Poesie
D’improvviso
si svela e trabocca
in questo ritaglio di notte.
Eccola ancora
pallida balia dei sogni.
Ancora grembo
di quiete e marea.
Eccola ancora
a consolarmi gli occhi.
Ricordo questa luna
come una scodella
di latte e leggende.
In quest’addiaccio si cretta
il vetro sottile
del nostro campare che cola
le stalattiti di sempre
nell’orto d’un altro tacere
lontano lontano.
Ora un fiato profondo
mi riempie come un mare
e l’ombra mi sfiora la tempia
col tocco/nonnulla
d’un pensiero d’argento.
Il plenilunio d’inverno
raggela caligini e glauchi pioppi.
La notte
concepisce
prospettive celesti
e levitando cristalla
cupole di cobalto.
Me ne sto lì nascosto
in una solitudine rapida
a scrutare
l’architettante silenzio.
E i geli antichi
e tutto il grande inverno d’una volta
squillan messaggi lievi
che a precipizio si succedono
nel sapore innumerevole
della mia bocca.
Ricordo d’aver vissuto
anni di foglie
e questa luna/scodella
che versa per me il latte e la fiaba
sulle magiche labbra del deserto.
Non posso che essere solo
nella stanchezza che resta
rapido frantume e scoria
dopo la quarantena
della mia convulsione.
Vi si sfibra
l’eternità d’un solstizio
senz’attesa se non del tramonto
e quest’asma di vento.
E raccatto l’anima
d’un’officina deserta:
forse da troppi giorni
sono a corto di versi.
Con confidenza imprendibile
anche la sera di festa mi sfiora
il suggerimento saettando
di rondoni sonori
lungamente.
Sarà il sogno
d’ossidriche gole di fabbrica
la quiete di questa nottata.
Come un umido pesce
la luna
guizzerà nelle ombre.
Tacerà ancora un’alba folgorando
il vento tranquillo.
E in fondo al mio trabocchetto di lance
cercherò voce
come un pagliaccio trafitto ridendo
sopra al mio cuore asciutto.
Con lo zelo di un carnefice indefesso
monterà il proprio turno
la nuova giornata
di interminabili agguati.
La casa delle fate
era l’anima bianca
d’un mare d’abeti.
Noi guardinghi i presagi
di non so quali armate,
con in pugno zagaglie.
Sonno d’ombra a aspettarci,
e l’improvviso
di quel pallore ignudo.
Forse spirò, già persa,
una vertigine
di barlumi e vento.
E in un cerchio d’antichi
brontolò quel silenzio
rugoso di millenni.
(ne indovinammo a un tratto
le invisibili membra d’elefante )
Fu il nostro irragionevole arrestarsi,
frantumarsi di fiati ed acerbo
un abisso d’odore,
verdebuio a urticarci l’affanno.
Le fate eran ossa di cane
che accecavano ovunque
quella terra bruna.
Litanie d’abeti, e svanir lamentoso
d’una qualche voce rimasta
fra le pieghe-sussurro
del gran cielo d’alberi.
Eran freddo di sogni nell’ambra
d’una quiete claustrale
che un istante ammutolì
lance e parole.
O forse soltanto nascoste.
In un nulla atterrito sospese.
Incredule,
dalle rovine di quella loro atemporalità violata,
a spiare
l’ignara crudeltà nei nostri sguardi
bambini
e invasori.