INCUBI

Mi sentivo scoppiare le orecchie mentre correvo, non riuscivo a sentire nient’altro che il mio respiro affannato. Ero stanco, ma non potevo fermarmi, se lo avessi fatto mi avrebbero raggiunto e allora sarebbe stata la fine. Era notte fonda e la luna rischiarava i rami spogli degli alberi che mi scorrevano di fianco. Non sapevo dove stessi andando, sapevo solo che non dovevo fermarmi.

Vedevo le nuvolette di aria uscire dalla mia bocca, faceva freddo anche se io non me ne rendevo conto, ero accaldato dalla corsa e non avevo tempo per pensare alla temperatura. Non sentivo quasi più le gambe, ma non volevo cedere alla stanchezza, rallentai un po’ solo quando cominciai a sentire dolore alla milza, ma non appena lo feci sentii il loro respiro dietro di me e un brivido mi percorse lungo la schiena. Dovevo correre più forte che potevo per non farmi prendere, per restare in vita.

Quando aprii gli occhi mi sentii sollevato, non ero mai stato così felice di svegliarmi. Quel sogno era così realistico, a tal punto che sentivo le gambe indolenzite, come se avessi corso davvero.

Avevo il cuore che batteva forte, ma era normale dopo un tale incubo. Alzandomi dal letto sentii anche una fitta alla milza, ma attribuii tutte queste sensazioni alla soggezione infusami dal sogno appena fatto. Al sol pensiero mi venivano ancora i brividi.

Mi lavai e vestii, scesi per la colazione e poi uscii alla volta dell’ufficio. Solita routine: davanti un computer per qualche ora a leggere e-mail, il più delle volte inconcludenti, scarabocchiare qualche scartoffia e rispondere al telefono a gente che fa sempre le stesse domande, non si sa se per abitudine o perché davvero non ricordano quello che era già stato spiegato loro almeno una ventina di volte. Così passavo le mie giornate lavorative. Almeno si trattava di un lavoro ben retribuito e pareva fossi bravo a farlo, quindi per lo meno non subivo molte rotture di scatole.

Erano troppo vicini, potevo sentire il loro respiro, il loro puzzo e il rumore dei loro passi che mi inseguivano. Erano veloci, troppo veloci. Davanti a me gli alberi si infittivano in un bosco, non sapevo cosa fare: entrare nel bosco avrebbe potuto darmi il vantaggio di rendermi meno visibile, ma avrebbe potuto impedirmi di orientarmi e rischiavo così di finire in un vicolo cieco, sarei stato una facile preda. Così decisi di svoltare a destra e continuare a correre sotto la luce della luna nella speranza che mi avrebbe fatto da guida e magari portato verso un posto sicuro, dove non potessero trovarmi. Mi chiedevo come avessi fatto a finire lì ma non riuscivo proprio a ricordarlo. Cos’era l’ultima cosa che ricordavo? Cosa avevo fatto quella sera? Con chi ero? Nulla. Non riuscivo proprio a ricordare. Pensavo alla mia casa, a quanto mi sarebbe piaciuto trovarmi sulla mia poltrona davanti alla tv, magari sorseggiando una birra, mentre guardavo la partita. Che giorno era? Non ricordavo nemmeno quello. Almeno ricordavo il mio nome? Sì, ero ancora sicuro della mia identità, questo mi rassicurava un po’. Si era alzato il vento e cominciavo a sentire freddo nonostante la corsa. L’aria pungente mi tagliava la pelle del viso. Chissà da quanto tempo ero lì, da quanto correvo? Temevo il momento in cui sarei stramazzato al suolo, esausto. Allora sarei stato impotente, inerme, avrei solo dovuto aspettare che mi prendessero. Inorridii all’idea e chiesi al mio corpo un ulteriore sforzo per proseguire, lo avrei fatto anche a costo di farmi scoppiare il cuore. Sarebbe comunque stato meglio che farmi raggiungere. Mentre pensavo e correvo, le mie gambe cominciavano a cedere e presi una storta. Per poco non caddi a terra, ma il mio senso di sopravvivenza mi permise di stare in piedi.

Continuai a correre nonostante il dolore lancinante che sentivo ogni volta che il mio piede destro toccava terra. Erano davvero vicini, così vicini che potevo sentire il loro fiato addosso. Lacrime gelide mi scendevano dagli occhi, sia per il dolore che per l’angoscia di quello che mi avrebbe aspettato se mi fossi fermato.

Lo schermo del computer mi restituì la sua luminosità e mi fecero male gli occhi, come quando dopo che sei stato per molto tempo fuori alla luce del sole e poi rientri in casa, per un po’ non vedi nulla, finché non ti abitui alla diversa intensità di luce. Ero ancora seduto alla mia scrivania, le solite e-mail, le solite scartoffie e il telefono lì vicino. Tutto regolare. Ma mi sembrava di aver appena vissuto di nuovo il sogno di quella mattina. Mi ero forse addormentato sul posto di lavoro? Non mi era mai successo. Proprio strano. Mi stupii ancora di quanto fosse realistico, avevo il batticuore e la fronte madida di sudore. Forse non stavo bene? Ma a dir la verità fisicamente mi sentivo a posto.

Guardai l’ora, era il momento della pausa pranzo, poi avrei avuto ancora due ore da lavorare e infine sarei potuto tornare a casa. Non vedevo l’ora di andarmene, non mi sentivo tranquillo. Mi sentivo osservato e sentivo scricchiolii inquietanti provenire da ogni dove. Mi guardai intorno. Non c’era nulla di strano, il solito ufficio con le pareti bianche, la moquette grigia, i mobili, anch’essi grigi, pieni dei soliti dossier e registri dimenticati. Mi riscossi, sicuramente era tutto frutto della suggestione. La pausa mi avrebbe fatto bene, una bella mangiata e magari una passeggiata prima di ricominciare a lavorare mi avrebbe dato nuovo vigore. Mi alzai per raggiungere la sala ricreativa, ma non appena mi misi in piedi, una fitta partì dalla caviglia destra e percorse tutta la gamba fino al ginocchio. Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Com’era possibile che mi facesse male la caviglia?

Non avevo preso una storta, se non in sogno… Ma se allora non si trattasse solo di un sogno?
Scacciai quest’idea e mi diressi in corridoio, non senza fatica perché il piede mi faceva davvero male.

Quando raggiunsi la sala ricreativa fui contento di non trovarci nessuno, volevo stare per conto mio e riflettere, avevo mal di testa e le ciarle dei colleghi erano l’ultima cosa che volevo sentire. In effetti però era strano che all’ora di pranzo la sala fosse vuota, di solito si riempiva di impiegati chiassosi e affamati in meno di un minuto. C’erano sempre quei quattro o cinque che raccontavano barzellette, e quelli che si scambiavano commenti sui propri panini, e il galletto di turno che raccontava le sue conquiste tra le segretarie dell’ufficio di fianco. Oggi non c’era nessuno. In effetti sembrava che l’intero ufficio fosse vuoto. A pensarci bene, entrando in ufficio qualche ora prima non avevo incontrato nessuno, il che era strano, molto strano. Mi misi in ascolto in cerca di un qualche suono famigliare: un telefono che squilla, la voce della receptionist che dà informazioni, la fotocopiatrice in funzione. Ma niente di tutto questo raggiunse le mie orecchie. C’era solo un silenzio di tomba. Cominciai ad agitarmi. La situazione era davvero bizzarra. Mi venne di nuovo da pensare al sogno e cominciai a sentirmi le palpebre pesanti. Cosa stava succedendo? Non volevo cedere. Sentivo dei rumori, il vento tra gli alberi, dei passi che si avvicinavano, dei rami spezzati…

Ma ero ancora nella sala in ufficio. Mi girava la testa, gli occhi si chiudevano… No, non dovevo cedere. Ma mi sentivo così stanco. La poltrona. Mi sedetti. Era di nuovo buio. Correvo.

Ero in preda alla disperazione, li sentivo dietro di me, pronti a saltarmi addosso e lacerare le mie carni. Volevo smettere di correre, tutto mi faceva male. Il cuore mi batteva così forte che non riuscivo a sentire nessun altro rumore che il mio stesso battito. L’aria gelida che mi entrava in bocca lacerava la mia gola come una lama. Non vedevo più niente davanti a me per gli occhi gonfi di lacrime. Fitte pungenti colpivano ogni singolo muscolo del mio corpo. Ero arrivato al limite. Ma proprio quando ero pronto ad aspettarmi il peggio mi accorsi di essere avvolto dal totale silenzio, niente più fruscio degli alberi, niente più passi inseguitori, nemmeno il battito del mio cuore. Mi fermai. Mi trovavo in una radura, dove gli alberi avevano assunto una posizione circolare tutt’intorno. La luna era ancora alta in cielo e sembrava trovarsi al centro esatto del cerchio formato dagli alberi. Ripresi fiato. Ero così contento di essermi fermato, il mio corpo necessitava di riposo.

C’era un laghetto, bevvi finché non mi sentii lo stomaco gonfio e poi mi sdraiai. Finalmente mi sentivo al sicuro. Non avevo più la sensazione di essere inseguito. Forse alla fine avevo raggiunto la salvezza. Avrei riposato un po’ e poi avrei cercato la via di casa. Chiusi gli occhi e mi addormentai.
Mi ridestai con un senso di voltastomaco, sentivo un acre odore che mi dava la nausea seguito da una sensazione di calore sul mio volto. Cercai di fare mente locale per capire dove mi trovassi e mi ricordai che stavo scappando da qualcosa. Ricordai dove avevo già sentito quell’odore nauseabondo. Venni assalito dal terrore. Mi avevano trovato. Aprii gli occhi. Erano lì, chini sul mio corpo, pronti a smembrarlo.