Chat

Naviga in internet perché il mare è lontano. Perché il vuoto dentro è insopportabile. Salpa da un porto virtuale senza sapere cosa troverà perché non sa cosa sta cercando. La sua sola certezza, adesso, è che niente, è come lo vorrebbe.

In chat può raccontare una vita differente. Può riscriversi sull’onda della fantasia, ricalcando sogni e aspirazioni di tanto tempo prima.

Può scegliere di esserci, completamente, alla fine.

In poche battute può far nascere una storia, la sua storia.

Come una nuvola che non si ferma ma corre e muta forma, inseguita dagli occhi stupiti.

Così quando lo sguardo si distrae è già andata via.

Scrive poesie, dall’altra parte rispondono al poeta.

Schermi che stabiliscono un contatto. Un contatto che può interrompere subito, dopo alcuni scambi di parole, dopo mesi.. mai.

Si fa coinvolgere, attirare nella rete. Si fa restituire energia.

Senza accorgersene è di nuovo entusiasmo. Nel parlare di niente, nell’attesa che la conversazione affronti una curva decisiva, quella che mostrerà la fine della strada e scioglierà gli schermi per fare spazio alla realtà.

Due anime diverse. Una schiva, l’altra diretta. Eppure si sentono allo specchio.

La vita ha tradito entrambi, il dubbio ispira ancora più interesse.

Scrivono senza sosta, alludono, illudono, eludono l’attrazione che da rapidità alle dita sulla tastiera. Ma è inevitabile. La notte ha bisogno dell’alba, l’attesa ha bisogno di altro.

Frasi spezzate, puntini di sospensione, disegni.

E arriva “il bacio”, immagine rubata all’arte per pretesto. Che porta allo scambio dei numeri di tele- fono. Uno scambio che riduce lo schermo di comunicazione ed inversamente accresce la curiosità. L’incertezza è padrona del momento, ancora una volta. Smettere di scrivere e affacciarsi di nuovo alla finestra.

Capire se gli sguardi si incontrano, se gli odori si riconoscono.

Adesso è il momento di dare un volto a chi ha già invaso la mente e il corpo con pennellate verbali. …………………………………………….

La piazza è quella di sempre, l’edicola, gli ambulanti, il grosso albero solitario.

In testa una fotografia, nello stomaco posto solo per una nervosa attesa. Si vedono, si riconoscono, si imbarazzano. Inizia un cammino incrociato, silenzioso e vociato fino al bar dell’angolo più lontano.

Strano non riuscire quasi a guardarsi dopo tanta virtualità.

Occhiali a difendersi dal sole e dall’altro sguardo. Le parole hanno paura di diventare concrete, burattini desiderosi di trasformarsi in bambini ma incerti sulla strada da prendere.

Si raccontano davanti ad un analcolico, cosa fanno, non cosa sono. Increspature sul mare dell’anima. Poi si salutano, contatto di mani, finalmente fisico, impercettibilmente più lungo del normale. Che suggella il prossimo incontro.

Un tempo sospeso prima di rivedersi, lo spazio minimo per un’altra bugia, alibi della riflessione.

La scusa è banale, fermarsi un attimo prima di cena. Salgono le scale parlando per mascherare la voglia e l’imbarazzo. Territorio conosciuto per chi gioca in casa, da esplorare per l’ospite.

Luogo nuovo da dividere insieme per la prima volta.

Giocano ancora un po’, commentano i libri, le fotografie. Intanto il divano è diventato troppo gran- de, divide i corpi mentre l’aria è carica di profumi che invadono le narici e arrivano sulla punta delle dita. E, finalmente, le bocche si incontrano.

Il bacio arriva lontano, ed è tenerezza e furia insieme. Sono felici, di nuovo, dopo tanto tempo. Attrazione.

È la ragione che spinge a scegliere di dividere un ombrellone in un giorno senza tempo, e senza luogo.

Giorno rubato a vite differenti che mai avrebbero dovuto incontrarsi.

Caldo.

 

È la ragione che spinge ad un tuffo in mare. Dove galleggiano senza il peso dei loro corpi. E guardano il cielo, limpido, dove si scorge ancora l’ombra della luna.

Amore.

È la follia che fa galleggiare fuori dall’acqua.


No man’s land

No man’s land, terra di nessuno. Una zona anatomica indefinita, una parte del corpo che non è appannaggio esclusivo di alcun chirurgo. Dove tutti possono intervenire oppure nessuno.

Ma la cicatrice sulla mia mano la individua bene. E’ un ricordo, un difetto permanente.

Somiglia al territorio dell’anima ormai incolto bruciato dal dolore. Anche quello è terra di nessuno. La mia mano destra non è più la stessa, la cicatrice corre a zig zag sul dito medio che è rimasto segnato dall’incidente domestico. Artefice del danno un’ampolla di vetro. Uno di quegli aggeggi, ormai datati, ma ancora in uso per fare un aerosol, recalcitrante a venir via dalla sua impanatura. Eppure, quando guardo la mia mano, non ricordo il dolore del vetro che tagliava senza metodo, l’ampolla che si frantumava fra le mie dita, il sangue caldo e acceso che colorava il pavimento. Ricordo un giorno in cui ero ancora utile, o almeno mi illudevo di esserlo.

Ricordo la preoccupazione di mia madre, la sua voce, la sua mente ancora presente.

E sono grata all’incidente che mi ha concesso tempo, più tempo, quando ne restava poco.

Una famiglia. Eravamo una famiglia con tutto quello che comportava: abbracci, liti, pranzi domenicali, telefonate serali, legami e relazioni. E tutto mi andava stretto.

Non ho avuto figli. All’inizio per scelta poi la natura ha fatto il suo corso. Così a 40 anni ero, ancora, soltanto figlia. Siamo in tre, diversi e simili come soltanto i fratelli riescono ad essere. Tre scalini della stessa scala. Ma, negli anni, io mi sono sempre sentita la più refrattaria alle regole della famiglia “classica”.

Così come, per anni mi sono creduta simile a mio padre. In parte per l’inequivocabile somiglianza fisica sottolineata da chiunque ci conosca, in parte per il mio carattere schivo, spesso scorbutico. Ma, soprattutto, per la mia innata divergenza di opinioni con mia madre così tradizionale, legata all’idea di famiglia.

Una donna disponibile e gentile con tutti i suoi componenti, anche quelli più lontani. Propensa a considerare sempre l’aspetto positivo, anche nei comportamenti più ingiustificabili. Una donna a cui non serviva il calendario per ricordarsi di un onomastico, un anniversario, un qualsiasi evento avesse un significato, seppur minimo, nella vita della famiglia.

Poi, all’affacciarsi di una timida primavera romana, l’arrivo di una notizia inaspettata. Una nuvola grigia che basta, da sola, ad offuscare la luce del sole.

Un giorno come tanti, fino a quel momento. Ero al lavoro, in ospedale (faccio il dottore). Il mio cellulare squillava, routine. Almeno, così pensavo. E intanto rispondevo al numero sconosciuto che appariva davanti ai miei occhi, la mente già verso il prossimo impegno.

La voce del mio “medico di famiglia” però mi accendeva dentro l’ansia. Un professionista sempre impegnato, che aspetti per ore in studio o ti concede lunghe attese telefoniche fra una visita e l’altra. Anormale una sua telefonata. Un’ondata di paura che cresceva e si ingrossava trovando conferma nel suo tono pacato. Parole rallentate, quasi stesse semplificando un concetto troppo difficile per una bambina. Una bambina che, senza preavviso, vedeva la sua bambola nella vetrina di un odioso negozio di riparazioni. Dove è tutto un cumulo di pezzi dal destino segnato. Poche parole e mi rendevo conto che non era me che cercava di rassicurare. Mia madre era nello studio con lui. Era per lei quella finta tranquillità.

Fino ad allora avevo creduto di essere un buon dottore. Avevo studiato anni per diventarlo. Un percorso che affondava le radici nell’infanzia libera e ribelle di una secondogenita.

Un sogno antico, appartenuto ad una bambina che giocava immaginando il mondo. Un mondo aspecifico, gli altri. Un concetto ancora troppo lontano dalla realtà.

Eppure, la mia immaginazione aveva trascinato tutti nel mio sogno. Chissà per quale motivo, tutti avevano creduto nella sua realizzazione. Volevo andare in Africa, è vero, ad aiutare chi, nel mio immaginario, avesse bisogno di cure. Pensavo che da noi si stesse troppo bene per necessitare aiuto. Poi, crescendo, ho addomesticato il sogno.

Ero un dottore, allora, senza aggettivi. Qualcuno che si alzava ed andava in ospedale, tutti i giorni. Affrontava ogni nuova mattina con l’umore macchiato di caffè e si dedicava al suo lavoro. Pensando sempre di farlo con coscienza e dedizione all’impegno preso.

Faccio l’anestesista-rianimatore, e credevo di averlo realizzato il mio sogno di gesso.

Eppure quella mattina, quella voce, le parole che mi stava ripetendo, scandite, lente, mi rimbombavano dentro. Sembravano urlate. E quella telefonata mi inchiodava ad una verità inevitabile.

Non mi ero accorta di niente.

La mia attenzione addormentata, diretta altrove, aveva fatto passare i sintomi più classici sotto silenzio. Avevo sottovalutato tutto, dando per scontata l’eternità.

Nei giorni seguenti, nei mesi che il male ci ha concesso, ho cercato di recuperare l’handicap di partenza. Ho cercato di offrire il mio aiuto. Ho indossato la doppia personalità di medico-parente. Una figura non troppo simpatica a nessuno, me per prima. Ad intervalli ravvicinati abbiamo incontrato specialisti che avrei preferito ignorare. Gli stessi che, sul lavoro, affrontavo ad armi pari, in altri ospedali, mi sembravano oracoli disposti a regalarci speranza.

Raccoglievo notizie, attenta alle inflessioni della voce, agli sguardi lanciati di nascosto.

Io-medico ascoltavo, vagliavo tutto con l’obiettività che, purtroppo, non riuscivo ad evitare. Io-figlia filtravo opportunamente le informazioni, cercavo le parole meno crude, imponevo credibilità e fiducia alla mia voce e poi ci riunivamo. In famiglia.

Ma, nonostante ci illudessimo di essere sempre noi, adesso c’era un ospite in più.

Non era il solito parente che mi faceva sbuffare per l’aggiunta del posto a tavola all’ultimo momento. Era un ospite inatteso e sgraditissimo che se ne fregava dei miei sbuffi.

E che non potevo ignorare affondando la fantasia in un libro.

Adesso tutto il mio tempo era dedicato a “lui”. Il nuovo membro della famiglia che non si era accontentato di un posto a tavola ma aveva messo radici dentro mia madre. Occupando il suo fegato. Un’amara ironia. Il fegato, la sua anatomia, le sue molteplici funzioni. Era stato l’organo che, durante gli anni dell’università, aveva rappresentato la mia bestia nera. Lo stesso organo che, venti anni prima, mancando alle sue mansioni, mi aveva portato via una delle persone più importanti della mia vita.

Il fegato ed il suo compagno mi stavano tirando per la manica reclamando tutta la mia attenzione. Ed io gliela davo, sperando che così il male ci avrebbe offerto la sua pietà.

Invece ci ha tenuti in scacco per poco più di due anni. Fra alti e bassi. La mia mente somigliava ad una bilancia, in bilico fra le mie nozioni e le mie statistiche e la speranza che, inevitabile, riaffiorava ad ogni piccolo, apparente miglioramento.

Poi, forse appagato dalla distruzione che aveva generato, ha lanciato la sfida finale. Ed ha mostrato il suo vero volto, crudelmente invincibile.

Si è preso il suo corpo, la sua voce, i suoi occhi, la sua mente. Un po’ per volta.

Mia madre, anche in questa circostanza, si è resa disponibile. Come se avesse voluto abituarci alla sua assenza. Un po’ per volta.

La casa trasformata in un ospedale da campo. Vittima anch’essa di piccole modifiche che entrano a far parte della quotidianità. Sempre convinti che si possa tornare indietro. Così una poltrona si trasforma in una sedia a rotelle. Il deambulatore cede il passo al divano, poi al letto. La televisione diventa il solo davanzale possibile.

Ti sembra che il tempo scorra più veloce, inventi nuove bugie. E poi il silenzio.

Le ultime parole distinte che mia madre mi ha rivolto sono state “ti voglio bene”.

Cerco di ricordarle, come il tono di voce, il volto sofferente ma pieno d’amore. Un amore che sentivo immeritato perché non ero in grado di aiutarla.

Incapace di fermare il male l’ho lasciata scivolare fra le dita.

E’ passato un anno.

La vita scorre. Non ci si abitua alla perdita, si deve imparare a conviverci.

Capita, dunque che tornando a casa la sera mi aspetti di sentire squillare il telefono. Che facendo un giro per negozi io pensi di comprarle un regalo. Sempre un attimo prima che i miei ricordi si affaccino frustando i pensieri. Lei non c’è più.

Continuo a frequentare la casa dei miei genitori, c’è ancora papà. Meno spesso, meno volentieri.

Mi faccio violenza, come mio padre se la fa tutti i giorni, perché ogni angolo ci ricorda mia madre. Lei giovane e partecipe, lei malata e vicina.

A tappe abbiamo riordinato i suoi cassetti, regalato molti dei suoi vestiti. Abbiamo cercato di riorganizzare gli spazi adattandoli alla nuova realtà. Tutto per un’illusione di normalità.

Così, sistemando un armadio ancora pieno delle sue cose ho ritrovato delle vecchie agende utilizzate come quaderni.

I diari segreti di una grande fanciulla. Le piaceva scrivere, raccontare quello che sentiva. Ci sono lettere indirizzate alle persone a lei più care, ai medici che l’hanno tenuta in cura.

E poi ci sono frasi sparse, emozioni riversate sulla carta con una grafia sempre più illeggibile.

C’è tutta la verità dentro. Dalla prima telefonata ai giorni bui che l’hanno seguita.

La stessa altalena di sensazioni che ha crudelmente cullato la sua famiglia nuda.

In prima persona però.

Leggendo mi sono accorta che le mie bugie, che speravo passabili, non hanno goduto di un solo istante di credibilità. Cancro. La parola che le ho sempre parafrasato lei l’aveva scritta subito.

Il giorno stesso di quella telefonata dallo studio del nostro medico di base.

Lo sapeva e fingeva di credere alle mie parole. Mi ascoltava e poi mi chiedeva se andasse tutto bene, a me. Cercava sempre di riportare la sua figlia ribelle alla dolcezza della vita, all’osservanza di quelle buone maniere un po’ all’antica nelle quali aveva sempre creduto.

Una figlia negligentemente distratta.

Una negligenza colpevole per la quale nessun tribunale mi condannerebbe ma per la quale io, ancora, non trovo assoluzione.