Maledette tempeste solari

Maledette tempeste solari. Il cargo che Marco stava aspettando, era in ritardo di 3 ore ormai. Nonostante tutto era un giorno come tanti altri, trascorso in una sala d’attesa di un qualsiasi terminal della Terra. Una vita in perenne attesa la sua, di un areo, di un treno, o di una nave, dove c’era un pacco per lui; ora aspettava navi spaziali. Per quanto riguardava il suo lavoro, erano mezzi di trasporto come gli altri; però erano più belle, lucide e imponenti. Il rombo potente nel sollevarsi, il bagliore azzurrino che scaturiva dagli ugelli dei motori erano affascinanti; solo la scia di condensazione improvvisa, nell’atmosfera rarefatta, provava che un istante prima erano state li. Lo stupore era sempre quello della prima volta. Quanto tempo era passato quando le aveva viste partire dallo spazioporto del campo di addestramento. Inevitabilmente i ricordi iniziarono a sgorgare dal passato impetuosi; l’ addestramento, le armi, i compagni, le prime navi che partivano, il suo imbarco, quel rombo clamoroso, le vibrazioni che sembravano lacerare lo scafo da un momento all’altro, la battaglia, le urla, il sangue, corpi nel vuoto, il naufragio, il dolore, il buio…

Il brusio dello spazioporto, che brulicava di gente frettolosa, lo riportò al presente e ne fu molto felice; quei ricordi erano talmente densi di dolore che ancor oggi poteva distintamente avvertirlo, nonostante il tempo passato.

Come sempre nessuno badava a lui; meglio così. Un uomo d’affari come centinaia d’altri in quella enorme sala asettica; sempre impeccabile nel il suo abito blu, il rolex (falso!), la barba curata, un auricolare multifunction e gli immancabili occhiali vintage per le videocomunicazioni; gli olomessaggi gli stavano proprio antipatici.

Oggi però, lontano 15 anni luce da tutto ciò che aveva amato, dentro quella nicchia d’attesa, si sentiva più solo che mai. Avvertiva che rischiava grosso come non mai, e lo faceva, ancora e sempre, per pochi soldi; stupido vecchio pensò. Non era più tempo per queste cose, si diceva spesso, ma ai reduci come lui, non restava molto altro per campare su quel mondo inospitale. Era il suo “lavoro” fin da giovanissimo. Non l’avevano mai ai preso, e ne andava fiero. Aveva fatto uscire da posti come quello qualsiasi genere di “merce”. Contrabbando certo, ma mai di droga, armi o altro dannoso al prossimo; era la sua etica.

Improvviso il ronzio del comunicatore lo distolse dai suoi pensieri annunciando l’arrivo del cargo. Si diresse veloce lungo il corridoio 9, fino al luogo prefissato. Lo scambio di valige fu rapido e preciso come sempre. Come sempre scelse di uscire dalla porta principale, mescolandosi ai turisti che in massa defluivano verso la metropoli, in cerca di un po’ di fortuna e forse di qualche avventura.

Arrivato al suo “alveare”, tolse il guscio ermetico dal doppio fondo e lo apri con impazienza; aspettava quel momento da due anni. Tagliò leggermente il sacchetto sottovuoto e mise una punta appena di polvere sulla lingua assaporandola a lungo, poi aspirò a fondo l’aroma che scaturiva dal piccolo taglio. I ricordi esplosero violenti e lo colsero impreparato, come un pugno alla bocca dello stomaco. L’espresso nei bar affollati e rumorosi di Venezia, il retrogusto amarognolo in bocca, poi, ancor più intenso, l’aroma che saliva pigro dalla moka fumante, il mattino, quando prima di uscire, beveva assieme a Lisa, una tazza di caffè, due biscotti, un bacio e poi si andava. Odore di casa. Odore della Terra. Odore di quel passato spazzato via dalla guerra. Una lacrima sola scese fino alla barba. Si riprese subito perché per lui, anche piangere, era un lusso, e ora non poteva permetterselo. Nemmeno quella polvere di caffè poteva permettersi; non questa volta almeno. A malincuore richiuse. Ora i soldi erano pochi, per affitto e cibo al massimo, ma prima o poi… con qualche altro pacco come quello le cose sarebbero cambiate.