Il Gallo Blues

Se ne andò sculettando al ritmo di un blues, marcio d’alcool e d’amore.

Il galletto raddrizzò la rossa cresta, muovendo con stile ad ogni passo una ritmica frizzante di unghie sul selciato.

Si lasciò il vecchio fienile alle spalle, prendendo la via del villaggio.

 

Alle porte trovò Mary, la bella gallina casta del giardino ecclesiastico,

imposta come simbolo a “voi ch’intrate”,

e con essa.. si perse.

 

Sospiravano ora, le sue piume di loto sgualcite,

ed ella non vide, e lui dunque entrò

Uno strano alito elettrico lo rapì al torpore, un brivido,

ad un centinaio di passi delle figure spettrali correvano qua e là,

fra i lamenti delle persiane sbattute dal vento..

Rimase immobile il gallo

mentre dal monte incoronato da una terribile nube

colava l’oscurità ed inghiottiva le case..

E dinanzi a quel demone che ormai tutto travolgeva

questi si strinse a sé, e riprese la via del monte.

 

Si quietò la tempesta, e la gente del villaggio tornò a rianimare le strade..

Il falegname riprese ad intagliare il legno, Nora la fruttivendola si diresse all’angolo della via, incrociando Charlie in pena per le sue piante medicinali…

Rimase sorpreso quando le vide in tal salute, quasi che il diluvio avesse loro giovato.

 

Vi era il dottore che trotterellava a testa bassa da un capo all’altro del paese, e non che questo fosse molto grande, così che la sua pancetta ed il suo baffo bianco passarono più volte di fianco al giornalaio…andava talmente di fretta il goffo dottore che non si accorse neanche che non si vendevano giornali quell’oggi..

 

Era cosa alquanto strana quella, che dopo una tale indecenza atmosferica non vi fossero notizie, ma nessuno sembrava farvi caso, tantomeno Freddy, il pazzo del paese, che licenziatosi in mattinata dall’impiego comunale, girava mostrandosi a tutti in un indecente sorriso.

 

Ma a parte questa ed altre piccole stranezze, vi era una cosa veramente strana: dall’inizio di quel temporale nessuno aveva ancora parlato.

 

Furono le campane della Chiesa a squassare quel silenzio, cercando di colmare con la solennità dei sermoni il senso di incompiutezza che aleggiava nell’aria. Tutto il villaggio fu chiamato ad ascoltare.

 

Dinanzi all’altare si ergeva il parroco

avvolto nella veste viola scrutava le coscienze con i suoi occhi di brace.

Appena l’ultima porta fu chiusa ed i ceri furono accesi

l’organo rabbioso dipinse di ombre lugubri le mura dell’abside:

“La sacra gallina è stata violata, posseduta dal demonio sceso sotto forma di aquila, le ha strappato il cuore con il suo uncino metallico instillandole nell’anima la goccia greve del peccato… non più Maria ma Eva! ..sarà bruciata oggi stesso sul rogo!”

 

Così il prete mosse i suoi passi furiosi fuori dalla chiesa gremita, sventolando il macabro incantesimo della sua veste. Le vecchie arpie lo seguirono sbuffando la vendetta dalle loro laide carni, mentre, per altri, fu la paura che curiosa li sospinse oltre le porte.

 

Queste rimasero aperte, mentre centinaia di occhi le osservavano immobili, non osando…

un fremito le scosse, le grida della gallina entrarono come una eco, ad incrinare di sangue la fiamma dei lunghi ceri. Un odore acre più potente degli incensi riempì la chiesa ed il villaggio intero…salendo lento su verso il monte.

 

Non fu facile raggiungere le dimore, ancor meno riconoscere come estranee quelle mura di sempre, quegli occhi…ma quantomeno le parole tornarono. Furono bisbigli, respiri incrinati, poi urla, pianti, e l’inestinguibile ansia di comunicare riprese la forma del verbo.

 

Facile immaginare il rumore delle mille voci, le mille e uno storie sull’accaduto..le risa irriverenti dei ragazzi. Così i giorni passarono…

 

L’atmosfera si distese, un qualcosa di grottesco filtrò nella piazza, fra i tavoli d’anziani riuniti attorno alle carte…s’inizio a ridere della beffa del giardino, delle urla del prete…ed in fondo, non era che una gallina ad aver perso le penne…

 

Ma sfortunatamente, la tregua non durò molto…

fu il vecchio Nilo cercatore di funghi a stornare il gioco, arrivò tutto sporco di terra, sudato, al tavolo dei suoi compagni, e così parlò:

“Incredibile amici quel che scorsi nel bosco…

– sì che gli altri fuor costretti a prestargli orecchio –

Ero in cerca di funghi e salivo, a ogni piede gonfiava il paniere

mai fu vista sì tale cuccagna, mai ne accolsero le vecchie sere..

di si tanti e mervegliosi ..mi riempii tre volte il cesto

e salendo senza sosta ad un passo dalla cima

fu una scossa che mi prese, che m’impose d’esser desto..

un latrare d’animale, che nessuno udì mai prima..

lo spavento mi travolse, come mai vi sono onesto..”

 

Fuor talmente commossi i compagni che gettarono in aria le carte, ripiegando in un riso convulso, fuga vana dal volto di cera.

“Vi era un cervo steso a terra…di sue viscer nutrivasi il falco…

volea fuggire, indietreggiavo…quando un ramo sveloggli dov’ero…

oh! ..quel che videro i miei occhi…quello sguardo..lo sguardo..quel…che videro i miei occhi..”

Si sedette nel silenzio, un compagno gli offri dell’acqua.

 

In men che non si dica la piazza si riempì ed ognuno andò a sfogarvi quelle immagini a lungo represse. Carnevale di mostri, litanie di preghiere e risate dei giovani, a saturare di grida il concerto convulso. Se ne stava in disparte la zingara e per ultima avrebbe parlato..

ma tuonò il vecchio ottone la Chiesa, della grave campana morale..

ed ognuno fu ad essa chiamato.

 

Fu Freddy, il solito pazzo ad arrivare per primo, mostrandosi immobile sull’uscio, in un inchino d’altri tempi, ormai sfigurato dall’indecente sorriso…fu l’unico a non entrare.

 

L’isterica solennità del luogo vibrava, il parroco livido di rabbia ed ombre stava dinanzi al brulicante silenzio. Il pomeriggio s’attardava oramai, lasciando al crepuscolo la cornice di quell’insolita messa…dove così parlò il prete: “Chi ha qualcosa da dire la dica, adesso” e fu allora che giunse il caos.

 

Uno scoppio improvviso delle mille voci rimbombò nella chiesa, un frastuono indistinto ne scosse i dipinti, e non furon le smorfie del prete che poteron calmare il delirio ma…BOOM! Il colpo di pistola che esplose il sacrestano.

 

La parola fu data poi a tutti, e un po’ tutti traviati dal prete a seguire i suoi subdoli simboli.

Furon storie di donne impazzite, nella notte del sacrificio,

furon viste danzare sù al monte rinnegando le case e i telai..

c’è chi vide poi uccidere un bimbo dalle fauci del mostro crudele

chi negandosi il sogno proibito trovò il letto cosparso di miele.

La maestra s’alzo e disse “basta!” i fanciulli fan strani disegni

guardan sempre oltre il vetro nel bosco, impossibile tenerli fermi

Gli animali han scordato la notte, il riposo è impedito dai cani

Il corriere ha portato notizie di rimedi e paesi lontani

Disse “No – il vecchio prete, invitando alle armi i paesani

– questa notte saremo sul monte, sulla bestia saran le mie mani”

 

Prese allora a parlare la zingara, nell’oblio degli sguardi crudeli…

e con calma irreale evocando fece un passo scostando i suoi veli:

 

“Era un sonno di sogni confusi

che le palpebre calde cullavano

nella notte dei vostri soprusi

 

Sentii un brivido sfiorare la mano

che la mia pelle nuda cosparse

della Luna il lamento lontano

 

Quindi alzò le mie membra e disperse

ogni mia volontà fece vana

e sul monte delle anime perse

 

Mi guidò quella voce arcana

che negò al corpo mio ogni fatica

sul pendio della scena lontana

 

Così lungi ero ormai che l’antica

e notturna del gufo presenza

m’osservo quando caddi e d’ortica

 

Sentii punger la vostr’ incoscienza
allo schiudersi dolce degli occhi

su quel gallo che a voi penitenza

 

Porterà..”

”Adesso Taci – ruppe il grido del prete furioso –

che ormai troppa sozzura hai iniettato

nell’altare della mia Chiesa

Che anche a lei sia donata la fiamma!

ed in essa ritorni a esser pura!

quella lingua che tanta sozzura!

ha portato dinanzi al signore”

“Quanto puro il suo pianto di ghiaccio

come può non capirlo il Signore”

– continuava la santa e ormai il braccio

le stringeva con rabbia il priore

e l’avrebbe con forza colpita

con la croce estirpandole il cuore

se la voce non si fosse udita

di quel pazzo che non osò entrare.

 

Dette un colpo soltanto alla porta, e così si mostro il vecchio Freddy,

annunciando con calma alla folla,

la certezza del suo essere pazzo e l’arrivo di ciò che non può

essere: il gallo.


 

Prometeo

(monologo)

 

Non fui liberato.

Come avete potuto credere

ch’io svelassi a Zeus

la trama che lo avrebbe rovesciato?

 

Ah ah…

Come avrei potuto?

Niente di ciò che è scritto potrà mai mutare

(poiché niente è stato né sarà

ciò che a questi occhi fu concesso come dono

e che divenne tirannide quando tutto fu sconvolto…)

 

Io stesso, e molti come me, caddero vittime di questo orrendo giuoco

Sommersi nell’Ade senza tempo creato da colui che il Tempo suo padre uccise

Così condannando – il Tempo – ad un’unica macabra marcia trionfante al ritmo della Tecnica

(Non quella ch’io vi concessi, l’arte di-svelare il fiore nell’incontro, ma l’altra, figlia del dominio e dell’illusione)

Come un feticcio scagliato contro il volto amorevole della Dea, in segno di sfida

 

Quando compresi il piano un brivido di terrore bastò a rendermi simile a voi

Decisi di donarvi quanto in mio possesso, affinché l’atroce nascita fosse compensata dalle luccicanti briciole nascoste per voi lungo il sentiero

 

Non avevo calcolato, allora, quanto questo brivido sarebbe stato lungo per voi, quanti dolori vi avrebbe causato e quanto diversi vi avrei trovato al mio ritorno

 

Quanto allora dissi a Zeus

adesso a voi dico

Dei molti doni concessi l’ultimo mi mancò di forgiare, affinché le malie del Padre non avessero la meglio…l’ultimo ed il più semplice…dimenticai d’infondervi nel petto.. l’incorruttibile fiducia che neanche gli artigli di Zeus avrebbero potuto scalfire…così penetrò, l’ombra, nei vostri cuori., ed i messaggi ch’io vi portai più non udiste….ma fu destino, forse, anche quest’assurda caduta?! che l’indugiar nel dubbio una volta salito alle labbra, ad esse s’attacca e deforma…così ch’anch’io…

 

Non v’è niente che potrà mai ostacolare

che ciò che ha da esser sia!

Questo vi basti

come ultimo dono concesso

 

Dal siderale trapasso ho sofferto

osservando impotente come le spire mefitiche dello spazio-tempo avvolgessero le vostre spoglie divenute fragili e corruttibili; come l’incantesimo della Tecnica vi tenesse aggiogati, l’un l’altro nemici, invisi a voi stessi ed agli spiriti della Terra; come l’orda miseranda e furiosa dei demoni schiavi di Zeus… come Potere, Ricchezza e gli altri laidi, avessero la meglio sul pluriverso d’incanto che v’attraversa e sostiene ad ogni istante.

 

Quanto dolore nel vedere infelice anche il più ricco e potente di voi. Quanto potente in fondo? Ormai solo, mortale, nell’immensità divenuta ostile ed incomprensibile del cosmo.

 

Lo scricchiolio sommesso delle mie membra, il brivido d’un nuovo sospiro dopo la millenaria apnea, risollevano infine poderose polveri nei cieli.

Con quanto squallore s’imitano, in differita visione opinando possibile errare ancora lontani dalle braccia di Teti?!

 

Io cadrò ancora in altre oscure notti

come tutti voi avvinto dagli ultimi infuocati arabeschi senz’anima

Ma ormai si prepara, da tempo immemore, quel che le polveri rilasciate nei cieli vogliono nascondere..la proliferazione akashica di spore e sementa, che la biacca dei militari rosicchia miserabonda ai margini d’un sogno che va decomponendosi, come ogni vecchia bandiera e simbolo

 

Nel rinnovato occhio del sole, blu come le intriganti profondità nuovamente sospinte sull’abisso, come fanciullo divino, estatico, vibrando in ogni gemito trilioni di sogni ed anime che attorno alle sue benefiche membra vorticano, così, rievoco le vostre spoglie, da innumerevoli sospiri umani afflitte

 

..ma quanto ancora dovrà rinnovarsi il turbinoso e sterile vorticar sull’asse che senza limiti né senso si nutre di lacrime e sangue? Violenta, saccheggia, esprime la sua insensata potenza oltre ogni pudore. Presto, molto presto, quel che si sta preparando schiuderà in gioconda apocalisse le nostre scatole craniche, dilapidando tesori di plasma in frantumi con l’ultima illusione della nostra era…

Presto, ma già una volta caddi vittima dell’illusione del tempo, e adesso una nuova voragine si spalanca…

 

Chi muoverà la mano spinto da non empio fremito…chi strappando la disperazione alla notte morderà la testa del serpe, chi reagirà alle violenze sospinto dal gemito del cuore, dalla folle corsa verso quel che si annuncia….a questi…non condannare Madre… quando il tuo tocco germoglierà nuovi orizzonti…quando tutto attraverso te e Tu, divina, attraverso il tutto tornerete a splendere…questi – gli umani – ti prego salva…poiché se davvero Io, Prometeo, mi resi simile a loro subendo l’ingiuria millenaria dallo scaltro signore degli Olimpi, fu perché vidi, in essi una scaglia d’arcano stupore, un brivido audace e senza paura, sepolto al fondo dello stagno….qualcosa che gli Dei stessi dovrebbero chinarsi ad osservare, tanto è assurda nella sua fragile caducità…quanta meravigliosa follia da riconsegnare ai venti…


 

Dedicato a colei che mi ha donato i suoi occhi di bimba

Dedicato a colei che mi ha donato i suoi occhi di bimba

Ancora umidi della speranza coltivata nel vento del Sud

All’ombra screziata di un vecchio olivo, come una perla

Che offre riparo alle carni offese dalle fruste dei padroni

Che incoscienti ancora s’affannano,

ed inchiodano le code dei topi alle assi del vascello che cola a picco

mentre la voce del loro Dio evanescente nelle nubi

li frusta con la sua inumana distanza.

 

Una vecchia valigia di finto cuoio

Legata alla buona con uno spago

Ben stretta nelle piccole e forti dita

Sventolando una bianca stoffa che avrebbe custodito candida, negli anni

Nonostante la terra, rivolta ed accarezzata e richiusa sul segreto di un piccolo seme

A migliaia i fiori circonderanno sempre il tuo ricordo

La tua voce, come una litania inguaribile, pronta ad interrompersi in racconti di visioni fantastiche

Sacrosanta follia

Svolazzerà attorno ai miei passi raminghi, alle nuove terre che la sete del mio sguardo ancora indaga, rabdomante fragile e senza scettro

Ogni qualvolta un’ape si poserà su di un grappolo d’uva settembrina

Quel tuo viale oramai dismesso

Che ai viaggiatori schiudevi con stridule e concitate grida

Mentre la testa canuta del tuo fedele compagno si scuote in una negazione tenera

Che v’ha tenuto assieme per l’eternità

Ogni qual volta

Ti sentirò vicina.