Amor vincit omnia

Anche quella sera il Globe Theatre era gremito di spettatori.

La compagnia dei King’s Men tra i cui attori, oltre ai protagonisti Heminges e Condell c’era anche William Shakespeare, avrebbe portato in scena una replica di Romeo and Juliet. La tragedia era una delle più amate dal pubblico e sicuramente anche per questo il teatro era tutto esaurito. Ma quella sera, a differenza delle altre volte, c’era una grande novità che nessuno, oltre a Shakespeare e agli altri attori conosceva, e che nessuno avrebbe mai dovuto scoprire, per questo nel backstage dietro il sipario prima dell’inizio della rappresentazione c’era gran fermento. Ma qual’era il segreto all’interno della compagnia dei King’s Men? Per capire quel che stava succedendo dietro al sipario occorre fare un passo indietro.

All’epoca di Shakespeare il pubblico che affollava i teatri era già molto esigente, e siccome sulla scena l’azione doveva essere il più possibile veritiera, gli attori delle varie compagnie teatrali erano tutti uomini, gli unici in grado di rappresentare realisticamente le scene di violenza, le scalate alle torri, le fughe, i duelli. Ma a differenza dalle sere precedenti, quella volta a causa dell’indisposizione del protagonista Heminges che aveva il ruolo di Juliet, era stata chiamata una donna, Mary Lowell.

Mary era una splendida fanciulla di vent’anni esile e bionda, e pur non avendo mai recitato davanti al pubblico, conosceva a memoria tutti i ruoli delle tragedie di Shakespeare quali Giulietta, Ofelia, Desdemona, Porzia perché amava il teatro, ma soprattutto perché amava segretamente l’attore Condell, e per questo tutte le sere andava ad applaudirlo confondendosi tra gli spettatori del Globe Theatre. Così, il fatto che la fanciulla conoscesse a memoria il copione era per la compagnia già un grosso passo avanti, ma si notava fin troppo che Mary, che aveva pur sempre un corpo da donna e una voce da donna, impersonava una Giulietta un po’ troppo veritiera e per questo tutti temevano che quello scambio di ruoli sarebbe stato scoperto durante lo spettacolo. Fu per questo motivo che, quella sera, per cercare di ingannare il pubblico un barbiere le tagliò i suoi lunghissimi capelli biondi, ne fece una lunga treccia e la ripose dentro l’armadio dei costumi, infine le mise la parrucca che Heminges usava per interpretare Juliet.

Anche in sartoria ci fu un gran da fare per imbottire le spalle, restringere e sistemare l’abito che l’attore aveva utilizzato per le serate precedenti, ma alla fine tutto fu pronto e la rappresentazione ebbe inizio.

Il pubblico, attento e quanto mai partecipe, non fece che applaudire e alla fine fu un trionfo. Di più, molto di più delle altre volte. Quando finalmente il pubblico lasciò il teatro, nel backstage Shakespeare e gli altri attori si precipitarono da Mary Lowell per complimentarsi con lei: gli spettatori non si erano accorti dell’inganno, non solo, ma avevano applaudito così a lungo e con un tale entusiasmo come mai era successo prima di allora. Ma quando Mary rimase da sola nel suo camerino e cominciò a spogliarsi, per l’ultima volta strinse a sé il costume di Juliet sapendo perfettamente che mai più avrebbe potuto recitare nel ruolo di Giulietta con il suo amato Romeo accanto. Lontano di lì anche quella sera, dopo la rappresentazione, la compagnia dei King’s Men fu invitata a corte dal re Giacomo I Stuart. Ma Mary non c’era, né poteva esserci e si presentò invece Heminges, appena ristabilito dalla sua indisposizione.

Gli attori, insieme al re e ai nobili, banchettarono e brindarono fino all’alba all’enorme e inaspettato successo che, grazie a Mary, avevano ottenuto. Quanto a lei, Mary, era rimasta a lungo nel backstage insieme allo staff del teatro, perché sapeva che non ci sarebbe mai più stata una replica con lei sulla scena, e per questo desiderava far durare il più a lungo possibile quel sogno che stava per infrangersi.

Ma alla fine anche lei dovette lasciare il teatro. In lacrime salì in carrozza e lì trovò un mazzo di rose rosse che Condell di nascosto le aveva fatto recapitare. Ma solo quando rientrò nella sua casa alla periferia di Londra si rese conto che il suo cuore era rimasto lì, al Globe Theatre, perché lei, lo sapeva, era la “vera” Giulietta, perché era una donna e solo lei poteva riuscire a rendere così realistico il suo amore per Romeo.

Intanto era giunta l’alba e un pallido sole si indovinava al di sopra della fitta nebbia che avvolgeva la città ancora silenziosa. Nessuno se ne accorse quella notte, ma Mary Lowell, che per prima aveva osato interpretare il ruolo di Giulietta, forse a causa della grande emozione provata, nel sonno fu colta da un malore, e repentinamente passò dalla vita alla morte.

Come la protagonista della tragedia di Shakespeare. All’interno del Globe Theatre, invece, sebbene a luci spente e senza musiche, la lunga notte dello spettacolo era proseguita perché tutti i personaggi di Shakespeare avevano di colpo preso vita e avevano continuato a recitare la stessa commedia o la stessa tragedia, ciascuno col suo ruolo una, due, tre volte. Così, mentre i personaggi secondari erano sempre intenti nei loro duelli tra lo stridore dei fioretti, Romeo e Giulietta, come Otello e Desdemona, come Antonio e Cleopatra, s’erano giurati eterno amore. Fino all’alba.

E quando, la sera dopo, nel Globe Theatre le luci furono di nuovo accese per i preparativi dell’ennesima replica della tragedia – con Heminges di nuovo nel ruolo di Juliet – tutti notarono con stupore che sul palcoscenico c’erano alcuni degli sfarzosi costumi di scena.

Con una lunga treccia bionda sul costume di damasco bianco.


Nanà

Il vicolo dell’Annunziata, che partiva dalla piazza principale del paese, subito dopo la Fontanina delle Lodole scendeva ripido verso il mare. Nell’ultima casa, al di sopra dell’insegna “Vini e Oli”, dove nei giorni di festa del Santo Patrono veniva sistemato un doppio arco di luminarie, si trovava il balconcino in ferro battuto di Nanà.

Sempre ridente di gerani, di petunie e di lillà, era l’unico balcone del vicolo, fatto di case addossate le une alle altre e tutte bianche di calce su cui spiccavano le imposte di legno spalancate al sole; a vederlo dalla piazza, nella trasparenza azzurra dello sfondo, più che un terrazzino pareva una variopinta mongolfiera sospesa tra cielo e mare.

Su quel balcone, seduta su una sedia di paglia, nelle giornate di sole Nanà ricamava.

Il vero nome della ragazza era Loredana, ed era stato scelto da suo padre don Filippo Cimarra in ricordo dell’amore giovanile e mai corrisposto per una signorina di città; fu forse per questo motivo che la madre della fanciulla, una volta venuta a conoscenza del fatto, aveva preferito per la piccola il diminutivo di Nanà.

Nonostante l’educazione rigida imposta dai genitori, Nanà si era sempre mostrata obbediente e studiosa, e quando suo padre morì precocemente a causa di un aneurisma, fu suo fratello Renato, maggiore di lei di dieci anni, a farne le veci. Quanto alla madre, debole di salute e di carattere, non si oppose mai a quella specie di dominio che Renato aveva cominciato ad avere sulla ragazza, ritenendo al contrario che fosse una benedizione del Signore avere in casa un figlio maschio sulle cui spalle riversare le responsabilità della famiglia e l’educazione di Nanà. Infatti la donna, che soffriva di debolezza cronica con dolori diffusi in tutto il gracile corpo, non era mai stata in grado di occuparsene personalmente, e sempre a causa della sua salute malferma, passava gran parte della giornata seduta sul letto nell’unica stanza esposta a sud, avvolta nelle liseuses un po’ ingiallite di lana d’angora.

Dopo il diploma di terza media, Nanà fu iscritta alle magistrali in un istituto di suore in città, ed era Renato che l’accompagnava e l’andava a riprendere non appena riusciva a liberarsi dal lavoro, così ogni giorno, a pomeriggio inoltrato, la ragazza si faceva trovare seduta sull’ultimo banco accanto al battistero della cappella, oppure sulla panchina del giardino, proprio sotto al nespolo, coi libri in mano per avvantaggiarsi nelle lezioni.

Nei lunghi pomeriggi d’inverno, quando un pallido sole disegnava ombre lunghe al di là delle finestre, mentre l’odore acre della zuppa di cavoli si diffondeva per tutta la casa, Renato spiegava alla sorella l’ablativo assoluto o il meccanismo della consecutio temporum. Nanà, seduta di fronte a lui, teneva sempre gli occhi sul libro di grammatica latina, e quando li rialzava, sulla grande specchiera dorata della sala da pranzo, guardava le loro immagini riflesse per trovare il coraggio di chiedere a suo fratello, non vedendolo di fronte a sé ma di spalle, quel che da tempo avrebbe voluto chiedere, e cioè il permesso di lasciarla andare a passeggio coi giovani della sua età, almeno il sabato pomeriggio, almeno una volta al mese. Ma anche qualora fosse riuscita a formularla, quella richiesta, la risposta sarebbe stata negativa, ne era certa, col risultato che l’unica occasione per uscire di casa era la messa delle sette in compagnia di sua madre, nelle rare giornate in cui riusciva a reggersi in piedi. Il tempo intanto scorreva veloce e monotono e sempre più spesso il vento, di fuori, voltato l’angolo che dava sul mare, faceva sentire il suo sibilo sbattendo le imposte.

Nella sala da pranzo in stile barocco le ripetizioni intanto continuavano, e dopo la grammatica latina era la volta di quella francese, poi della letteratura italiana.

– Dunque… si può senz’altro affermare che sia la Provvidenza il filo conduttore dell’opera del Manzoni…- diceva Renato puntando contro la sorella quei grandi occhi burberi.

– Mi ascolti? – s’interrompeva poi, quando lo sguardo di Nanà si perdeva nell’azzurro del cielo e del mare oltre la finestra; ma Nanà non ascoltava più, e continuamente perduta dietro ai sogni della sua età, si chiedeva sempre più spesso perché mai proprio a lei fosse toccata in sorte una simile famiglia che non mostrava verso di lei alcun tipo di attenzione ma che, al contrario, la considerava la “femmina”, cioè una specie di palla al piede da sistemare e di cui liberarsi al più presto.

Col tempo le cose non cambiarono, nemmeno alla fine degli studi e nemmeno dopo il compimento della maggiore età.

Del resto, dotata di un temperamento mite e sottomesso, la ragazza non si era mai ribellata a quello stato di cose, e nell’appartamento al terzo piano di quella palazzina protesa sul mare, ora che sua madre era definitivamente costretta a letto a causa di una sopraggiunta   artrite reumatoide, era lei che lavava i panni, li strizzava e li metteva ad asciugare al sole e al vento nella grande terrazza del condomino accanto alle soffitte; era lei che preparava il pranzo e la cena, che rigovernava la cucina e che, sui mobili, sulla tappezzeria, e sulle poltroncine in cinz del salottino ogni giorno passava l’aspirapolvere.

Gli anni intanto erano passati e alla ragazza, ora più vicina ai trenta che ai vent’anni, fu permesso di cominciare a pensare al corredo. Gliene parlò una sera Renato, prendendola in disparte come sempre faceva quando doveva affrontare argomenti importanti e prima che si mettesse a rigovernare i piatti, e fece un lungo preambolo dicendo tra l’altro che era tempo per lei di pensare ad uno sposo, che la loro madre non sarebbe vissuta in eterno, e che sarebbe stato senz’altro compito suo trovare un buon partito adatto a lei, un lavoratore senza tanti grilli per il capo insomma, e con il proposito di metter su famiglia.

Nanà l’ascoltava, ma non provò alcun entusiasmo udendo questa novità, che considerava invece la logica conseguenza dell’educazione ricevuta.

Quando compiì vent’anni

Così, nelle belle giornate di sole, dopo aver sistemato la cucina e aver passato l’aspirapolvere sul vecchio Bukhara del salotto, Nanà si metteva seduta sul balcone, e sulle lenzuola di lino che tanti anni prima sua madre aveva fatto venire da Firenze, col rosso e col blu ricamava le iniziali del suo nome e quelle del futuro sposo intrecciate fra loro dentro una ghirlanda di spighe dorate. Tuttavia, non avendo un fidanzato e nemmeno un ammira-tore, aveva scelto come iniziali le stesse che aveva visto nel giornale di lavori femminili, e cioè una “F” perfettamente stilizzata e attorcigliata intorno alla “L” del suo nome di battesimo. Terminato il lavoro, stirava dal rovescio le federe e le lenzuola e poi le riponeva nello stesso baule dentro al quale erano rimaste per anni, tra sacchetti di lavanda un po’ avvizziti e confezionati col tulle di vecchie bomboniere.

Sua madre, dal letto, guardava, approvava e taceva.

Col tempo, i paesani che scendevano al vicolo, vedendo Nanà sempre seduta su quel balcone, avevano preso l’abitudine di salutarla considerandola ormai una specie di istituzione, come il monumento di Garibaldi, il sindaco, il medico condotto e il farmacista.

– Nanà, riverisco! – dicevano guardando in su e togliendosi il cappello proprio davanti all’insegna “Vini e Oli”. Ma Nanà non rispondeva. E continuava a ricamare.

Anche quell’anno, dopo un inverno particolarmente rigido che aveva fatto seccare tutte le piante di gerani, finalmente giunse la bella stagione e Nanà, col cesto dei panni fra le mani, ora sempre più spesso saliva sulla terrazza dove, i bruni capelli al vento, restava più del solito per godersi l’aria fresca e dolce della sera.

Un pomeriggio, si era la fine di luglio, proprio mentre era affacciata sulla terrazza sentì dei passi dietro di lei. Era Federico, il figlio primogenito del geometra del terzo piano. Spuntando all’improvviso tra le lenzuola stese e svolazzanti al vento, il ragazzo le aveva chiesto il permesso di parlarle e lei, arrossendo divertita, aveva risposto di si.

Affacciati sul muro ruvido della terrazza, lui aveva cominciato a parlarle del suo lavoro di geometra, nello studio di suo padre, e lo aveva fatto guardandola con quei grandi occhi chiari che pareva avessero rubato il colore al mare. Per tutta l’estate, sempre che suo fratello non fosse già rientrato dal lavoro, Nanà continuò a recarsi sulla terrazza dove Federico l’aspettava; e fu proprio su quella grande terrazza che, dopo aver chiuso a chiave la grande porta di ferro che dava sulle scale, in una afosa serata di   fine agosto conobbe l’amore.

Tornò l’inverno e col suo bianco furore aveva di colpo strappato via il rosso e l’arancio dagli alberi della piazzetta, ma anche se il vento che prendeva forza dal mare accompagnato dalla pioggia soffiava impetuoso dentro gli infissi delle finestre, Nanà, che aveva ora un segreto nel cuore e che solo di quello viveva, continuava a ricamare davanti ai vetri appannati della finestra. La sera, mentre aspettava che suo fratello tornasse a casa per la cena, immaginando la prossima volta con lui, davanti allo specchio della sua cameretta studiava nuove pettinature cercando al contempo l’abito più adatto al colore dell’incarnato, gli orecchini più vistosi, e indossando le scarpe nere lucide col tacco a rocchetto che mai prima di allora aveva messo. Più volte, in quelle lunghe e tediose ore pomeridiane, come mai era capitato prima, sua madre l’aveva udita cantare.

Nanà, col cuore in tumulto dalla gioia in attesa di ciò che considerava la normale conclusione di quanto era accaduto, ricamava e aspettava.

Spazzando via l’inverno, il tepido vento del sud aveva intanto riportato la bella stagione e formando nel cielo nuvole grigie dalle forme sempre diverse, erano tornati gli storni. I rami fioriti dei mandorli parevano festoni che dondolavano nella brezza del mare, ma sul balconcino, ora nuovamente ingentilito dai lillà, Nanà non tornò più.

Arrivò il dieci di agosto, e tutto il paese era già pronto per la festa del Santo Patrono.

Le luminarie nel vicolo erano tutte accese mentre la piazza, invasa dalle bancarelle degli artigiani del rame battuto, aveva il profumo del croccante, dei mozzetti e delle zeppole tipici del paese ed era tutta uno sventolio di bandiere mentre i carri allegorici che rappresentavano episodi della vita del Santo erano pronti per sfilare nella via prospiciente il mare.

Quella sera anche Nanà era scesa per partecipare ai festeggiamenti.

Al braccio del fratello, camminava altera e felice su e giù per il vicolo sperando in cuor suo di incontrare Federico. Se così fosse stato, avrebbe fatto finta di niente e, civettuola, si sarebbe addirittura voltata dall’altra parte per non far trapelare la gioia immensa che provava. Del resto non era per lui che aveva indossato il vestito di cadì turchese e non era per lui che aveva sciolto i capelli?

Intanto sulla piazzetta la banda aveva cominciato a suonare mentre le majorettes, nei loro costumi gialli e verdi che lasciavano scoperte le lunghe gambe avvolte in calze di seta, marciavano facendo roteare i lucidi bastoni sui loro kepì.

Nanà si sentiva esaltata, quasi ubriaca di gioia. E fu allora che lo vide.

Lui, Federico, seduto sulla panchina di fronte al monumento di Garibaldi. Ma era abbracciato ad un’altra ragazza, Ornella, la nipote del sindaco.

Nanà sentì immediatamente uno schianto dentro il petto come la sensazione di essere colpita da un fulmine senza aver avuto il preavviso del temporale. Le venne voglia di urlare e di fuggire, ma non poteva farlo. Suo fratello, attento a salutare i paesani e a rispondere a   quelli che davanti a lui sollevavano il cappello in segno di rispetto, controllava che anche lei si mostrasse gentile, e soltanto quando s’accorse che la ragazza aveva ora gli occhi lucidi e l’espressione infelice di una bestiola chiusa in gabbia, ritenendo di conoscere i suoi pensieri, si decise a dirle quello che da giorni sapeva. Un suo vecchio compagno di liceo, tale Francesco Fontana, lontanamente imparentato con l’avvocato di grido Gianmario Fontana e che aveva fatto fortuna nel commercio aprendo addirittura due nuove succursali in poco tempo, aveva anche deciso di mettere su famiglia e aveva chiesto la mano di Nanà nonostante l’avesse veduta poche volte e di sfuggita al braccio di Renato.

Nanà ascoltava in silenzio, con gli occhi bassi, cercando di ingoiare le lacrime. La testa le girava e un bambino, sfuggito dal controllo della madre, correndo a perdifiato con una trombetta di latta in bocca, andò a sbatterle contro.

Renato intanto continuava a elogiare il suo amico in un discorso che sembrava non dovesse finire mai.

Nanà, che si era servita di questa notizia come pretesto per riuscire finalmente a piangere, cominciò a singhiozzare senza riuscire a trattenersi; allora Renato, solo un po’ stupito e attribuendo la reazione esagerata della sorella alla sua voglia di libertà finalmente raggiunta e allo stordimento improvviso di fronte a cose tanto serie, bonariamente e con animo paterno le consigliò di tornare a casa in gran fretta, che lui l’avrebbe raggiunta subito dopo.

Finalmente, con gli occhi bassi e il fazzoletto stretto nel pugno, urtando la gente che passava, Nanà si affrettò verso casa. Ma prima di arrivare al vicolo dell’Annunziata, vide di nuovo Federico accanto a Ornella, abbracciati, sotto il lampione liberty del lungomare.

Allora si mise a correre, così velocemente da farsi spaccare il cuore, e quando arrivò su, senza dire una parola alla madre che subito l’aveva chiamata, si gettò sul letto e lì rimase fino alla mattina dopo.

Altro tempo passò, e Nanà che sempre più spesso appariva taciturna e silenziosa, atteggiamento che suo fratello aveva subito interpretato come segno di maturità rispetto al suo nuovo status di ragazza promessa a qualcuno, solo per caso venne a sapere che il geometra del terzo piano s’era sposato con la nipote del sindaco e che i due ragazzi erano andati a vivere in città.

Solo allora capì che il suo amore era perduto per sempre e che la vita, per lei, era una partita persa.

Così, complice la bella stagione che stava per arrivare, tirò fuori dal baule le lenzuola di lino e riprese a ricamare, sul balconcino sempre ridente di gerani e di lillà.

E quando apprese da Renato che il suo promesso sposo era morto improvvisamente in un incidente di caccia proprio la settimana prima di presentarsi a casa per il fidanzamento ufficiale, non se ne rallegrò e non se ne dispiacque.

Da allora smise di parlare e non scese più in paese, nemmeno per la messa.

E per il resto dei suoi giorni, silenziosa e triste, anche nelle fredde giornate di bruma, col giallo e col blu continuò a ricamare le iniziali di due nomi sul suo corredo, nel balconcino in ferro battuto proteso sul mare.


Quella voce nel buio

Aveva piovuto tutto il giorno e ai lati delle case scorrevano rivoli d’acqua che lentamente s’erano ingrossati ed erano scesi verso il viottolo che precipitava nella valle. La casa dell’uomo era fatta di tufi e si trovava proprio nella periferia del piccolo paese, un po’ distante rispetto alla strada principale, quella dove c’erano il municipio, la scuola elementare, la farmacia, e l’abitazione del sindaco.

Anche quella domenica, come era sua abitudine, l’uomo aveva pranzato a casa della sorella vedova che viveva poco lontano coi suoi bambini, poi era andato al bar per fare due chiacchiere con gli amici e infine, poiché la pioggia non ne voleva sapere di cessare, s’era infilato nell’unico cinema del paese, che si trovava appena usciti dal vicolo, nella piazzetta dove sorgeva la chiesa del santo patrono. La locandina attaccata al muro era troppo bagnata ed era impossibile leggere il titolo del film, ma l’uomo non se ne curò e visto che alla cassa non c’era nessuno entrò direttamente nella sala. La prima cosa che lo colpì fu quella di essere assolutamente solo e di questo se ne rallegrò, perché così avrebbe potuto scegliere il posto migliore che per lui era sempre stato in prima fila. Il tempo di posare il cappotto e l’ombrello e nella sala si fece buio assoluto.

Quando l’uomo vide il fascio di luce alle sue spalle che proveniva da una piccola finestrella rettangolare, mise gli occhiali che aveva nel taschino, tossicchiò e mentre una melodia dolcissima iniziava a diffondersi nella sala, guardò verso lo schermo dove era scritto, in bianco e nero, il titolo del film.

La prima scena mostrava un piccolo bambino bruno che non poteva avere più di sei o sette anni che correva dietro ad un pallone nel campetto di calcio all’interno di una parrocchia, in una splendida giornata di sole. Attorno a lui c’erano altri bambini impazienti di giocare, ma lui si comportava come se fosse da solo, senza mai passare il pallone a nessuno.

Di colpo poi la scena cambiò, e sempre con le dolcissime note di una musica in sottofondo, si vide un povero mendicante che, seduto di fronte a una quercia secolare, chiedeva l’elemosina all’uscita di una chiesa. L’uomo rimase colpito: si trattava della piccola chiesa del suo paese! Per cercare conferma a quello che i suoi occhi stavano vedendo si guardò intorno, ma la sala era ancora completamente vuota e l’uomo allora rivolse di nuovo lo sguardo verso lo schermo. Vide un giovane sui trent’anni che camminava nella piazzetta del paese e con immenso stupore riconobbe se stesso. Sì, era proprio lui! Ancora incredulo tolse gli occhiali e si voltò di nuovo, questa volta verso il muro da dove proveniva il fascio di luce della pellicola. Anche lì non c’era nessuno, così, più spaventato che incuriosito, tornò a guardare il film. Vide dapprima se stesso passare davanti a una vecchia gitana con le mani tese verso di lui, poi si vide di spalle, mentre si allontanava dalla piccola piazza.

Martino non sapeva davvero cosa pensare. Avrebbe voluto alzarsi per parlare con qualcuno, chiedere cosa stava accadendo e perché proprio a lui… ma all’interno del locale non c’era nessuno. Iniziò a sentirsi come paralizzato per quella incredibile rivelazione di sé, così rimase immobile, lì dov’era.

Subito dopo la scena cambiò di nuovo. Vide la casa di sua sorella nel giorno di Natale di qualche anno prima. Era stato invitato a pranzo, come succedeva in tutte le occasioni più importanti. Così vide se stesso mentre si sedeva davanti alla povera mensa, ma notò anche il volto dei tre nipotini delusi del fatto che nemmeno a Natale lo zio aveva portato loro dei doni. Perché l’uomo, che nessuno avrebbe potuto definire malvagio, non aveva tuttavia nemmeno il dono della sensibilità, quello della gratitudine e dell’amore verso il prossimo. E, fatto ancora più grave, di questo non se ne era mai reso conto. A quel punto, deluso e infuriato senza sapere neanche nei confronti di chi, si alzò e andò sotto il fascio di luce.

– Ehi! C’è qualcuno lì? Ma che razza di film è questo? – disse.

Dal fascio di luce gli arrivò una voce. Chiara, limpida e decisa, come quella di un attore mentre recita una poesia.

– E’ il film della tua vita, Martino! –

L’uomo non riusciva a credere alle proprie orecchie.

– Il film della mia vita? E chi sei tu che conosci tutto di me, persino il mio nome? E, soprattutto… cosa vuoi da me? –

La voce non tardò a farsi sentire ancora.

– Ho voluto mostrarti la storia della tua vita con alcuni episodi in cui avresti potuto fare qualcosa di positivo, e non l’hai fatto –

Martino rimase di stucco anche perché, mentre parlava, le scene in cui lui era assoluto protagonista si susseguivano una dopo l’altra.

– Ma cosa avrei dovuto fare, eh? L’elemosina a quel mendicante? Non avevo denaro con me quel giorno! E poi … – indicò lo schermo in cui vedeva se stesso nella stanza di un ospedale, davanti al letto di una donna anziana – anche quella volta lì … come avrei potuto andare più spesso a trovare mia madre se ero sempre oberato di lavoro? Se avessi avuto più tempo forse… –

– Ma non l’hai fatto – ripeté la voce.

L’uomo abbassò lo sguardo, perché davvero non ce la faceva a continuare a guardare le immagini che scorrevano sullo schermo.

Poi di colpo, così come era iniziato, il film terminò e la sala piombò nel buio più assoluto. Impaurito, Martino si alzò e corse verso l’uscita senza però riuscire a trovarla. Quando finalmente, dopo un tempo che gli era sembrato in terminabile, la luce tornò, si accorse che contro il muro, uno sopra l’altro, c’erano tanti scatoloni. Ne aprì uno e vide che era pieno di bobine con le pellicole di altri film. Ancora più spaventato uscì dal cinema e subito si accorse che anche lì fuori era completamente solo.

La pioggia nel frattempo era cessata e nel cielo, tra squarci di nuvole in movimento, a tratti faceva capolino la luna, ma faceva anche freddo, tanto freddo. Martino allora si voltò verso il muro del cinema. Sotto la luce fioca di una lampadina al neon, scritto con grandi lettere rosse su fondo bianco, lesse il titolo del film che aveva appena visto: La voce della coscienza.

Dal fianco scuro della montagna il vento aveva iniziato la sua corsa verso il paese. Martino sollevò il bavero del cappotto, mise l’ombrello sotto il braccio e con passi lenti scomparve nel buio della notte.