9) Abitando il mondo di Spinoza: Il Barcaro

Solitamente il mestiere di barcàro

o barcaiolo iniziava in tenera età,

un po’ per divertimento,

spesso per aiutare la famiglia (…)

Una volta a bordo il giovane

diventava mozzo o ragazzo di fatica,

svolgeva le mansioni più umili

e apprendeva i rudimenti del mestiere

fino a diventare un giorno lui stesso

il “Paron” della barca e il comandante.

Nell’immaginario collettivo il mestiere del barcàro, sembrato all’apparenza una vita

dispendiosa per l’instabilità di cui era portatore, ai nostri occhi di ragazzi figurava invece

affascinante e denso di avventura. Ai tempi odierni “prefissati bio” lo definiremo un lavoro

eco­sostenibile, immerso com’era quotidianamente nella natura rigogliosa che le vie

d’acqua sanno offrire. Dalla laguna veneziana a Casier era un susseguirsi di piante d’ogni

genere, un’eco sistema perfetto: arbusti, alberi d’alto fusto, uccelli, pesci, assieme

all’uomo, inserito in paesaggi naturali strabilianti, simili a dei giardini paradisiaci mantenuti

tali da un “giardinier che no incàlma e incapricià dei umani”. Le piante sbocciavano

spontaneamente, formando un unico giardino botanico, e, meraviglia delle meraviglie, a

perdita d’occhio; il barcaiolo, immerso in quell’atmosfera: el parea el paron del creato con

un soramànego da far invidia*.

Il racconto appassionato di Glauco (Brunetto) Stefanato stimola la mia narrazione

(impiràndo i ricordi uno a uno, come e impiraresse e perle*). Diceva mio padre Danilo: el

xe to secondo cujìn (… me màma, to nòna Carlotta, a iera sorèa dea Virginia Parpinel, to

xia Cici, màre de Glauco, ciamà Bruneto), dèsso gatu capìo? Si! o No!*. Capitano di una

nave – La Silis, Bruneto Stefanato percorre indomito le antiche vie d’acqua senza n’dar

fòra s­ciàpo*. Stipata di gente curiosa e affascinata dai luoghi incontrati. A lui “l’onere”, e

l’onore, di riportare alla luce la Litoranea Veneta. La “strada” delle navi. Un neologismo

per definire, oggi, l’esistenza dì una possibile alternativa all’autostrada. Quella dei

mastodontici TIR che hanno soppiantato dei veicoli più compatibili con l’ambiente: co’ el

burchio se va da ogni parte* ­ sottolinea Brunetto. L’uscita era sul golfo di Monfalcone,

quando erano i barconi carichi di merci a dettare le regole per rifornire i mercati. In località

Punta Sdoba fino a Trieste, dove caricavano: carbone, sassi per mantenere saldi gli

argini, cereali. Ma espandevano anche la loro presenza senza indugio nei canali di

derivazione: Livenza, Piave, Stella, Meduna, Noncello, Emena, fino a Marano Lagunare.

Il Brenta fino a Padova. Il Bacchiglione, il Gorzone, il Po (frumento e barbabietola) fino a

Ferrava, Mantova, Cremona, Pavia. E poi verso il centro nord fino a Milano, città fucina

dell’economia, dal 1919 al 1921 con l’armatore della famiglia Rocco, di Pellestrina.

Quando i burchi* li vedevamo arrivare in lontananza, o singolarmente (all’inizio del XVIII

secolo, in pieno dominio veneziano, con il diritto di traino dei natanti, detto jus de restàre),

o uno dietro l’altro, passata la curva, l’ultima risalendo il fiume Sile prima dell’arrivo

all’approdo casierese, in fila indiana puntare verso la piarda (un arenile di secolare

accoglienza naturale): il Ticino, il San Marco, La Favorita, il Santo Stefano, il

Bonaventura, il Guglielmino, stivati carichi, notavamo all’istante il loro scivolare a pelo

d’acqua. Forieri di abbondanza, evocavano figurazioni marine di pesci enormi; come

fossero delle grandi balene risalenti il corso d’acqua dolce, trovatesi lì per togliersi uno

sfizio o una vacanza, e non spiaggiando, come succede oggi a causa delle sonorità

ricevute in frequenza da strumenti tecnologici.

Il barcàiolo, al timone a poppa, o sopra il carico quando la visuale era stantia, sovrastava

la merce con lo sguardo lungo, da sovrano incontrastato; nocchiero autorevole nel dare le

ultime indicazioni per un attracco controllato: ­ Buta a zima e daghe un giro a che ‘a

corda! ­ sentivi gli ordini impartiti decisi dal paron, senza remissione. E, el mozzo, in un

supiòn el dovea esa pronto, anca col mòcoeo al naso*. Quando invece era la fatica a

dirigere le operazioni, spesso d’inverno immaginando na menèstra calda e un gòto de vin

sòto coperta, i più severi capitani aggiungevano: ­ E chì nò sà fàr pol ànca canbiàr

mestièr, compresi quèi tèneri de pànza!* In quanto per l’approdo ci voleva movimento di

gambe, colpo d’occhio, attenzione a non finire in acqua. Poi, i burchi ormeggiati lungo la

riva, uno accanto all’altro, li ritrovavi svuotati a godersi il meritato riposo: ed era festa.

I barcàri li definivi trovandoli al posto loro all’interno del contesto lavorativo, nei mesi estivi

quando li potevi osservare “volteggiare” leggeri, muoversi senza timore, in spazi

strettissimi anche per misure di piede 45/50. Degli elfi. Con autorevole disinvoltura, come

consumati ballerini, saltellavano tra un boccaporto e un altro. Li vedevi sistemare la

copertura, oppure avvolgere il sartiame non più necessario, per l’ultimo definitivo controllo

che tutto fosse al posto giusto. Anche a ramazza; a secchiate d’acqua, abbondantemente

raccolta, riportavano quell’ordine dovuto dopo lo scarico del prezioso materiale

trasportato. Così, il “fedele compagno” di vita lavorativa, ripulito a dovere, era pronto per

ricominciare con un nuovo carico sotto la stiva, pancia materna, accogliente.

A dimostrazione di una mobilità fluviale, regionale e nazionale, non ponderata

adeguatamente da parte dell’imprenditoria di allora. Da una classe politica disattenta,

riuscita a svuotare uno spazio lavorativo importante, lasciando che una tipologia di

mobilità mercantile andasse ad alloggiare nella storia (o vagabondare solamente nei

ricordi di qualche nostalgico). Scegliendo impropriamente, a mio avviso, per uno stato

dell’opera destabilizzante per il territorio e per la salute.

Conseguentemente, quando arrivò il momento di un abbandono necessario, la dipartita

avvenne da parte di coloro che di quel lavoro ne avevano fatto uno stile di vita; ora, che il

loro percorso di facchinaggio fluviale è terminato, alcune carene di quei burchi, o di quel

che resta dei loro gusci, divenuti ischeletriti, si possono ancora notare in un museo a cielo

aperto, spolpati, erosi, ma ancora testimoni. Quella collezione di pubblico dominio,

visibilmente esposta, sta avvolta dall’acqua, fatalmente distinguibile. Il Santo Stefano, il

Ticino, La Favorita, il San Marco, il Bonaventura, il Guglielmino e altri, si trovano adagiate

nel luogo originario che li ha visti protagonisti indiscussi.

Il fiume sembra averli accolti, come un padre e una madre riuscirebbero a fasciare

teneramente i propri figli, anche alla luce del sole più virulento, o se fossero avvolti dalla

nebbia novembrina; quel posto lo incontri percorrendo il tragitto dell’alzaia da Casier

andando verso Treviso e viceversa. Spuntano ancora sovrani, alcuni immersi a metà, altri

del tutto sott’acqua. Quando la luce lo permette, li vedi bene. A guardarli danno

l’impressione di poter rivivere i fasti di un tempo. Taluni sembra stiano lì­lì per ripartire, se

non li squadri con malinconica prostrazione e invece dai ascolto all’incanto. Ogni uno col

so paron “riemerso dall’oltre tomba” gridando: dai mòvate buta a zima. Quando il tempo

atmosferico non lo permette li intravvedi a tratti, a spicchi, visibili sotto la trasparente

coltre, raccolti, facendosi appoggio, accoglienza, generosi come sempre sono stati, per

una pausa di volo di uccello, o dimore speciali per le specie di pesci che, popolando il

fiume Sile, si discostano dalle correnti profonde per un luogo meno impegnativo da

affrontare.

Il Sile è un habitat faunistico. Un vivaio sterminato di piante. Un: “Deus sive natura”*­

strepitosamente Cantico dei Cantici, verrebbe da dire. Non ancora Parco Naturalistico a

quel tempo. E? in quella grandezza si espandeva il canto modulato delle lavandaie

(socchiudendo ancora gli occhi se ne può sentire l’eco e “una musica d’altri tempi”) chine

sul lampòr a lavar* gettandosi alle spalle la pesantezza del tempo. Spesso concordi con il

motivo scanzonato, scimmiottavano in romanesco con ironia: Er Barcàrolo va contro

corrente… ­ quando di solito erano i barcàri più giovani a cogliere per primi il tempo

giusto, nel primo pomeriggio, dopo aver terminato di sistemare le faccende cominciate; il

momento ludico avveniva spesso gareggiando, tuffandosi anche per un momento di

refrigerio, o di spavalderia, nelle acque del canale. Assaporando pienamente la vita

immersi in quell’avvolgente dimensione risorgiva, forse, ritrovando inconsciamente

l’accoglienza del grembo materno. Ed era pura gioia, di grida, di canzoni stonate,

schizzata nell’incontro diretto del proprio corpo con quell’elemento liquido. La

spensieratezza quasi potevi toccarla con mano, nei loro volti riemersi, “nati” per la

seconda volta.

• * “giardinier che no incàlma e incapricià dei umani: “giardiniere che non innesta e stravagante verso gli

umani.

* el parea el paron del creato con un soramànego da far invidia : sembrava il padrone del creato con una

maestria invidiosa.

* (impiràndo i ricordi uno a uno): infilando i ricordi uno a uno come facevano, con assoluta precisione, le

Impiraresse con le perle.

* el xe to secondo cujìn (me màma, to nòna Carlotta, a iera sorèa dea Virginia Parpinel, to xia Cici, màre de de

Glauco, ciamà Bruneto, dèsso gatu capìo? Si! o No!): è tuo secondo cugino (mia mamma, tua nonna Carlotta,

era la sorella della Virginia Parpinel, tua zia Cici, della mamma di Glauco, chiamato Bruneto, adesso hai

capito? Si! o No!).

* senza n’dar fòra s­ciàpo: senza anomalie.

* co’ el burchio se va da ogni parte: con il barcone si va in ogni parte.

* Buta a zima e daghe un giro a che’a corda: Butta la cima e avvolgi quella corda.

* E chì nò sa fàr pol ànca canbiàr mestièr: E chi non sa fare può anche cambiare mestiere.

* Deus sive natura: Dio o la natura di Baruch Spinoza, filosofo (nato il 24 novembre 1632, Amsterdam – morto

il 21 febbraio 1677, l’Aia).

* col so paron: con il suo padrone.

* dai mòvate buta a zima: dai muoviti butta la cima.

* lampor a lavar: tavola di legno servita per lavare.

* barcàri: uomini che lavoravano sulle barche di grossa stazza.


Annabella: breve storiella d’altri tempi tra verità e fantasia

(…) Io sono uno scienziato, non un artista,

e quindi non mi permetto nessuna libertà

e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo

che queste libertà non siano necessarie,

e che sia molto meglio attenersi,

come nei veri e propri lavori scientifici,

semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere

al lettore la bellezza del mondo animale. (…)*

Forse è stato per la sua prestanza solida che trasmetteva nel guardarlo, forse perché

c’era lì da sempre, che la scelta si fece consuetudine, anno dopo anno quello diventò il

posto deputato per un rituale: lo reputò affidabile il mezzadro che lo vedeva tutti i giorni,

stabilmente presente, come avrebbe detto di un uomo dal fisico possente, resistente,

asciutto e compatto. Quando era tempo, nella noghera* veniva appeso il maiale; nel

mese di ottobre inoltrato o a novembre appena iniziato. Una tradizione contadina che

serviva per provvedere a rimpinguare le dispense di soppresse, salami, musetti, salsicce,

braciole, costine, per l’appunto copando el porsel*.

Recuperando un momento della sua infanzia, a Mauro Giuliotto è rimasta impressa

un’istantanea fissata, e presente se richiamata, nella sua memoria; racconta, a me che lo

sto ad ascoltare ben predisposto alla sua narrazione, dice che vide la iuia*, di due

quintali, dimenarsi nell’aia tenuta a stento da cinque persone; descrive la scena

sorridendo, come se quel cortometraggio l’avesse davanti agli occhi, gustandone

pienamente la visione senza incertezze.

Io la chiamerò Annabella (anche se Bepin Giuliotto forse non la chiamava in questo

modo). E’ entrata nelle mie simpatie dopo aver sentito la storia, risaputo che a quei tempi

a tutti gli animali veniva dato un nome, per distinguerli tra di loro, fosse anche, per un

sentimento di condivisione della vita. A bestia a gavea capio che iera vegnuo el so

momento*, così si usava dire, e Annabella si difendeva da quel destino crudele e creò

una diaspora inverosimile fra uomini e animali. In quel frangente il cane abbaiava,

dimenandosi infastidito dalla catena con cui era stretto. Le galline, solitamente raccolte in

uno spazio a loro riservato, erano state lasciate libere quel giorno, non si sa perché, con il

gallo ben attento “assaporavano” l’avvenuta ricreazione; per via del gran trambusto

svolazzavano da tutte le parti facendo dei grandi schiamazzi e, il gallu­gallus

domesticus*, non avendo ben capito da dove venisse l’attacco, pensando alle sue

gallinelle, s’era premurato di saltare in un sol balzo sul carro. Da quell’osservatorio

privilegiato tutta la scena gli si parò per bene difronte.

El pioto el fasea a vose grossa pì del soito*. Il gatto con un balzo si rifugiò sotto a tesa*

rimanendo quatto­quatto sgranando gli occhi; gli altri maiali, che si trovavano non distanti

dal luogo della “corrida”, grugnivano e si agitavano. Non solo dentro, nell’animo. Era dal

mattino presto che assieme alla maiala non stavano calmi eppure, come di solito faceva il

“capobranco Bepin” il cibo per tutti, l’aveva portato; ma non bastò per quietarli.

Le bestie, insospettite, l’avevano percepito fin dal giorno prima che qualche cosa stava

per accadere. C’era un non socche nei gesti di Bepin Giuliotto, somiglianti a un annuncio

perentorio. In quella consuetudine quotidiana quel comportamento nel portare da

mangiare, aveva un certo che di sospettoso, non filava come il solito. Faceva certi segni

inconsueti che non sfuggirono all’occhio attento dei maiali. Sì può confondere, sottrarre la

verità agli uomini, ma non agli animali. All’interno dello stagoeo* non si respirava un’aria

serena sebbene la porcella avesse fatto il proprio dovere quando è stata ingravidata; i

porcellini stavano crescendo, ed erano ben pasciuti, uno era anche sparito chissà dove.

Lo sapeva bene il fattore dove era finito il piccolo di maiale, si mormorava, seccamente.

Bene abbrustolito tra le mascelle dei suoi compari, si era disciolto, così si “grugniva” tra di

loro, e per gli animali non era un bel dire e nemmeno un bel fantasticare.

Si presumeva vaneggiassero di/su Annabella erano indirizzate le loro riflessioni, perché

vi fosse una specie di “indulgenza plenaria” da parte del mezzadro, per questo il loro

pensiero figurato delineava un’altra fine per la compagna scrofa (perché se gli animali

sentono, a detta degli uomini, sicuramente riescono anche a immaginare); una fine

naturale, per esempio, sarebbe stata “la morte sua”, come sì suol dire, e, per Annabella,

crepare di consumazione e indolore non sarebbe stata una cattiva sorte.

Il diritto per “un’indulgenza plenaria” il “capobranco Bepin Giuliotto” lo possedeva

pienamente. Poteva decidere diversamente? Era la domanda sospesa e non ancora

risolta del tutto. Si! Pensavano in un sol pensiero i maiali. Se vi fosse indetto un

referendum si sarebbe raggiunta non solo l’unanimità dei votanti ma anche il risultato

finale avrebbe dimostrato sicuramente una compattezza straordinaria (come quella della

noghera)*. Per Annabella lo poteva fare un gesto di grazia. Ma la vita non gira proprio

come la si immagina potrebbe andare, e nemmeno come la illuminano le fantasie.

La famiglia di Bepin Giuliotto doveva essere sfamata e si sa che il colono (mezzadro) non

era in possesso di pieni poteri. La metà di ogni raccolto era il pattuito con il reale

proprietario del terreno. E anche di Annabella, di una metà di essa poteva decidere

Bepin, dell’altra… Il ricordo di Mauro Giuliotto prosegue in questo modo: una di quelle

cinque persone stava cercando disperatamente d’immobilizzarla, e sebbene Mario Cafuri

tenesse l’animale per la coda, mentre gli altri le erano addosso, raspando sul terreno con

i piedi, come l’aratro fende la terra, tutti assieme i cinque uomini, che di quintali ne

facevano su per giù tre e cinque, non riuscivano a bloccarla.

Ci volle del tempo prima di rendere innocuo il porcello e riportare una tranquillità nel

cortile, soprattutto per il gatto di cui si vedevano solo gli occhi spuntare da sotto un maro

de fen* ma, all’occorrenza, pronto per un balzo molleggiato. La vita agreste di quei tempi,

dettava i propri ritmi, finché il maiale venne bloccato e soppresso con un colpo di pistola

alla fronte, ritenuta una morte in dignitosa e metodologicamente impari da parte della

comunità dei maiali che avrebbero preferito un incontro diverso, alla pari, con regole

precise, con quella specie di Homo Sapiens che usava dei metodi barbari. A suon di

morsi, pensavano tutti senza essersi confrontati; così si sarebbe dovuto fare.

Altro che contrattare prima una divisione con qualcuno, a metà col paron dea terra*,

come avevano pensato bene i tardi latini dando una forma giuridica precisa (la

mezzadria), furbi nello spartirsi il bottino in due e con solo uno dei due che lavora. La

mascella dell’uomo contro il morso di Annabella, e poi si sarebbe visto chi avrebbe diviso,

chi e che cosa. Il morso della “signora bestia” era già stato provato da qualcuno di loro

dentro el stagoeo* perché, stretti­stretti, si sa come possono andare quelle faccene.

Soprattutto fra gli esseri umani. Qualcuno di loro lo sapeva bene cosa significasse, per

averlo cercato un approccio confidenziale con Annabella e spesso, per la cronaca, quel

primo contatto fu respinto con decisione e autorevolezza, a suon di morsi per l’appunto.

Per l’appunto.

Alla fin fine, il maiale venne scannato, recuperando il sangue per farne un dolce chiamato

sanguaso*; il sangue venne raccolto in un contenitore e mantenuto agitato affinché si

raffreddasse, poi, ancora tiepido venne aggiunta dell’uva passa, fichi secchi e farina,

salato e pepato. Per mangiarlo solido e l’usanza, una parte venne lasciata a raffreddarsi;

successivamente tagliato, cotto o fritto con lo strutto (l’onto*) e la cipolla. Veniva servito e

gustato con la polenta. Dopo questa prima fase, avvenne la scuoiatura; Annabella venne

distesa, come si farebbe coi cristiani*, e con l’acqua bollente venne tolto il pelo.

Successivamente Annabella, venne issata con una carrucola e appesa all’albero delle

noci dove, el saeamer*, il norcino Attilio Giusto, chiamato Tilio paia*, con tutti gli attrezzi

da lavoro: coltelli affilatissimi di piccole e grandi dimensioni, grembiale plasticato per

difendersi dagli schizzi di sangue, e un’ombra* sempre pronta, provvide a verseghe a

pansa* per togliere le interiora.

Cominciò dallo stomaco; il tampinaso* lavato e cotto diventava trippa. Il gatto non si

mosse mentre i suoi occhi puntavano dritti e fermi verso quell’abbondanza di cibo. Poi le

vianelle* che servivano per insaccare la uganega*, in questo modo le salsicce avevano

una lunga conservazione. Il sangue raccolto, ancora tiepido, venne versato in un buel de

maial* l’intestino. Insaccato, e poi cotto, poteva conservarsi per mesi e i Baldoni*

potevano venire consumati prima della stagione calda. Poi la vescica, svuotata, lavata;

gonfiata a dovere per poter asciugare, per poi metterci lo strutto.

E così, a Annabella, simile al detto popolare: te si come el porsel che no se buta via

gnente* vennero tolti i polmoni, la lingua, il fegato, la milza e per ultimo il cuore, con cui

aveva difeso la sua vita di maiala fino all’ultimo. Il giorno dell’assunzione, fine Luglio –

metà Agosto, si mangia il lengual* fatto con le cotenne (scorsi*), muscoli, carne del collo.

Prelibatezze, nella dieta contadina di quell’epoca e in alcune regioni d’Italia ancora un

rituale attualmente praticato, e forse, a causa di questo dogma, anche Annabella un

posto in Paradiso lo trovò.

• * L’anello di Re Salomone: pag. 4 ­ Konrad Lorenz.

* noghera: albero delle noci.

* copando el porsel: uccidendo il maiale.

* iuia: maiale femmina.

* A bestia a gavea capio che iera vegnuo el so momento: la bestia aveva capito che era venuto il suo

momento..

* el pioto el fasea a vose grossa pì del soito: il tacchino faceva la “voce” grossa più del solito.

* sotto a tesa: sotto la stanza dove si raccoglieva il fieno.

* stagoeo: porcile.

• * noghera: albero delle noci.

* maro de fen: covone di fiero.

* col paron dea tera: con il padrone della terra.

* dentro el stagoeo: dentro il porcile.

* sanguaso: sange di maiale.

* l’onto: il lardo, o strutto di maiale.

* coi cristiani: con i cristiani.

* el saeamer: colui che faceva i salami.

* Tilio paia: Attilio Giusto.

* un’ombra: un bicchiere.

* verseghe a pansa: aprirgli la pancia.

* tampinaso: stomaco di maiale.

* uganega e figadel: salsiccia con la carne maiale e salsiccia con il fegato di maiale.

* buel de maial: budello di maiale.

* Baldoni: sangue di maiale.

* te si come el porsel che no se buta via gnente: sei come il maiale che non viene buttato via niente.

* lengual: filetto di maiale.

* scorsi: orecchie del maiale.


PULSAZIONE (rap)

Ti ho vista stringere i pugni/

avvolta da un berretto blu/

con lo sguardo rivolto all’insù/

ti aggiravi leggera laggiù­laggiù/

con quell’aspetto da ballerina/

dentro una rivoluzione/

un solo istante sulla mia pelle

e poi ti sei immersa tra le stelle./

(voce femminile moderata­tenue)

Fiocchi di neve viola si sciogliono nell’aria

estendono il loro raggio emettono una luce d’oro

un suono di tromba leggero fa muovere l’universo

mentre guardando i tuoi occhi ritrovo il mio verso.

Corpo soffice, sinuoso,/

vibrante e tumultuoso/

lasci all’anima un desiderio,/

ermeticamente custodito/

che si tramuta folgorante/

in un volto incuriosito/

si scopre una carezza/

fugace diviene brezza/

certezza fra le mie dita/

il mio spirito ricolma,/

spargendosi m’invita/

lasciando un sigillo,/

poi una marcata impronta,/

sconfinante in un sorriso/

nel tempo si propaga/

e nella storia in sogno/

percorrendo quella strada./

(voce femminile moderata­tenue)

Fiocchi di neve viola si sciogliono nell’aria

estendono il loro raggio emettono una luce d’oro

un suono di tromba leggero fa muovere l’universo

mentre guardando i tuoi occhi ritrovo il mio verso.

C’è un’immagine rotonda,/

lì, in fondo al viale/

vai verso il cerchio rosso/

con un cuore al suo centro/

vedi, ruota, vorticoso/

espande la sua massa,/

su ogni cosa lascia/

una fiammella ardente/

luce che infiamma,/

impressionando il sogno/

e anche la nostra mente/

prendi la mia mano/

portala in quel centro,/

nel pulsante cerchio rosso,/

proprio nel suo tormento./