Il Giardino dell’Essere

Il nome di questo giardino apparentemente idilliaco mi è sorto spontaneo, è stato un fulgido baleno nella mente. Ed essendo la spontaneità in me una gemma tanto rara quanto preziosa, non ho avuto l’ardire di riflettere su un nome più adatto. La riflessione è qualcosa di seducente, un magnete che attrae perché intriso di mistero e di gusto per l’esplorazione; tuttavia spesso perdersi in un labirinto di fugaci pensieri può essere pericoloso, e può trasformare la virginea e semplice bellezza della spontaneità in qualcosa di artificioso, ripugnante, ai limiti del perverso. E d’altronde, nel mio cuore, all’immagine di quel Giardino si associa per automatismo la formula “dell’Essere”, e nessuna intricata riflessione, nessun nome più evocativo, potrebbe attecchire le proprie radici più in profondità nel mio Io profondo. E poi cos’è, questo Giardino? Esattamente quello: il mio Io più profondo. O forse qualcosa che lo trascende. C’è in me l’infantile speranza che il Giardino esista anche nella realtà, da qualche parte del mondo, magari visitata in un’altra vita, ed è un mio obiettivo nella vita corrente (ri)trovarlo. Forse anche per questo amo viaggiare. In ogni caso, almeno per ora, il Giardino alberga negli angoli più oscuri della mia mente. E quando mi sento solo, finalmente solo, circondato dal buio e dal silenzio, i miei amici più cari ed intimi, riesco ad attraversare coraggiosamente la giungla che si annida nelle mie sinapsi. Una giungla fitta, brulicante di feroci belve: i ricordi, i sogni, le speranze, i desideri. Non è importante di che natura siano, se positivi o negativi: fanno comunque male. E c’è forse qualcosa di più intenso e coinvolgente del dolore? Che sia debole, quasi ricercato per forza, o assordante come un ruggito, il dolore non è mai superficiale, a differenza di tutte le altre emozioni. E nonostante io non sappia perché, ho sempre avuto un compulsivo bisogno di profondità. Forse anche in questo, silenziosamente, sta la mia superficialità: addentrandomi sempre più in profondità negli abissi, mi dimentico totalmente della superficie…

Il generico, semplice e lineare, è annichilito dal dettaglio. D’altronde, se non avessi avuto questo bisogno di profondità, non sarei mai andato oltre nella mia giungla personale, e mai avrei trovato il Giardino.

Spesso la giungla mi basta: mi fermo lì, ghermito dalle mie elucubrazioni, e mi addormento nel tentativo di sopravvivere. In sogno varie volte ho raggiunto il Giardino dell’Essere, ma i sogni non garantiscono nulla. Sono dei despoti, sono selvatici, sono infidi. Il Giardino è più facile raggiungerlo in dormiveglia, quando ormai sono stremato dalla traversata nella foresta. Allora tutto si fa buio, le fiere spariscono, persino l’oscurità scompare in se stessa. Tutto cessa d’essere, e rinasce appunto nel Giardino dell’Essere. È come cadere in un pozzo, con l’insistente sensazione di non aver peso, causata proprio dalla stessa forza di gravità. Essa c’è, ma per noi non esiste. Il buio c’è, ma in quel momento non importa. Il tempo si dilata, un secondo è eterno. Probabilmente urliamo, ma ce ne accorgiamo? Percepiamo l’urlo disumano che squarcia le curve mura del pozzo?

È in simili circostanze che di colpo mi ritrovo nel Giardino dell’Essere.

Apro gli occhi – nel Giardino.

Sono all’ombra, ma è evidente che il Sole è estremamente generoso, da queste parti. Mi trovo in un grazioso chiosco circolare di legno bianco, simile ad un altare artigianale. Le colonnine esili sono decorate con delicati ramoscelli d’edera, alcuni intagliati, altri vivi. Il legno è liscio, levigato, fresco: così è l’aria che entra quasi liquida nei miei polmoni. Sono pervaso da una profonda serenità, quieta ma quasi viva. Sono seduto rannicchiato, con le braccia che cingono le ginocchia all’altezza del mento. Un delicato profumo di vaniglia mi inebria le narici. La mia schiena è delicatamente appoggiata ad una colonnina. Decido di alzarmi, ma solo la mente è in piedi: le membra, torpide ed edoniste, faticano ad obbedire. Ma infine mi sollevo, compio qualche delicato passo, mi affaccio dal chiosco. Non so dire come siano i miei indumenti, né so dire se ne indosso qualcuno. So solo che le ginocchia erano nude e vicine al mio naso, poco fa. Al di fuori del chiosco tutto è illuminato. Un prato smeraldo risplende, vitale. L’atmosfera è impregnata di un non so che di atavico, primordiale, remoto: il Giardino trascende il tempo, e trascende lo spazio. Sorpassa la dimensione umana, terrena e terrestre, perché è all’interno della mia mente. Qualcuno potrebbe sminuire, dilaniare, distruggere tutto questo, affermando che si tratta di un personale Eden. L’Eden è qualcosa che non mi appartiene, che mi è stato insegnato, inculcato. Nessuno lo descrive con precisione, e nessun Eden è presentato come l’altro. E poi non ho bisogno di un Eden in cui credere. Non ho mai richiesto il mio Giardino dell’Essere: c’era e basta, e l’ho esplorato perché sono inguaribilmente curioso, e detesto i limiti imposti dalle nostre stesse paure, o dalla presunta onnipotenza di qualcun altro. Avrei poco gradito un Eden donato da una misericordiosa presenza di cui non so nulla, la quale mi fa un dono limitandomene però l’uso. Non ci sarebbe stato bisogno di un serpente, per tentarmi: il pomo lo avrei afferrato da solo.

Nessuno me lo spiega, ma so per certo che nel Giardino dell’Essere il Sole non è mai tramontato: sono io che me ne vado prima che ciò accada. Cipressi, querce e pini formano un largo corridoio, pavimentato d’erba. I piedi nudi lo percorrono, lentamente: la fretta non esiste dove il tempo è stato cacciato. Mi godo ogni passo, ogni respiro, ogni battito del cuore: qui sono vivo perché mi sento vivo, non perché un cuore batte senza il mio permesso.

Compio all’incirca trenta passi, le braccia allargate in un abbraccio totale dell’Essere, del Mio Essere. Raggiungo, alla fine di questi passi, una radura circolare, al centro della quale si erge uno scuro e massiccio fico. La radura è circondata da salici piangenti, nonostante del pianto abbiano solo il nome. Ascolto le piante respirare, sussurrare. Mi volto con delicatezza alle mie spalle: il verde, colore che mi è indifferente, e le sue diverse tonalità, predominano nel Giardino: solo il chiosco bianco arreca varietà. Amo il rosso, amo il nero, ma sono colori dolenti. Nel luogo di me stesso dove tutto è sempiterno, il dolore non cresce. Torno a rimirare il fico. Lui non può guardarmi, non ha occhi: ma io so che Egli percepisce la mia presenza. Mi avvicino, tendo la mano verso il tronco. Il colore della mia pelle si avvicina a quello del tronco con armonia: il tocco è delicato, ma la corteccia sicura e forte. Accarezzo la pianta, mi rinvigorisco. Trovo le forze, e la volontà soprattutto, di issarmi, con le braccia spossate dalle mie ansie, su un virile ramo dell’albero. Mi siedo. Chiudo gli occhi, inspiro, li riapro, osservo. Non si sentono versi di animali, ma solo un gigantesco respiro, in ritmo con il mio. Un sibilo ipnotico e catartico, che mi leviga le gote e le orecchie, mi accarezza i capelli. E rimango così, per ore, in silenzio, con il cuore intriso di una lieve malinconia. Chi potrà mai vedere questo posto, oltre a me? Chi potrò mai portare per mano nei più reconditi angoli di me stesso? Sarebbe rischioso, poiché la persona a cui consentirei di accedere al Giardino, avrebbe certamente il potere di distruggerlo. Solo ciò che è silenzioso, e immobile, mi è amico: le piante, l’oscurità, il letto, lo stesso silenzio. Sono io che do loro una voce, che spesso urla disperata e riecheggia nell’ambiente. Solo loro possono comprendere il Giardino dell’Essere, crederci, amarlo, entrarci. E non so fino a che punto questo mi dispiaccia. Si può uscire solo bruscamente dal Giardino, all’improvviso: non è facile abbandonare con dolcezza un idillio. Spesso persino la giungla viene sublimata: mi schianto contro la realtà come una meteora contro un pianeta, e ciò fa ancora più male.

Ritengo che se il Giardino non esistesse riuscirei a vivere più intensamente la mia disperazione, il che è un’idea ammaliante. Tuttavia io conosco, per mia (s)fortuna, quell’intimo rifugio all’interno di me stesso, e per nulla al mondo potrei mai rinunciarvi: sarei come un naufrago che ricusa la dolce sabbia della terraferma.

Tanatade

 


 

Flusso d’Incoscienza

- Racconto senza senso.

Papà scese dall’auto.

“Torno subito, vado a prendere il pane. Non cantare per la strada, sai che è pericoloso”.

Non risposi, lo osservai mentre con la sua usuale delicatezza chiudeva lo sportello. Per qualche secondo la macchina sussultò, dondolando, cullando i miei neuroni.

Il lieve volteggiare della polvere mi ipnotizzava; un impulso animalesco, una zampata per fermarla, per catturarla: l’uomo ha bisogno di catturare l’ineffabile.

Mi pentii amaramente per aver interrotto quella quiete, mi ammonii da solo, come uno scolaretto giudizioso. Pensai ad Angus Young, bambino d’oro, ora con le rughe piene zeppe di onde sonore defunte.

Il sole surriscaldò la vettura, e potevo percepire i pori della mia pelle schiudersi pudicamente, uno ad uno, rilasciando timido sudore.

La sensazione era rilassante, e gli impulsi animaleschi di conseguenza aumentarono, ma non si fecero vedere. Il sedile di pelle nera sul quale ero seduto, le cui venature avevano suscitato più volte il mio più vivo interesse, si liquefece, come commosso dalle coccole disperate del sole. Si formò una voragine sotto le mie terga, e per un secondo pensai al mio professore di eloquenza, Paolo Bonolis, in uno dei suoi programmi tanto volgari quanto irrinunciabili.

Caddi nel baratro.

Precipitai, non urlai assolutamente, era normale.

Precipitai, era buio, l’aria mi graffiava le guance.

Precipitai, ma non toccai terra precipitevolissimevolmente: prima vidi Satana in lacrime, genuflesso ai piedi di una croce, le mani giunte in preghiera. La pelle era rossa, un rubino nel fuoco; il pizzo era nero, come le corna lucide; le lacrime erano di un intenso blu, innaturale come la felicità. La fede in Dio era bianca, pura come le coscienze dei leghisti, quando cadono dalle nubi. Che cozzaloni!

Continuando a cadere, faticando a tenere gli occhi aperti, vidi uno yeti che mi dava le spalle, nascondendosi dietro un cespuglio. Non ricordo bene tutti i dettagli, né so come feci a capire che si trattasse di uno yeti. Ricordo che sembrava spiare furtivamente, con un binocolo, qualcosa (forse l’uomo) al di là della siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo escludeva. Vidi anche due leopardi, dall’aria malaticcia, acquattati ai suoi big feet.

Pinguini mostruosi.

I leopardi non avevano binocoli, non spiavano l’uomo: preferivano contemplare l’infinito. Comprendevo perfettamente tutti e tre.

Superai anche questa immagine, e cadevo ancora.

I miei piedi toccarono con decisione un pavimento di vetro nero, che si ruppe facilmente: sotto di me si aprì un cielo terso, blu come l’oro più prezioso, quando è allo stato puro.

Colline, colline verdi a perdita d’occhio, adorabili e smeraldi prati inglesi, che circondavano le tradizionali case in mattoni rossi, malinconiche e rassegnate. Allora, dopo un minuto di contemplazione, toccai il suolo.

Non mi ferii neanche adesso, ma rimasi disteso, in balia dei secondi che scivolavano nel nulla. Non so perché: piansi. Piansi di niente. Si piange di gioia, si piange per la delusione, per la rabbia, per il nervosismo, ma soprattutto si piange di niente, lo sanno tutti.

Ancora a terra mi girai alla mia destra con il collo. Vidi una pecora e un coniglio, e anche loro mi davano le spalle. Il coniglio era grosso, selvatico, il pelo corto, bruno con lievi sfumature più chiare. La pecora era di un bianco molto sporco, come l’occhio di un uomo. La sua lana era abbondante, e disordinata come i capelli di Baba Yaga.

Tutti sanno chi è Baba Yaga, Mussorgsky!

Entrambi erano molto sporchi di sangue.

Mi alzai pigramente, stiracchiandomi. Le ossa erano tutte in ordine.

Peccato, poco male.

Riuscii a vedere su cosa erano chine le teste delle due belve: la carcassa di un lupo, con un’espressione di puro e bellissimo terrore sul volto.

Le due belve strappavano famelicamente pezzi di carne, riducendo a brandelli la vittima.

“Scusate, siete carnivori?”

Perché glielo chiesi?

Si voltarono tutti e tre verso di me: coniglio, pecora, lupo.

Il primo pareva interdetto, la seconda ringhiò, il terzo sorrise compassionevole. La pietà è qualcosa di animalesco, come l’istinto di catturare la polvere.

Fuggii. Corsi come la bora stanca.

Ridevo a squarciagola, urlavo a crepapelle. Un cartello si stagliò davanti a me, dietro ad una classica cabina telefonica rossa. Il cartello diceva “Benvenuti in Bolivia”. Io educatamente ringraziai.

Apparse poi, sempre alla mia destra, una enorme ed altissima quercia. Il fusto era piuttosto stretto, e i rami cominciavano piuttosto in alto. Avevano tutti una forma ondulata, salivano verso l’alto e poi ricadevano verso il basso. Forse era più simile ad una palma, ma come ho detto sono sicuro che si trattasse di un salice piangente.

Era la mia salvezza: mi arrampicai sui solidi e forti rami che per mia fortuna partivano già dal basso, come vi avevo fatto già notare. La corteccia era ruvida, mi feriva le mani e il cuore.

Salivo, salivo, salivo….

Lo sportello si aprì, e papà risalì in macchina.

Le mie orecchie furono percosse dal fruscio delle buste. Il mio naso fu deflorato dall’odore del pane. I miei pensieri, così reali e tangibili, erano stati uccisi brutalmente, e la mia mente era stata violentata.

Lo schianto con la realtà fu il più forte.

Areserme e Tanatade