“Agli umani piace perdersi negli altri umani e nei loro affari”.

Quel giorno c’era una grande luce che batteva sull’ingresso del negozio.

Non so se fosse opera del titolare, forse un modo per avvantaggiare il proprio lavoro o un semplice scherzo della natura, resta però il fatto che chiunque entrasse nel negozio un momento prima era battezzato e divinizzato dalla luce e, pochi passi dopo, si demonizzava nell’ombra.

L’effetto era quello delle docce sterilizzanti ai bordi della piscina, forse meno fastidioso, comunque le persone varcavano l’ingresso vacillando, come se dovessero lasciare il clima estremo del deserto( del Karakum) ed entrare direttamente nell’ultimo girone dell’inferno.

Ma tutti sanno come sono gli uomini, “…spogliateli di tutti i pensieri e rivestiteli di inebrianti profumi e calore umano e loro vi ripagheranno con l’oro”.

Il sole rimaneva fuori.

Quest’ultimo soffriva veemente la velocità con cui le nuvole si rincorrevano e lo eclissavano in modo sempre piu’ duraturo e, malgrado ogni volta prendesse il tempo minuziosamente per scagliarsi contro e cercare di farsi valere, le lisciava malamente, finendo impiccato sulle vetrate del negozio, per il piacere del titolare.

Aspettare, in quel posto, era una regola, eppure si annidava nell’ambiente una strana allegria, quasi folkloristica, che riusciva a intrecciare il tempo reale con quello onirico: C’erano i profumi, quelli li sentivi subito, rendevano l’aria così densa che si poteva tagliare a fette, e i rumori, questi si attaccavano alle voci dei clienti come parassiti, creando una strana armonia. Ma soprattutto c’erano le persone e i loro atteggiamenti.

Alcuni modi di rendere l’attesa meno soffocante si basavano su inusitati metodi d’osservazione: non era facile distinguere il cliente occasionale da quello abituale, o il cliente soddisfatto da quello deluso.

Ognuno, a suo modo, aveva i suoi canoni di riconoscimento, bastava fare attenzione.

I soddisfatti se ne andavano salutando a una mano, come se impersonificassero la Regina d’Inghilterra arrangiavano piccoli movimenti attenti a non scomporsi. Questi non staccavano mai gli occhi dallo specchio, felici della nuova immagine, avevano cancellato la vecchia identità con le memorie dei vecchi capelli sul pavimento.

Più facile da riconoscere era invece il linguaggio non verbale degli insoddisfatti.

Quanto era divertente empatizzare con la loro delusione, rapire il loro tentativo di sodomizzare l’inquietudine e magari rivederlo in uno sguardo o in una smorfia.

I loro movimenti erano palesemente impacciati, si rivestivano frettolosamente senza guardarsi in giro per non scontrarsi né rivedersi negli occhi di qualcuno, annuivano, pagavano, infine uscivano per andare a sfogarsi con gli specchi di casa.

La regola lì dentro era che non c’erano regole, tutti erano attori e allo stesso tempo spettatori.

Ci si riscaldava con dicerie popolane di cui nessuno garantiva l’attendibilità, e si godeva di un crogiolo di sinestesie e sensazioni peccaminose degne della più fiorente Sodoma finché, ad un tratto, dalla porta principale entrò una piccola creatura che sconvolse quell’armonia orgiastica degna di un Dorian Grey non ancora redento.

Una bambina di circa 3 anni.

Era così piccola che con la sua manina destra si frugava in tasca come in cerca di un antidoto per tranquillizzarsi e con l’altra sfiorava le ginocchia del padre nello sbadato tentativo di arrampicarsi. Aveva i capelli di uno strano colore che rifletteva una certa invidia negli occhi delle clienti.

I suoi occhi, invece, erano verde smeraldo e risaltavano una carnagione così limpida da ricordare una piantagione di cotone a forma di zucchero filato.

La sua tenerezza ti scavava nel profondo, la sentivi strisciare sui punti vitali e poi sventrare l’invidia per far posto all’adorazione.

Ricordava un fiore.

Un fiore che spicca tra i suoi simili, un fiore sul punto di essere strappato dalla terra per annusarne la bellezza ma vulnerabile, prossimo a finire nel dimenticatoio degli strami senza valore.

La dolcezza dei suoi lineamenti adombrava qualunque decorazione messa dai genitori per deviare la sua attenzione dal fatto che avrebbe dovuto affrontare una dura prova: tagliarsi i capelli che lei amava tanto.

Era una delle ultime giornate di giugno e il caldo appannava gli specchi. C’erano i condizionatori ma l’aria così densa che si surriscaldavano in continuazione generando uno strano funzionamento a singhiozzi e sputacchiando acqua dalle feritoie.

Dopo aver preso confidenza con il luogo, la bambina disse il suo nome a bassa voce, come se non volesse farsi sentire, Poi si adagiò, sedendosi in terra senza prendere in considerazione il padre che le aveva indicato alcuni giochi ammassati in un angolo. Fingendo che non gliene importasse, incrociò le gambette e provò a scordarsi il motivo per cui era lì.

Aveva un vestitino leggero che le scopriva le braccia e il modo in cui, ogni tanto, si gingillava le spalline per risistemarsi dava la sensazione che non fosse la sua taglia; si incantava a guardarsi le pieghe che intarsiavano i bottoni sull’addome e quasi ci si addormentava.

Teneva stretta a sé una sciarpa verde di lana. Una sciarpa sicuramente non sua, forse appartenuta a qualcuno d’importante con cui si identificava. Chi nell’infanzia non si è mai affezionato a qualcosa più che per la sua morfologia o funzionalità per la sua provenienza o stravaganza, che magari ci ricordava qualcosa o ci dava la forza di qualcuno.

Il valore affettivo di quella sciarpa verde per la bambina era tale da superare il timore e la vergogna di qualunque giudizio sociale, se di giudizio sociale a quel l’età si può parlare…”A 8 anni andavo a scuola sempre con i pantaloni rattoppati. Sempre gli stessi. Sempre, per due motivi: il primo era scaramantico, infatti credevo davvero nella forza mi trasmettevano quei pantaloni, mi preoccupavo di come indossarli piuttosto di essere sicuro riguardo a cosa mi avrebbero interrogato.

Senza quei pantaloni l’insicurezza squartava l’autostima e mi autoconvincevo di essere qualcun altro, il supereroe senza i super poteri. Naturalmente dietro alle ragioni di natura propiziatoria e aruspica c’erano anche dei motivi molto più fondati di necessità e ragionevolezza: per fortuna mia madre sapeva delle mie pessime abitudini ricreative scolastiche in cui nei giochi con i compagni ero molto estremo, spesso toglievo lavoro al bidello e al suo mocio nel pulire i pavimenti. Ero felice dei miei pantaloni, tanto che li portavo anche dopo scuola e mi trasformavo in un imbuto per giudizi di ogni genere, ma a me non importava.”

Intanto la bambina continuava a tocchicciare la sua sciarpa verde e nei suoi pensieri si faceva sempre piu’ lontano il motivo dell’esser lì, oggi.

Un’atmosfera insolita si era depositata sulla vicenda.

Adagio, adagio, con la pazienza di un condor sopra la preda ferita, in procinto di morire per mano del tempo, la vicenda rallentò per poi scagliarsi con una furia inaudita.

Con una vile e tempestiva azione Amanda ( così disse di chiamarsi la bambina) fu spogliata delle sue fantasie e messa di fronte a uno specchio.

Uno specchio grandissimo in grado di dare una continuità tra ciò che vedeva davanti e quello che succedeva dietro di lei.

Era l’ora di conformarsi, di prestare attenzione alle regole estetiche; era il momento di incollare la fantasia al passato, perdere la propria unicità, e relegarsi alle regole della forma, della bellezza e del colore, imposte da qualcuno che lei sicuramente non conosceva e non avrebbe mai conosciuto.

Si guardava allo specchio chiedendosi cosa mai avesse di sbagliato, e in un tumulto di mugolii soffocati cercavano di inumidirle i capelli color grano.

La paura le salì in gola e il sapore dei battiti irregolari le attanagliò il collo, cambiandola in volto, poi, quando le fu nascosta dalla vista la sua sciarpa verde, non si trattenne e vomitò tutta la rabbia che aveva dentro.

Due secondi.

Non durò a lungo. Eppure quel poco bastò.

Un attimo prima, il silenzio. Il respiro che si gonfia, che strazia i polmoni fino al tremore dello sforzo, fino al formicolio incondizionato., Amanda fermò il tempo proprio al momento prima del salto nel vuoto. Un salto drastico che non vede il timore dello schianto, solo profondità, incontrollabile. Ferma, come lo spazio tra due corpi impenetrabili che negoziano la sopravvivenza al costo di una bomba di adrenalina pura, Amanda era immobile.

Poco dopo, come il maschio della vedova nera dopo l’accoppiamento si tuffa nella bocca della femmina per essere consumato, il silenzio fece una capriola e si lanciò nelle fauci del terrore per esserne divorato.

Amanda urlò e allo stesso tempo sentì urlare.

Il suo pianto fu così forte che scompigliò le reazioni dei clienti in un riverbero di sobbalzi.

Vedeva le sue ciocche cadere, addossarsi una su l’altra, e le veniva in mente quel fogliame che calpestava quando andava a giocare al parco.

Le veniva in mente l’autunno, il buio delle sei e il gusto dei primi freddi per i quali lei era costretta a coprirsi e gli alberi a spogliarsi.

Quando Amanda uscì dal negozio era bella e sorridente, ma aveva negli occhi il colore della strada. Quando la piccola Amanda uscì da quel negozio non aveva più la sua sciarpa verde.

Poco dopo, sulla vetrata principale del negozio, affissero un fiocco rosa con la scritta: “E’ nata Amanda”.

Dedicato a E.


Vivere, essere umani, significa avere problemi.

…la mia mano sovrastava la testa, mentre prendeva la forma di una conchiglia per creare maggiore attrito e, appena nell’acqua, tutto il meccanismo strutturale e articolatorio del braccio compiva una s, cercando di spostare più acqua possibile per dare uno slancio maggiore.

L’acqua veniva sconfitta e si ritraeva in un mulinello nei punti precisi in cui la simmetria corporea la picchiava, prima da un lato, e poi da un altro, irregolarmente.

L’onda artificiale prodotta confliggeva con le onde naturali del mare, ma agevolava il flusso dell’acqua verso le gambe.

Le gambe. Il loro movimento era quasi inutile.

Esso si accostava alla funzione dei rompicapi Darwiniani, come la colorazione accesa di alcune farfalle e il sapore velenoso di alcuni anfibi che muoiono ancor prima di permettere al predatore di avvisare i propri geni, e deviare la famelica pulsione verso altre prede.

Le gambe si riducevano a veicolare la posizione con nerbo , mentre destabilizzavano e uccidevano la speranza dei concorrenti.

Esse frantumavano il silenzio e deritmavano la musica tra me e l’acqua.

Mi stavo mettendo alla prova. Dopo tanto. Troppo.

Il mio avversario aveva un bel vantaggio quando indisse la sfida.

Accettare era un paradosso: come guardare l’eclissi con un binocolo fatto dall’arrangiamento delle mani.

Tuttavia il controllo, le pressioni, la prestazione erano sempre stati i batteri insiti nella mia alimentazione malsana: e anche il più grande predatore, se si ciba incessantemente di Carcasse imputridite, assimila inevitabilmente anche i suoi vermi.

Il risultato fu una malattia che attaccò la coscienza , rendendola così elargiva verso qualunque tipo di sfida. E pian piano mi fece scordare di chi Ero, alimentandomi, piuttosto, le preoccupazioni per Quello che Non Ero o non sarei diventato.

Senza scampo, allora, congestionai le emozioni e vomitai un patto di alleanza con le aspettative.

Ma solo ora capisco che la spinta necessaria per oltrepassare i miei limiti arrivò dalla paura. La paura di deludere me stesso fece aumentare il ritmo delle bracciate e imbastì il motore di una nuova energia, che rese l’aria nei polmoni di ogni inspirazione uno schiaffo ai bronchi, che si dilatavano, dilaniandosi.

 

 

Era una giornata bellissima.

La caletta aveva le sembianze di un paradiso.

Rimaneva incastonata nella rupe scoscesa da cui eravamo arrivati, inadatti.

Si presentava calma e immobile come in posa per farsi immortalare.

Sulla sinistra la terra era abitata da una fitta vegetazione di alberi che si allungavano verso l’alto in stile gotico, filtrando la vista del mare tramite le foglie.

Mentre la parte destra si presentava rocciosa. Lunghe costruzioni moreniche, appuntite, estinguevano le piante insieme al desiderio di ripararsi dal sole. Sulla punta, però, un albero era sopravvissuto. Lo rinominai Albero della Vita.

Questo prevaricava sul dirupo, affacciandosi senza vertigini e nascondendo il sole in prospettiva.

Ogni tanto si gonfiava, segnalandoci la direzione del vento.

Il mare dentro la baia non aveva colore. Le alghe sottostanti lo scurivano, cangiandolo di rosso al contatto con il tramonto. Sembrava rigurgitasse il sangue delle battaglie tra le due fazioni rupestri che si incontravano proprio al di sotto la linea dell’acqua, quasi sulla superficie lontana.

Le sterpaglie, accumulate dalle alte maree, condivano l’insalata di scogli in bilico, in procinto di suicidarsi.

Il vento non c’era, e il mare assumeva la forma di uno specchio. La percezione ragionata era quella di assistere al tentativo di Van Eyck di ritrarsi nel cielo tramite il mare, mentre la sensazione a primo impatto era quella di sentire Michelangelo che chiedeva l’aumento per aver raggiunto la perfezione.

La forma a U degli scogli, calmava l’arrivo del mare.

Sembrava una sistemazione dei banchi di un’aula delle elementari e la perfezione con cui le onde li accarezzavano, senza scalfirli, faceva pensare a un incantesimo in grado di avvicinare l’orizzonte e renderlo palpabile.

La dolcezza dell’ambiente anestetizzava il caldo e uccideva le fobie…

 

Non ricordo se uscii dall’acqua per primo. Ricordo solo quello che successe dopo.

L’escursione termica tra l’acqua e gli scogli bollenti deviò, per un attimo, l’attenzione via dai tonfi del mio cuore, che non accennava a voler recuperare il suo equilibrio.

Il percorso per tornare al mio asciugamano sembrò infinito. Ad ogni battito il mio cervello drogava il corpo di adrenalina. Mi sentivo invincibile.

“Ma, di lì a poco tempo, sentii che diventavo pallido, e desiderai che tutti se n’andassero. Mi doleva la testa, e mi sembrava di sentirmi un tintinnio nelle orecchie; ma quelli restavano sempre seduti e chiacchieravano sempre. Il tintinnio persistette e divenne ancora più distinto; Cercai di chiacchierare per sbarazzarmi di quella sensazione; ma non mi lasciò, e prese un carattere del tutto deciso , tanto che alla fine m’accorsi che il rumore non era dentro le mie orecchie.

Senza dubbio allora divenni pallidissimo; ma io chiacchieravo ancora più lesto e più forte. Il rumore aumentava sempre – ed io che potevo fare? – Era un rumore sordo, soffocato, frequente, assai simile a quello che farebbe un orologio involto nel cotone. Respirai laboriosamente; gli altri non sentivano ancora. Parlai più lesto; con più veemenza; ma il rumore cresceva, incessante. M’alzai, e disputai su delle piccolezze, in un diapason elevatissimo e con una violenta gesticolazione; ma il rumore cresceva, sempre. Perché non se ne volevano andare? – Scorsi l’asciugamano qua e là, pesantemente, a gran passi, come esasperato dal non capire. Ma il rumore cresceva regolarmente. Oh, Dio! Che potevo fare? Schiumavo, balzavo, sacramentavo. Notai l’Albero della Vita che aveva cambiato posizione.

Si era spostato verso sinistra insieme a tutta la cruda vegetazione. E non era finita. Mi vedevo di fronte. I miei occhi mi fissavano sbiaditi e contorti, siringati di Panico.

Ma il rumore dominava sempre, e cresceva indefinitamente. Diventava più forte, più forte! Sempre più forte! E quegli altri discorrevano sempre, scherzavano e sorridevano. Ma era mai possibile che non sentissero? Dio onnipotente!- No,no, sentivano! Sospettavano! sapevano! Si facevano un gioco, un divertimento del mio terrore! Lo credetti e lo credo ancora. Ma tutto, tutto era più tollerabile di quella derisione! Non potevo sopportar di più quegli ipocriti sorrisi! Sentii che bisognava gridare o morire! – e ancora, e sempre, lo sentite? – ascoltate! più forte! – più forte! sempre più forte!”

Nessuno si accorse di niente.

Ben presto il Panico divenne Paura, e senza alcun criterio decisi di riempirmi di qualcosa. Afferrai i biscotti e iniziai a masticare senza alcun metodo.

Digrignavo i denti ingoiando pezzi di qualcosa che aveva il sapore del tempo.

I brividi lungo la schiena amplificavano il rumore assordante del silenzio.

Non sapevo spiegare cosa mi stava succedendo.

Distoglievo lo sguardo. Vedevo la rupe ripida da cui eravamo arrivati e piangevo.

Sapevo che sarei rimasto lì per sempre. Avevo paura di perdere il controllo.

Nessuno si accorgeva di nulla.

Combattevo con le mie domande e venivo ucciso dalle sensazioni inspiegabili, che mi facevano tentennare.

Ma, Pian piano, tutto misteriosamente, come era arrivato, se ne stava andando. Sentivo il mio corpo rilassarsi e chetarsi.

Continuai a parlare per non destare sospetti.

Quando la metà dei miei muscoli fu distesa, la Paura del vuoto si tramutò in Ansia.

L’Ansia che tutto potesse ricominciare.

Di lì a poco sarebbe diventato routine.


Ah, è lei

La paroxetina cloridrato è un farmaco antidepressivo appartenente alla categoria degli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della SEROTONINA). Come gli altri SSRI, la sua assunzione genera un aumento della disponibilità sinaptica di tale neurotrasmettitore, che è carente nei soggetti affetti da depressione. Rispetto ad altre molecole della stessa classe terapeutica a parità di dosaggio ha un effetto più potente. Viene comunemente impiegato nel trattamento della depressione, negli attacchi di panico associati o meno ad agorafobia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, in casi fobia sociale e nei disturbi d’ansia. Come gli altri farmaci della sua classe la paroxetina è generalmente preferita agli antidepressivi triciclici per la sua maggiore tollerabilità e la minor presenza di effetti collaterali. (Wikipedia)

 

 

 

-Ah, e’ lei?- con la faccia di chi ha aperto la porta per prendere aria e invece respira il puzzo maleodorante di un nuovo problema.

Nemmeno il tempo di rispondere e riprese: – ma non doveva arrivare più tardi?

Aspetterà un po’, ho un altro paziente!- e si fiondò su per la tromba delle scale senza curarsi, fortunatamente, della mia espressione in evidente crisi d’identità.

Credo fosse stata la parola “paziente”. Non so, aveva un suono così particolare, quello delle sale di attesa, degli ambulatori medici: di lettini che si spostano e camici bianco fantasma che scompaiono e ricompaiono in modo anonimo.

Corsi anche io su con lui per l’androne delle scale.

Gli stavo appiccicato, apparentemente per prendere la scia e sorpassarlo, in realtà per non rimanere solo.

Quel puzzo di sterilizzazione e disinfettante mi dava alla testa.

Non sono sicuro di quello che sentivo…

La difficoltà di concentrarmi era data dall’ansia. Questa fruiva di blasonatura genetica del talamo e dell’amigdala (ero diventato esperto da buon ipocondriaco)… e vedevo la realtà sfaccettata come una Guernica proiettata in un Kaleidoscopio.

Fortunatamente alternavo anche tratti di lucidità in cui il puzzo di Betadine e Acqua ossigenata risultava solo un apparente stato reclamato dal cervello, in balia delle paure e dei ricordi.

Mi stavo riprendendo…

Nella foschia mentale riconobbi il vero odore della struttura.

Questo si ricomponeva. Era stato appiattito ai margini dei muri, diviso come il Mar Rosso, rimandato a rappresentare ogni oggetto, singolarmente.

Il profumo miscelava l’antichità e lo stile rinascimentale della casa Medicea e notai l’istante in cui fu sconvolto totalmente dal funesto scatto del dottore che ,per tornare velocemente dal paziente, aveva creato un mulinello d’aria al sapore di CalvinKlein.

Salii.

Le scale erano scivolose, probabilmente lavate da poco, con prodotti scadenti.

Chi puliva, naturalmente non il dottore, lo faceva come secondo lavoro: c’erano i segni di frettolosità e svogliatezza negli incastri tra gli scalini, gli stessi punti in cui i prodotti non erano stati amalgamati bene alla superficie e avevano reagito, consumando il marmo degli antichi principi di Firenze.

I miei occhi iniziarono ad abituarsi all’atmosfera solenne e abbastanza buia del posto.

-Accomodati un attimo qui, arrivo tra poco…-

Comandò il dottore. E con un po’ di asincronismo tra i movimenti e le parole indicò una piccola sala d’attesa con quattro sedie messe in fila e un tavolino di vetro che rifletteva il soffitto, totalmente affrescato dalle mani di un “manierista”.

Non opposi resistenza.

Mi stavo abituando a non avere il tempo ne’ di rispondere, ne’ scegliere.

Odiavo aspettare. Consapevole della mia irrequietezza, sentii a poco a poco il tempo in quella stanza diventare convenzionale. Lo sentii agire sulle tre dimensioni, che mi imprigionavano in quel punto dello spazio, e mangiarmi.

Mi sedetti fingendo ingenuità e inconsapevolezza anche se la mia situazione la conoscevo bene.

Non avevo voglia di guardarmi attorno: quando sei “malato” non ti importa di nulla e di nessuno, hai in mente solo te stesso; e’ come se i tuoi occhi perdessero il colore delle galassie e assumessero quello della luna quandohj il sole muore.

Malgrado l’egocentrismo, fui distolto da una corrente fresca.

Mi sfiorava il viso in panne. Mi volgeva verso le pitture che tappezzavano completamente la sala.

Come la mia testa, malata, poteva telecomandare l’attenzione in un posto così bello?

Riconoscevo i tratti raffinati sui muri e seguivo le iconografie religiose muoversi sullo sfondo oro. Le vedevo prendere vita, alternare movimenti consoni alla circostanza del quadro, e poi oscillare in modo strano, come se ballassero sulle note della musica in sottofondo. La musica del dottore. Questo doveva aver fiutato l’esaurimento della mia pazienza con qualche congegno, forse lo stesso con cui lo squalo percepisce il cambiamento dei campi elettrici.

Così appiccò una musica fiammeggiante per non distrarsi.

Tornai ad impiccare la mia attenzione sulle figure in movimento.

Mi avvicinai di qualche passo per accertare la mia pazzia. In realtà, le figure non ballavano, si sgranchivano. Si stiravano. Combattevano la letargia, stanchi.

Anche loro fingevano. Erano stati imprigionati, per l’eternità, con un’unica espressione.

Mi sentii rincuorato, anche io ero nella stessa situazione.

Tornai ad abbracciare la sedia con le natiche.

I pochi minuti di attesa del dottore si trasformarono in un’unità di misura oltre il tempo.

Tutto era arbitrario in quella stanza. I gemiti del coito tra l’attesa di misurare la mia sanità e la voglia di scappare partorivano cigolii, fratelli di un respiro affannato, innamorato.

Mi sentivo in un Nido di matti, poco prima di essere lobotomizzato, proprio nel momento in cui la tua mente, invece di arrendersi a un inevitabile destino, sceglie di fare marcia indietro, tira il freno a mano e va contro la legge, scorretta fino alla fine, prova a fuggire.

Ora dondolavo forte. Le mani, informicolate, erano nascoste sotto le gambe, afferravano la sedia.

C’era caldo. Tanto caldo. Soffocavo come Ace Ventura nel Rinoceronte, ma resistevo come Terminator nella lava

Non so a che scena avrebbe assistito se qualcuno fosse entrato.

Per un momento ebbi paura del giudizio di quel qualcuno e allora mi finsi normale, poi ricominciai.

All’improvviso lo scricchiolio della maniglia anticipò l’uscita veloce del “paziente” che si volatilizzò per le scale, tuffandosi nell’ombra e lasciando della sua immagine solo il fracasso del portone sbattuto come se volesse far saltare l’edificio.

Non ci riuscì e, quando sul volto del dottore vidi il sorrisetto di Bruce Willis, subito dopo aver evitato un’esplosione, capii che era il mio turno.

La presenza del dottore sulla soglia della porta ricordava molto la sagoma di un Alieno venuto dallo spazio per un dottorando in ricerca sperimentale, mentre all’interno dello studio la luce delineava un forte bagliore intorno ai bordi dei suoi vestiti, rendendolo più grosso.

Malgrado miei occhi fossero attratti come cimici sui panni tesi,

entrai con la stessa tenacia con cui i Mccallister si ricordarono del figlio prima di partire.

Deglutii e affrontai la luce. Gli occhi non si abituarono velocemente, tanto che cercai di sedermi arrancando e tastando le poltrone che il medico aveva risistemato frettolosamente prima dell’uscita del Paziente.

Aveva lasciato la finestra aperta, socchiusa. Potevo sentire i suoni claudicanti degli uccelli rumoreggiare sulle grondaie. Lo spiffero faceva muovere la paccottiglia di fogli lasciata sul davanzale e ogni tanto una massa di ossigeno al sapore di carta mi investiva.

Eravamo alti, guardai fuori e intravidi, in fondo, la città eclissare le luci del tramonto. Quest’ultime sagomavano i palazzi come la luce dello studio aveva disegnato i profili del dottore, creando un effetto matriosca.

Stavo meglio.

Smisi di tremare e iniziai a abituarmi alla luce.

Quello che successe dopo fu alquanto particolare.

Mentre il dottore chiudeva la porta e con eccessiva filautia si accertava della sua compostezza,

ebbi, come non si suol dire, una “botta di vista”, data probabilmente dall’improvviso riacutizzarsi della vista stessa… e la mia attenzione fu pugnalata da un qualcosa. Un quadro.

Questo investì completamente il mio campo visivo e lo conquisto con la forza, saccheggiandolo di ogni ragione e ricchezza logica.

Il quadro si trovava proprio dietro la scrivania del medico e non so se fosse stato appeso li’ volontariamente oppure casualmente, fatto sta che aveva su di me un effetto devastante.

La sua posizione era centrale sul muro e, seppur di limitata grandezza, sorbiva su tutti gli oggetti lo stesso effetto che “la Gioconda” esercita su “Le nozze di Cana”.

Non c’era cornice e non coglievo l’ombra come se in realtà il quadro fosse il riflesso della parete opposta.

Non ebbi ne’ il coraggio ne’ la forza di voltarmi, ma non mi sbagliavo. Ne ero sicuro.

Di fronte a quello zibaldone artistico le mie memorie sull’arte si erano inginocchiate in un nugolo inconsistente, un purè senza sostanza, un agglomerato anonimo.

Cercai di riavermi setacciando la stanza in cerca di una distorsione fuorviante.

Incrociai lo sguardo intimidatorio del professore; si era seduto di fronte, e adesso articolava i suoi strumenti per certificare la mia presenza nella sua agenda.

Fu peggio.

Mi sentii divampare e bramai di tagliargli testa per mantenere un contatto con gli occhi del quadro.

 

Non è facile descrivere Cosa rappresentava:

il soggetto era una Donna. L’età era convenzionale; poteva avere 50 anni, ma il trucco la ringiovaniva di almeno 25 anni e l’artista, un maniaco, era riuscito a marcare la chiara volontà della donna di celebrare la sua vittoria contro il tempo. L’aveva distesa e aveva ritratto solo la faccia fino a poco più delle spalle. L’ espressione era attonita, assorta, forse cosciente della sua bellezza, forse impaurita di esser derubata della sua ritrovata giovinezza.

Gli occhi, semichiusi, riflettevano un’espressione a metà tra una fotografia scattata nel momento sbagliato e il prodotto di un orgasmo sincero.

Il colore intorno alle pupille era incerto e fuorviato da una massiccia dose di matita nera che esaltava il contrasto con il rossetto rosso fuoco sulla bocca.

La testa sprofondava in un cuscino, attutita da capelli color grano su cui passava e poggiava una mano, dolcemente, come fosse sabbia. La luce la baciava sulla fronte, seppellendo le ombre fuori dal quadro.

Si intravedeva uno spallino. Apparteneva al reggiseno e scivolava fuori dal quadro, tuffandosi, in prospettiva, sulla spalla del dottore, di fronte.

Trasalii, completamente avvolto nel mistero della bellezza.

“Non so dire se la potenza del bene passasse nella natura del bello, ma attraverso gli occhi l’effluvio del bello rimaneva infiammato e di esso la natura dell’ala si abbeverava.

E la bellezza, dunque, rendeva alata l’anima e le faceva conoscere il tormento dell’amore”

Mi sentii marionettare prima dai sensi, poi dalla mente e

vidi , chiaramente, negli schizzi della tela un significato esplicito e uno nascosto.

Il quadro trasudava la storia di un amore non corrisposto: infatti le linee femminili brillavano di una vivacità che non era propria del vero corpo della donna: insito era il ritocco affettuoso di un uomo, perso nella voglia di attenzioni specifiche, quelle di lei.

Non so distinguere se occorresse intuire o discernere la bellezza, tuttavia non c’era logica. Quest’ultima si suicidava nel riflesso che quella figura suscitava nei miei pensieri.

Mi avevano sempre spiegato che l’artista si distingue dal falso come promotore di un’idea che si distacca da tutto quello che c’è stato prima e aprirà uno squarcio progressista nel contenimento dell’equilibrio. Lo si riconosce in quanto lavora alla luce del sole per creare opere d’arte fini a sé stesse, ma di opulente valore per l’umanità.

Il falsario sottrae l’unicità dell’idea e la duplica, ma non resiste nel lasciare una firma nell’imitazione. Così introduce una sbaffatura, una distorsione, congruente alla maniacalità dell’omicida nel lasciare una traccia per vantarsi del misfatto.

Quello del quadro non era il prodotto di un artista, impossibile.

Ma non era nemmeno il lavoro di un falsario.

Quello era un maniaco. Un malato.

 

-…Patroclo giusto?- come un tonfo nell’acqua, la voce del dottore rianimò i miei sensi.

Riuscì incredibilmente a farmi riavere. Mi sentivo intorpidito, come se avessi passato gli ultimi mesi a piangere per una donna. Quella Donna.

Mi toccai i capelli nell’intento di disfarmi di quella sensazione spiacevole.

Con la mano passai sotto la nuca e mi asciugai il sudore che si era addentrato, giù, lungo la schiena come un serpente che striscia nell’ombra, per fuggire via.

-Si!- risposi senza aggiungere altro.

-Non ho molto tempo – mi ferì – Ma ti ascolto. Dimmi pure, cosa ti succede?-

Cominciavo a odiare i suoi imperativi.

Iniziai la mia storia… e anche se credevo che avrebbe dovuto essere una collaborazione di domande e risposte, in realtà fu un monologo.

Ogni tanto riguardavo il quadro e le mie parole si tingevano di amaro, come il sapore di una sigaretta spenta e poi riaccesa; sembrava che la donna mi chiedesse di entrare nelle mie storie, nella mia Malattia.

Mi sentivo Jodie Foster in “Sotto Accusa”, ma nella versione comica di Vincent Vaughn di “Due single a nozze”.

Mi fermavo, a tratti, fingendo di pensare, ma in realtà riprendevo fiato.

La mia foga vulcanica di parlare eruttava aria, senza però inglobarne abbastanza e spesso avevo vertigini che mi costringevano a sudare e fermarmi.

Il dottore non se ne accorgeva. Scriveva. Non so cosa, non l’ho mai scoperto.

Alternava sguardi di desiderabilità a momenti di intenso interesse nelle mie parole.

Mentre raccontavo i miei trascorsi incubi, guardavo intorno.

Sbirciai frettolosamente la parete alla mia destra. Gli attestati di lode e le partecipazioni a vari aggiornamenti santificavano il muro adornato con la carta da parati motivo fiorentino.

In cima alla stanza il condizionatore vibrava, voglioso di ghiacciare l’aria.

Il dottore doveva essere fissato con la temperatura ottimale perche’ puntualmente guardava la spia dell’accensione per accertarsi della sua azione congelante.

Io invece amavo il caldo perche’ il freddo mi dava brutti pensieri.

Il mio racconto finì e canalizzai tutte le speranze nelle sue parole.

Non ci furono parole. Più veloce della luce stampò un foglio, scritto al computer durante la recitazione della mia parte.

Mi spiegò due o tre punti burocratici sulla fattura e poi… mi mostrò il foglio:

– Paroxetina. –

Da li’ iniziarono i miei incubi.

Fu tutto buio. La voce cantava: Everything is gonna be alright.

Funzionò senza masticarla…