“SCACCO”

Il viso le bruciava. Ma ancor più le bruciava dentro, il fatto che fosse successo di nuovo, e soprattutto, la consapevolezza dell’enorme errore commesso nell’avergli dato ancora fiducia.

“Me ne vado…ora me ne vado…me ne vado…” – Rannicchiata a terra, aveva preso a dondolare su se stessa recitando quel solito proposito, quasi fosse un mantra. Come ogni altra volta solo mentalmente, perché da sempre, lei, era abituata così: a tenersi tutto dentro, a non dar voce ai suoi pensieri.

Ma il suo difetto più grande, era l’incapacità di dargli corpo: di tramutarli in azioni.

E lui, questo, lo sapeva.

Certo che lo sapeva: perché ogni predatore sa riconoscere in mezzo al branco, il soggetto debole, quello che potrà facilmente catturare.

E questo era per lui: la facile preda, su cui sfogare i suoi istinti bestiali.

E lei, lo sapeva.

Certo che lo sapeva: perché ogni preda sa riconoscere il predatore, anche quando si camuffa.

Però, anche se lo sapeva, ogni volta se lo scordava.

Lui, glielo faceva dimenticare.

E bisogna riconoscere che, in questo, era impareggiabile: aveva davvero un talento naturale.

A pensarci bene, il copione era sempre lo stesso. Solo che lui, da vero artista dell’oblio quale era, aggiungeva tutte le volte qualcosa di nuovo.

Badate bene: non una cosa qualunque. Bensì esattamente quella parola, quel gesto, che gli avrebbe consentito di tornare ad usufruire di un ulteriore bonus.

Spesso li accompagnava ad un oggetto prezioso, e quindi erano diversi ormai, i gioielli e gli abiti firmati che lei aveva tristemente accumulato; tanti quante le promesse che non sarebbe più successo, che le ripeteva dopo averla usata come il sacco con cui si allenano i pugili.

E lei, da qualche parte in fondo a se stessa, lo sapeva: certo che lo sapeva, che invece sarebbe successo ancora e ancora!

Ma nonostante ciò, era ancora lì.

Anche perché quella sera, c’era una novità importante, che avrebbe cambiato tutto! O almeno, lei, questo ingenuamente sognava, mentre l’aspettava ansiosa di raccontargliela.

Ma lui non gliene aveva dato modo. Era entrato in casa con il passo deciso di chi aspetta da una vita di pareggiare un conto in sospeso con il peggiore dei nemici, e come una furia le si era avventato addosso.

Poi, una volta sfogatosi, se n’era andato in giardino a fumarsi una sigaretta, lasciandola acchiocciolata in quell’angolo della stanza in cui, invano, aveva cercato rifugio. Già, invano, perché rifugi non ve n’erano; non in quella casa almeno, furbamente acquistata da lui in aperta campagna, lontano da occhi ed orecchi indiscreti.

Anche quella mossa faceva parte di un piano studiato nei minimi particolari, e costituiva l’ultimo passo di una strategia che era partita con l’attenta scelta della sua vittima: giovanissima, ingenua, senza fratelli e con entrambi i genitori deceduti.

Il secondo fu di allontanarla dal suo gruppo di relazioni extra-famigliari, minando il rapporto con la sua migliore amica, istillandole magistralmente il dubbio che quella ci provasse con lui.

Poi se l’era plasmata per benino, giorno dopo giorno, mese dopo mese, disgregando via via, la già scarsa fiducia che nutriva in se stessa, per farla scivolare verso l’inconscia convinzione di non poter vivere senza di lui.

Ovviamente non aveva trascurato l’aspetto indipendenza economica, e quindi l’aveva anche subdolamente indotta a lasciare il suo posto da commessa.

Ed infine, con l’abilità di un pifferaio magico, l’aveva convinta a seguirlo in quel casale dimenticato dal mondo: “Vedrai… in che paradiso ti porto a vivere!”.

Ed invece l’aveva trascinata all’inferno.

“Scacco alla regina!” avrebbe sicuramente commentato quell’ultima mossa, nonno Amilcare, grande appassionato della scacchiera.

“Quest’alfiere non mi piace Giovanna” – le aveva sussurrato all’orecchio, pochi mesi prima, quando era andata a trovarlo all’ospizio insieme al suo Stefano, per preannunciargli il loro trasferimento.

L’aveva infastidita, e molto, quel commento inaspettato, ma non era riuscita ad arrabbiarsi, poiché subito, con disarmante dolcezza, lui aveva aggiunto: “Ti prego figlia mia, stai attenta!”.

Naturalmente però, non aveva voluto prestare ascolto a quel monito, preferendo considerarlo la farneticazione di un vecchio che, forse, cominciava a dare un po’ i numeri.

Ed invece, il nonno, da dietro i suoi occhiali spessi, ci aveva visto bene, eccome! E poiché tutto era fuorché rimbambito, si era fatto promettere di ripassare a fargli visita prima di partire, ma, da sola!

Proprio a quell’avvertimento aveva ripensato rialzandosi faticosamente dal pavimento. E farlo era stato difficile, ma non quanto sostenere la vista dell’immagine che lo specchio le aveva riflesso subito dopo: una maschera di lividi. A quello era ridotto il suo bel viso. Non ne aveva mai avuti così tanti: perché, fino ad allora, se l’era sempre protetto, in qualche modo.

Quella sera no! Quella sera, le sue mani, erano occupate a salvaguardare il ventre, ed il seme che vi era depositato.

Lui, questo, non lo sapeva; non ancora.

Ma, appena la sua rabbia animale s’era placata, aveva rivisto mentalmente la scena focalizzandosi proprio su quelle braccia chiuse a protezione dell’addome, e gettato via il mozzicone di sigaretta, s’era precipitato in casa a cercarla.

“Giovanna, aspetti un bambino?” – le aveva chiesto con dolce premura, come se fosse un altro uomo rispetto a quello che pochi minuti prima l’aveva aggredita.

“Perché non me l’hai detto? Se l’avessi saputo, non ti avrei…” – ed interrompendosi, aveva iniziato ad accarezzarla delicatamente, per poi proseguire, driblando abilmente: “Un bambino tutto nostro tesoro” – e pieno d’entusiasmo – “E’ meraviglioso! Sono così felice: mi sento… mi sento un Re!” .
Ma, notando che lei continuava a tener gli occhi bassi, aveva aggiunto implorante: “Perdonami Amore. Cambierò! Lo so: te l’ho detto altre volte, ma…questa volta è diverso! Lo sai quanto amo i bambini. Sarò il padre migliore del mondo! Te lo giuro!”.
Poi, chinandosi all’altezza della sua pancia aveva ripreso più convincente che mai: “Ciao Tesorino, sono papà! Vedrai: mi prenderò cura di te. E anche della tua mamma” – E risollevandosi – “Cosa dici Amore? Sarà una principessa o un principino? Io scommetto che nascerà una meravigliosa principessina, bella quanto la mia Regina!”.
Lei aveva alzato lo sguardo fino ad incrociare il suo che era irresistibilmente suadente mentre le ripeteva: “Credimi Amore: ora le cose cambieranno”.

“Si” – gli aveva fatto eco lei, con un filo di voce – “ora le cose cambieranno”.

Tronfio di soddisfazione, lui l’aveva baciata.

Certo non si aspettava che la notte lei si sarebbe divincolata dal malefico abbraccio nel quale l’aveva avvinghiata addormentandosi, e senza prendere nulla con sé, al di fuori della sua nuova determinazione e del vecchio coprispalle regalatole dalla sua amica, sarebbe salita su quella mercedes, di cui era geloso quasi quanto di lei, e si sarebbe allontanata.

Ora, giunta in paese dinnanzi all’insegna “CARABINIERI”, porta le mani al grembo come volesse trarne ancora coraggio. Poi, afferra la piccola telecamera a forma di penna, che poche ore prima aveva collocato in casa con l’intenzione di immortalare la gioia del marito quando gli avrebbe riferito d’essere in dolce attesa. Le immagini che aveva ripreso, invece, erano quelle di un nuovo amaro pestaggio.

Mentre suona il campanello della caserma, ripensa al giorno in cui, tenendo fede alla sua promessa, era ripassata da sola a salutare il nonno, e lui, consegnandole quella telecamerina, l’aveva esortata dicendole: “Usala Giovanna. Dai retta a me: usala!”.

Allora non aveva lontanamente immaginato che il Mago degli scacchi le stesse mettendo in mano la preziosa pedina che le avrebbe consentito di far trovare al marito, al posto del consueto caffè caldo accompagnato da un cioccolatino, un biglietto con scritto solo:

“SCACCO MATTO, AL RE MATTO!”.


 

LE TUE SCARPE

Mi piaceva indossarle,
le tue grandi scarpe,
per andare ad esplorare la nostra nuova grande casa
e tutta quella terra che la circondava.

Ero piccola ma non avevo paura:
sapevo che, per qualunque cosa, tu eri lì
da qualche parte
e potevo sempre rifugiarmi fra le tue braccia

quando lo facevo tu abbandonavi tutto per un attimo
e mi stringevi con la tua forza gentile
la stessa che usavi nel prenderti cura dei tuoi ulivi
di cui mi insegnavi ogni cosa.

Oggi posso camminar per casa anche al buio,
l’olio che ho fatto senza di te ti piacerebbe, lo so
come so che sei ancora li fuori, da qualche parte nell’uliveto,
lo sento, quando mi ci aggiro cercando quell’abbraccio che non c’è più

e le tue scarpe
son della mia misura ora Mamma,
eppure io le sento grandi, ancora troppo grandi
per me.


 

MELODIA

Ti cerco
fra i mille volti che mi circondano:
alcuni conosciuti
ma comunque estranei.

Ti cerco,
anche se non ho la minima idea di chi tu sia,
naufragando fra queste voci
che parlano ma non mi dicon nulla.

Finché, vagando con lo sguardo
in questo mare di niente,
incontro la tua musica
che subito àncora i miei occhi ai tuoi.

Solo quelli vedo di te:
due occhi
aperti come un sipario
sul grandioso concerto che sei.

E non mi importa di vedere altro
del corpo che ti ospita,
né sapere quanti anni hai,
né di che sesso sei.

Nulla mi interessa,
fuorché la melodia
della tua anima
che tanto meravigliosamente si intona alla mia.