrito di bistecche/e di vitamine,
che vieni da un paese opulento.
Tua madre/ti ha mandato all’Università
ad Harvard o ad Houston,
sei ricco ed intelligente,
guardi con aria da uomo superiore
noi inaffidabili latini.
Ma io ti ricordo che quando Nuova York
ancora non esisteva
i miei antenati/costruivan strade e ponti
per far passare/le legioni di Roma.
Duemila anni di storia ti guardano
dai miei occhi etruschi.
Arte e diritto/portan il marchio di origine
della Roma dei Cesari/e della Grecia di Omero,
io sono latino e me ne vanto.
Dubito/che gli Stati Uniti d’America
lasceranno nella storia umana
l’impronta indelebile/che Roma le ha dato.”


Elegia triste

Di un maleficio,/già raccontano le malelingue,
lanciato contro il paese di Galeata,
di come la morte abbia deciso/di stabilire
la sua triste dimora/da queste parti.
Una fine ingiusta/ha posto termine alla vita
di giovani ragazzi per bene,
un tributo crudele/pagato dal popolo della notte.
I corpi fragili degli adolescenti,
recisi nel fiore degli anni,
giacciono inerti/dentro il recinto del camposanto
tumulati/nelle fosse destinate ai vecchi,
loro sì, ormai sazi di un’esistenza
quasi giunta al suo naturale epilogo.
In silenzio i padri/seppelliscono i morti.
Povere donne/sfilano dietro i feretri,
gli occhi scavati/per aver pianto intere notti.
Le madri derelitte/non han più lacrime da versare
per i loro miseri figli.
Le croci sono sempre più numerose,
già ho dimenticato/i nomi di tutti i caduti,
ricordo, però,/che l’automobile, quasi sempre,
viaggiava rombando nel buio della notte
e, per una ragione plausibile/che non conosco,
all’uscita di una curva/troppo veloce,
in prossimità di un ponte o di un dosso,
si è accartocciata contro un albero,
si è schiantata contro un muretto,
è finita dentro ad un fosso
lungo la via del ritorno,
quando le ultime stelle della notte
declinavano, ormai,/verso il nuovo giorno.
Con pietà rammento i corpi esanimi:
neri manichini intrappolati/dentro lamiere contorte,
il fuoco aveva fuso insieme/carne e metallo.

Così mi chiedo/perché una morte crudele,
nascosta nella notte,/come una tacita ladra,
abbia rubato la vita
a giovani ragazzi,/timorati di Dio
mentre sulla faccia,/pur rotonda della terra,
si vedono tanti esseri malvagi
che disprezzano la propria esistenza,
che deridono la morte,/ma questa li rifiuta.
E non potete rispondermi
che così è stato scritto/nel libro del destino,
che leggi immutabili/regolan la vita
e la morte degli uomini
così come una legge stabile di natura
impone all’acqua di scendere/verso il mare.
Poiché è stata solo la forza/sprigionata dal motore,
fabbricato da uomini mortali,
a far correre veloci/le ruote della vettura
sopra l’asfalto della statale,
a dirigerla contro il tronco/solido del platano,
piantato lì, ai bordi della strada.
O forse credete che sia stata
una potente mano extraumana?

Il soffio prepotente del vento,
mentre attraversa rapidamente/i campi coltivati
in questo lucente mese di maggio,
forma nella pianura un’onda verde,/piegando appena l’erba.
Ma il frumento strinato/presto rialza la testa,
rigoglioso e forte.
I ragazzi morti/non vedranno maturare quel grano,
non mangeranno il pane/del nuovo raccolto.
E poi voi mi venite a dire/che esiste un disegno divino.
Che muove la natura/e dell’uomo regola il destino?
No, io non credo in un dio volubile/che sacrifica giovani vite
all’alba.


Sera

E’ tardi, è sera, ripongo

nel chiuso del cassetto nascosto

il lavoro odioso e malpagato

di una giornata curiale,

guardo, incantato,

oltre la gigantesca finestra,

l’ultima luce di un altro giorno

che muore lentamente.

Nel tramonto la sfera del sole

sfiora, trepidamente,

con baci luminosi e sensuali,

le rotondità delle colline.

E’ uno spettacolo/ch’ogni volta m’affascina:

bambino, ragazzo, uomo adulto sempre

ho visto quel sole indifferente

che si spegne oltre l’Appennino,

la luna fioca/che sorge da dietro la Rupe.

Mai uguale, sempre nuova.

Mi sorge il dubbio

se sono le colline che cambiano.

O se siamo noi a divenir diversi.

Son vere entrambe le cose:

muta quel che ci circonda

e noi insieme mutiamo.

Così che nemmeno ce n’accorgiamo.

O ci si pensa.

 

Nel teatrale recinto

delle colline boscose

ombre notturne/ghermiscon alberi, prati,

ruderi poderali alla notte.

Ma il cielo in alto è bianco di luce,

invita ad inseguir il carro del sole

al di là dell’orizzonte.

Vorrei fuggire ad occidente,

novello Fetonte,

ma mi ritrovo a sbatter la faccia

contro il freddo cristallo, trasparente,

che però mi separa/dal mondo esterno.

Come un repellente/insetto volante

che ronzando sbatte e sbatte,

come ipnotizzato, alla finestra,

mi aggiro in questa stanza,

una vuota gabbia,

e ritorno a picchiare nel vetro

attratto, irresistibilmente,

dalla vastità del cielo diurno.

Finchè dura la forza vitale.

 

Cadrò infine supino/sul telaino del vetro

inseguendo un’idea folle.

Od un sogno, irraggiungibile.


Pensiero molesto

C’è un pensiero molesto

che mi tormenta, che ricaccio indietro

nell’angolo più recondito

del mio cervello (maledetto)

che pulsa e ragiona.

Certe volte mi chiedo,

quando sento parlare dell’uomo,

del suo libero arbitrio

(che ci differenzia dalle bestie)

se davvero questo sia vero,

un dubbio tremendo

mi assale e spaura: che la storia

che si dice fatta dall’uomo

di generazione in generazione,

scegliendo tra il bene ed il male,

sbagliando ed imparando,

le sue scelte/non sian determinate

da una libera mente,

che l’uomo non sia diverso

dagli altri animali

che son guidati da ciechi istinti

cui non posson sottrarsi.

(Una crudele legge

di sopravvivenza

regola la natura

selezionando i migliori,

scartando gli inutili).

Che il destino di ognuno di noi

sia già stato scritto

prima ancora che venissimo al mondo,

perché chi ha messo in moto, in principio,

il sofisticato meccanismo

dell’Universo ha stabilito

le regole e la durata

del gioco della vita.

 

Ed in trance doloroso

vedo il burattino, l’uomo,

muoversi sul palcoscenico, la terra,

il pubblico in sala plaude ed ammira

quello che parla, canta e balla.

Non vede gli invisibili fili

(istinti predeterminati)

con cui il nascosto burattinaio, Dio,

muove, a suo piacimento,

il vuoto fantoccio

sulla scena della vita.


 

Davvero! Ho dei buoni sentimenti

Davvero! Ho dei buoni sentimenti.

Celati nell’armadio segreto

del mio cuore!

Ma respingo il destino infame

che sospinge la mia fragile vita

oltre la china discendente

dei quarant’anni!

Odio il bisogno

che mi costringe ad elemosinare

-come uno sporco accattone seduto

sui gradini consunti

della chiesa cattolica romana-

un lavoro, il denaro scarseggia.

Vedo la mia giovane moglie,

intristita di affanni,

sfiorire negli anni

ed i figli muti e spenti

perché non hanno di che soddisfare

le loro giovanili esigenze

per insufficienza di guadagni.

Così chino il capo e allungo la mano.

Ma nessuno mi toglie dalla testa

quel che penso,/con limpido ragionamento,

di questa società, ingiusta, indecente,

che paga profumatamente

il televisivo presentatore

di banalità o l’attore futile

mentre lascia morire di fame

i suoi figli migliori.

C’è più differenza tra l’ignoto

operaio della Magneti Marelli

ed il borioso Maradona,

pedatore domenicale,

che tra il bistrattato/Ramsete secondo,

faraone uccisore di ebrei,

ed il suo ultimo schiavo negro.

 

Ma il Papa, ispirato, mi dice:/pregate fratelli!

Pregherò, padre santo, pregherò:

che i ricchi mercanti

non possan vedere/l’alba di domani.

Che i cinque cavalieri/dell’Apocalisse

distruggan il mondo.

Per prima cosa:/i rifugi antiatomici dei potenti!


La sveglia di mio padre

La sveglia a mio padre

misura il tempo del mattino.

Quando è ora di alzarsi presto.

Mio padre percorre le strade

ancora bagnare/dalla nebbia notturna,

le ultime stelle tardan a tramontare

in questo cielo tenue/come carta velina.

E’ stata comprata/per una manciata di mille lire

da un arabo carico di cianfrusaglie,

una domenica sera,

quando la gente in paese,

operai e contadini, si raccoglie/nelle vecchie osterie.

A giocare a carte ed a bere vino.

Pure ai contadini taciturni

si scioglie la lingua

nel sapore gradevole di viole.

Anche il venditore di sveglie

ha bevuto quel vino.

E nel fondo trasparente del vetro

ha rivisto l’Affrica, i cinque figli

e la moglie che aspetta

il denaro della magra giornata.

Non c’è niente di più triste

del fondo di un bicchiere vuoto

dove il venditore vede riflesso

il suo volto annerito,

i capelli crespi, di arabo.

Mio padre ha riempito

il bicchiere dello straniero.

La sveglia a mio padre ricorda

quella faccia abbronzata

stanca di andare per le vie del paese

a vender tappeti,

ombrelli, sveglie made in china,

posacenere a forma di mosca,

la domenica sera.

A mio padre ricorda che è ora

di metter in moto il camioncino/diesel Ford.

Prima che le stelle del mattino

scompaiano dentro il chiaro cristallino/dell’alba.


Settembre

Quest’anno che l’estate si prolunga

nell’autunno incipiente

la consueta passeggiata serale

nel torrido sole di settembre

mi coglie in crisi di fiato e di gambe.

Così resto appiccicato dentro

la flaccida camicia di flanella.

Come una mosca disattenta

nella celata tela/del ragno crociato

nascosto nell’ombra/dei pini neri

che costeggiano alteri

il lungo viale che all’eremo sale.

I rovi contorti, l’erbe infestanti,

le robinie, i carpini, gli aceri

della proda stradale/sembran malati.

Me stesso vedo pervaso

da un malessere strano, snervante.

Procedo abbacinato/dai raggi obbliqui

di un sole morente/che rasenta l’arse colline.

Non si vede volare un lucherino,

tutto, anche la fauna canora,

sembra cercare un rifugio

in qualche luogo nascosto del bosco,

magari vicino/una gelida fonte.

Eppure l’aria profuma

Di terra arata e di fieno passito,

di mele mature/e di uva zuccherosa.

Già le prime foglie secche coloran

di incredibili tinte autunnali

le macchie abbarbicate sui monti

che circondan l’angusta valle.

Un dio folle, vestito di giallo oro,

percorre la vasta campagna

d’intorno spargendo colori.

Nel suo capiente canestro

racchiude in gran quantità

i frutti profumati della ricca stagione,

reca in dono/tutta la solarità

dell’estate nelle case degli uomini.


Pensiero molesto

C’è un pensiero molesto

che mi tormenta, che ricaccio indietro

nell’angolo più recondito

del mio cervello (maledetto)

che pulsa e ragiona.

Certe volte mi chiedo,

quando sento parlare dell’uomo,

del suo libero arbitrio

(che ci differenzia dalle bestie)

se davvero questo sia vero,

un dubbio tremendo

mi assale e spaura: che la storia

che si dice fatta dall’uomo

di generazione in generazione,

scegliendo tra il bene ed il male,

sbagliando ed imparando,

le sue scelte/non sian determinate

da una libera mente.

Che l’uomo non sia diverso

dagli altri animali

che son guidati da ciechi istinti

cui non posson sottrarsi.

(Una crudele legge

di sopravvivenza

regola la Natura

selezionando i migliori,

scartando gli inutili).

Che il destino di ognuno di noi

sia già stato scritto

prima ancora che venissimo al mondo,

perchè chi ha messo in moto, in principio,

il sofisticato meccanismo

dell’Universo ha stabilito

le regole e la durata

del gioco della vita.

Ed in trance doloroso

vedo il burattino, l’uomo,

muoversi sul palcoscenico, la terra,

il pubblico in sala plaude ed ammira

quello che parla, canta e balla.

Non vede gli invisibili fili

(istinti predeterminati)

con cui nascosto burattinaio, Dio,

muove a suo piacimento,

il vuoto fantoccio

sulla scena della vita.