D’improvviso

si svela e trabocca

in questo ritaglio di notte.

 

Eccola ancora

pallida balia dei sogni.

 

Ancora grembo

di quiete e marea.

 

Eccola ancora

a consolarmi gli occhi.

 

Ricordo questa luna

come una scodella

di latte e leggende.

In quest’addiaccio si cretta

il  vetro sottile

del nostro campare che cola

le stalattiti di sempre

nell’orto d’un altro tacere

lontano lontano.

Ora un fiato profondo

mi riempie come un mare

e l’ombra mi sfiora la tempia

col tocco/nonnulla

d’un pensiero d’argento.

Il plenilunio d’inverno

raggela caligini e glauchi pioppi.

La notte

concepisce

prospettive celesti

e levitando cristalla

cupole di cobalto.

 

Me ne sto lì nascosto

in una solitudine rapida

a scrutare

l’architettante silenzio.

E i geli antichi

e tutto il grande inverno d’una volta

squillan  messaggi lievi

che a precipizio si succedono

nel sapore innumerevole

della mia bocca.

 

 

Ricordo d’aver vissuto

anni di foglie

e questa luna/scodella

che versa per me il latte e la fiaba

sulle magiche labbra del deserto.


 

Non posso che essere solo

nella stanchezza che resta

rapido frantume e scoria

dopo la quarantena

della mia convulsione.

Vi si sfibra

l’eternità d’un solstizio

senz’attesa se non del tramonto

e  quest’asma di vento.

 

E raccatto l’anima

d’un’officina deserta:

forse da troppi giorni

sono a corto di versi.

 

Con confidenza imprendibile

anche la sera di festa mi sfiora

il suggerimento saettando

di rondoni sonori

lungamente.

 

Sarà il sogno

d’ossidriche gole di fabbrica

la quiete di questa nottata.

Come un umido pesce

la luna

guizzerà nelle ombre.

Tacerà ancora un’alba  folgorando

il vento tranquillo.

E in fondo al mio trabocchetto di  lance

cercherò voce

come un pagliaccio trafitto ridendo

sopra al mio cuore asciutto.

 

Con lo zelo di un carnefice indefesso

monterà il proprio turno

la nuova giornata

di interminabili agguati.


 

La casa delle fate

era l’anima bianca

d’un mare d’abeti.

Noi guardinghi i presagi

di non so quali armate,

con in pugno zagaglie.

Sonno d’ombra a aspettarci,

e l’improvviso

di quel pallore ignudo.

Forse spirò,  già persa,

una  vertigine

di barlumi e vento.

E in un cerchio d’antichi

brontolò quel  silenzio

rugoso di millenni.

(ne  indovinammo a un tratto

le invisibili membra d’elefante )

Fu il nostro irragionevole arrestarsi,

frantumarsi di fiati  ed acerbo

un abisso  d’odore,

verdebuio a urticarci l’affanno.

Le fate eran ossa di cane

che accecavano ovunque

quella terra bruna.

Litanie d’abeti, e svanir lamentoso

d’una qualche voce rimasta

fra le pieghe-sussurro

del  gran cielo d’alberi.

Eran freddo di sogni nell’ambra

d’una quiete claustrale

che un istante ammutolì

lance e parole.

O forse soltanto nascoste.

In un nulla atterrito sospese.

Incredule,

dalle rovine di quella loro atemporalità violata,

a spiare

l’ignara crudeltà nei nostri sguardi

bambini

e invasori.