Volta la Volpe

da Testardi come la vita

 

Ho voglia di mettere ordine.

Nella mia borsa gialla, sformata, abusata, ho ritrovato dei foglietti di carta ben piegati, un po’ sgualciti. Sono le parole che non riesco mai a dire, che il mio corpo non digerisce e trasforma a volte in mal di testa, a volte in vomito, altre ancora in poesia.

Prima, in quell’altra vita, scrivevo del respiro del fiume che mi ha visto crescere, della terra che era morbida come il mio cuore. Cuore di madre, cuore di donna, che volta la carta ogni giorno insieme al sole che sorge.

Ora, invece, sono un’anima in quarantena. Stringo questo foglietto tra le mani e, in un attimo, mi accorgo che dall’inferno, anche se si può ancora pensare, non si può più toccare il cielo. Mi metto gli occhiali, metto la camicia di forza al mio cuore che scoppia e comincio a leggere:

L’insalata è ormai spigata sulla collina di casa mia,

più di un anno è passato,

un’altra vita, un altro mondo”.

Il cuore si arresta, un pugnale si conficca nel petto, il respiro si ferma ed ecco, come in una polaroid vedo nitido il cumulo di macerie di casa mia, a Onna.

Il disastro l’ha trasformato in una collina.

Sembra ieri. Arrivo nella strada in cui sono vissuta da sempre, al posto della mia casa c’è una montagna di sassi, legno, ferro, mattonelle. Una collina fatta di sassi e ricordi.

Proprio su quella collina, all’improvviso, trovo delle piantine di insalata che spuntano dalle macerie. Le case cadono ma il pensiero no. E così il mio ricordo torna nella mia casa di ieri, e vede la busta di semi di insalata che mia madre teneva sulla televisione, per piantarli alla fine di aprile. Si può trovare la filosofia dentro una busta di semi di insalata? Non lo so, forse. Lì dentro c’è una parabola nuova, la parabola non dell’amore ma del dolore. Un giorno di tanti anni fa, infatti, un uomo seduto a terra, aveva parlato di un seminatore che aveva gettato i suoi semi dappertutto, sulle rocce, sulle spine, sulla terra buona, e aveva visto che solo questi ultimi germogliavano per davvero. Ora, invece, la parabola del dolore mi ha mostrato un’altra realtà. Per anni, infatti, il seminatore ero stata proprio io; avevo sparso quei semi di insalata sulla terra buona, senza sprecarne nemmeno uno. E quei semi avevano fruttato il cento per cento. Ora, invece, il dolore di una notte di aprile ha gettato quei semi in mezzo ai sassi, e quei semi sono fioriti lo stesso. Parcheggiati in doppia fila tra le pietre, si sono cercati uno spiraglio di luce e di aria. Insalata verde come l’erba e grigia come la polvere. Insalata arrabbiata con la vita, che deve fare a pugni con le pietre per sopravvivere. Insalata filosofica, che mi prende a schiaffi in questo giorno qualunque e mi ricorda che la vita, nonostante tutto, continua a fiorire anche se non ha più senso la primavera. Per un attimo provo un pensiero folle: lo raccolgo questo frutto bizzarro di casa mia. La raccolgo e me la mangio, questa filosofia di polvere e testardaggine. Poi, invece, torno in me, mi sembra un gesto quasi sacrilego, così non tocco nulla, giro i tacchi e vado via. Forse la filosofia dell’eterno ritorno era tutta una balla; quello che se ne va non torna più, può fiorirci l’insalata al massimo, ma un sorriso proprio no. La mia nuova filosofia, invece, è questa insalata qui. La filosofia del fare a pugni con la vita per uscire dalle macerie, l’illusione di respirare ancora, anche se hai la gola e i vestiti sporchi della polvere e dell’amianto di casa tua. La normalità sembra lontana e astratta come questo bigliettino che stringo tra le mani; la vita forse è veramente breve, verde e testarda come questa insalata che continuo a guardare.

Un’altra vita, un altro mondo.

Volto la carta e vedo la bicicletta di mio padre su un cumulo altissimo fatto dai sassi di tante case, tutti insieme. Monumento contemporaneo alla precarietà della vita. Giro lo sguardo e vedo una panchina; ricordo di un saluto che non c’è più. La panchina c’è ancora, come nuova, ma chi ci stava seduto ora fa l’amore con le stelle. Provo a sedermi io, su quella panchina, ma, in fondo in fondo, forse non ci sono più nemmeno io. L’essere ha un senso, altrimenti sarebbe caso. Ed io, a cinquant’anni, il caso proprio non lo accetto.

Rimetto quel foglietto in tasca e continuo a camminare dentro un paese che non c’è più, sulla collina di casa mia. All’improvviso, un altro foglietto ancora chiuso mi capita in mano. E senza nemmeno aprirlo, comincia a parlare.

“Quello che tu fotografi non sono uomini.

sono bastoni spezzati,

consumati dal vento, dal gelo,

bagnati da una pioggia fredda

in questa terra ostile.”

Questa non è una poesia; questo è sangue, questo è il respiro di mio figlio che va a lavarsi i denti dentro una tenda blu. Queste sono le parole silenziose di un’umanità stralunata, persa sulla ghiaia che attraversa le tende. Continua a piovere da giorni, ma quest’acqua sporca non riuscirà a lavare la polvere dei nostri occhi, l’estraniamento che ci rende muti e lontani.

Un’altra vita, un altro mondo.

Un giorno De Andrè, voltando la carta, si era inventato una storia che parla di noi, Calvino, invece, aveva creato un castello di carte ed un labirinto di sentimenti con le carte da gioco. Io, invece, ho voltato la vita e ho visto il dorso della carta. Sul lato B della vita non ci sono decorazioni, ma c’è il niente, c’è un silenzio esistenziale che una fotografia non potrà mai farti vedere. Anche dentro il niente, però, c’è sempre qualcosa.       Qualcosa per cui l’insalata fiorisce ancora. Quel qualcosa per cui mia figlia ha riaperto i suoi libri dentro la plastica di una tenda. Non so bene cos’è, ma sento il suo odore che mi contagia e, anche se non voglio, mi costringe a fluire di nuovo.

Volta la carta amico. Siamo tutti profughi, naufraghi, nostro malgrado. Il nostro compito, forse, non è quello di decidere la meta ma solo quello di navigare.

Volta la carta, figlio mio, e sogna, un’altra vita, un altro mondo.

Sognare? E chi lo sa fare? Io no di certo. La fatica del cuore mi fa il fiato corto. La paura di non sentire più niente mi impedisce addirittura di abbracciare mio figlio. Eppure, oggi, mi sento tanto come la mia insalata; decido di prendere a pugni le mie lacrime e di non sentirmi vuota anche se non ho più niente, né dentro né fuori. E sogno, o meglio, mi prendo un po’ in giro.

Sogno di una donna di mezza età, che prima pensava di aver costruito e che, all’improvviso si ritrova al punto di partenza e non sa che fare. Morire dentro forse è più facile, in questo momento è quasi una via obbligata. La rassegnazione, però, è solo di chi se lo può permettere. Non gioca più, infatti, il vincitore che festeggia da solo, l’uomo che apparecchia solo per sé. Io invece non basto a me stessa, sono un ingranaggio di un sistema più grande. Se mi fermo io blocco tutto, e non me lo posso permettere. Lo devo ai miei cuccioli. Lo devo alle mie radici che, malgrado il tempo e gli anni, mi tengono ben salda al terreno, qui ed ora.

Sogno di una volpe senza parole; capelli rossi, pelo lucido, occhio vivo. Cammina silenziosa tra l’erba alta, con movimenti armoniosi e leggeri. Ad un tratto un rumore improvviso, un boato. E la volpe vede la morte. Trenta secondi infiniti.

La volpe rimane immobile, a occhi chiusi, ma sente che il sole è sorto di nuovo, nonostante tutto. Vede l’insalata che cresce sui sassi. La vita è un po’ folle e anche lei, per oggi, decide di non prendersi i calmanti che vogliono darle. Oggi vuole pensare, vuole tornare nella sua tana. L’ingresso è ostruito. La terra è franata e ha quasi chiuso il pertugio. Quella, però, è sempre la sua casa. Le basta un attimo e, senza nemmeno pensarci due volte, le zampe anteriori cominciano a scavare, il muso la aiuta a ricreare lo spazio che amava. La volpe scava e scava e scava. Quello che ha trovato, da fuori, sembra solo un buco nella terra. Ma la verità è invisibile agli occhi.

Mi sento stanca, ma sento il sole che mi bacia la pelle, il vento che mi accarezza i capelli e il sangue che ricomincia a pulsare nelle mie vene.

Sono la volpe, con le mie mani voglio costruire. Voglio essere come l’insalata che cresce sulle macerie di casa mia. Fare le cose per bene. Fare la mia parte come se fosse la più importante, come se da quella dipendessero il giorno e la notte, la morte e la vita. Sono la volpe. Voglio ritrovare le parole che ormai ho perso, voglio raccontare ai miei ragazzi che la vita è sempre un’opportunità.

Sogno un mondo migliore in cui ognuno fa ciò che sa, come meglio può; un mondo migliore in cui, magari, non si gioca con la vita di colui che non sa; un mondo migliore in cui un fiore non ti fa sobbalzare, ma ti ricorda che la vita merita di essere vissuta.

Volta la carta e sogna, un’altra vita, un altro mondo.