Ricominciare

Lui non sapeva più ascoltare se stesso, non prestava più attenzione ai presentimenti che tentavano di riemergere dal profondo. Aveva un viso perennemente triste, aveva dimenticato come si fa a sorridere. Messo sotto accusa dai suoi nemici s’era difeso, ma non gli avevano creduto. Chi diceva di amarlo l’aveva abbandonato e gli amici, uno ad uno, s’erano defilati.
Ora era solo, seduto col viso tra le mani, sopra una panchina del piccolo parco cittadino. Aveva bevuto per annegare i ricordi e i sentimenti. Le budella contorte dall’alcool ingurgitato e un forte senso di nausea.
Intorno a lui il mondo, più che mai incomprensibile, girava, ondeggiava, gli occhi scrutavano tra le dita della mano una terra che non sentiva più sua, torbida di nebbia, nonostante il sole già alto. La nausea, intanto, cresceva, lo spingeva ad alzarsi, a cercare una toilette per gettare fuori quel dolore che sentiva imprigionato dentro.
Barcollando, seguì la freccia e il sentiero che portavano ai bagni pubblici. Trovò la porta d’ingresso della piccola costruzione in cemento, entrò sbattendo contro l’anta di legno. Ubriacarsi, come sempre, era stato inutile, tutto stava riemergendo gigantesco, deformato. La voce di lei che l’accusava di essere un incapace, che diceva di non poterne più di quella vita, con le valigie in mano mentre se ne andava.
Alzò lo sguardo e quasi si spaventò. Di fronte uno specchio quasi opaco e sporco gli rimandava la sua immagine. Gli occhi rossi, infossati, una brutta cicatrice sulla fronte, i capelli untuosi e una lunga barba grigia, incolta. Le labbra rosse, screpolate, un naso rubizzo e lucido. Non si riconobbe.
Strappò un pezzo di carta dal contenitore di fianco al lavandino e lo passò sullo specchio, ma l’immagine non migliorò. Provò allora ad avvicinare il viso, con la punta del naso sfiorò il vetro freddo dello specchio e s’intravide nel nero delle pupille dei suoi occhi. Non era più nessuno. Poteva crollare lì, sul quel lurido pavimento, nessuno l’avrebbe soccorso.
Lo trovarono nel pomeriggio, gli occhi fissi a guardare il soffitto, steso sul pavimento, un ghigno ironico stampato sulla bocca.
Non era morto. In ospedale l’avevano tenuto due giorni in rianimazione, poi l’avevano lavato, sbarbato e rigettato sulla strada, in preda al suo destino. Gli avevano dato un po’ di monete, raccolte da un infermiere pietoso tra i degenti del reparto. <> gli avevano detto.
Riprese a vagare per la città, la mente confusa e la voglia feroce di ricominciare a bere.
Entrò in un bar deciso a farsi almeno un bicchiere. Dietro al bancone di nuovo uno specchio gli riportò la sua immagine. Si vide pallido, gli occhi scavati, ma ora il viso era pulito; sembrava quasi un uomo. I soldi stretti nel palmo della mano gli riportarono alla mente le storie studiate nell’infanzia al catechismo: i trenta denari avuti da Giuda per tradire Gesù, la parabola dei talenti donati da Dio ai suoi fedeli, l’eredità sperperata dal figliol prodigo.
Si ricordò che quel figlio era tornato pentito da padre, che il padre l’aveva accolto e riammesso nella sua grande famiglia, gioendo e facendo festa. Anche lui aveva sbagliato, ma non aveva un padre pronto a perdonare e ad accoglierlo.
La voglia di bere, intanto, s’era fatta più intensa e quasi non gli permetteva più di pensare. Quasi delirante, si rammentò che, secondo il Vangelo, Dio era il padre buono di tutti gli uomini, colui che sapeva comprendere e perdonare. A chi, se non a Lui poteva chiedere aiuto?
Trasalì, si sentì sconvolgere fin dentro le ossa, mentre un sentimento di speranza gli gonfiava il petto. Doveva trovare una chiesa, gettarsi in ginocchio davanti ad una croce e pregare; solo Gesù l’avrebbe saputo ascoltare, Lui gli avrebbe detto come salvarsi dalla corruzione che sentiva dentro.
Cercò tra i suoi ricordi i versi d’una preghiera, prese a balbettarli sommessamente, gli occhi lucidi di commozione. Uscì di corsa dal bar, gettandosi sulla strada tra le auto in corsa.
Lo scontro fu inevitabile. Lo portarono di nuovo in ospedale, l’ambulanza corse a sirene spiegate. Tutto inutile.
Il medico che ne accertò la morte si stupì dei suoi occhi limpidi, del suo strano sorriso e della sua mano destra chiusa che stringeva in pugno poche luccicanti monete.


Relitti

Mi piace il mare d’inverno, malinconico e misterioso. Mi piace camminare al limitare delle sue onde, curiosare, nel freddo d’un mattino rischiarato dal sole, tra ciò che si ferma sulla spiaggia dopo una mareggiata. Oggetti e animali tra la sabbia sono i messaggi portati dai fiumi, i relitti d’un naufragio, i testimoni silenziosi d’una tragedia o d’un semplice abbandono. Colorati o stinti, il mare li ha cullati tra le onde e poi respinti sulla riva.
Gli ossi di seppia che raccoglievo un tempo non si trovano più. Ormai è raro trovare persino le grandi valve delle ostriche che imbiancavano sotto il sole. I relitti d’oggi sono sacchetti di nylon, carcasse di cassette di legno, boccette di vetro, tappi di sughero, frammenti di plastica anneriti dal catrame.
L’uomo ha invaso anche il mare. Il mare ancora s’infuria e tenta spesso di liberarsene, ma l’uomo non demorde, piazza boe, disegna scie d’argento con le sue grandi navi, costruisce piattaforme d’acciaio per estrarre gas e petrolio, s’affida a grandi vele per gareggiare sospinto dal vento, costruisce banchine d’attracco e scogliere di pietra.
L’uomo ha preso coraggio. Quasi non teme più il mare, sa che non ci sono mostri nei suoi abissi, può predire l’avvento delle tempeste, le crisi piatte della bonaccia, può cambiare rotta o prepararsi a resistere, può depredare i suoi pesci ed estrarre essenze dalle sue alghe.
Sulla spiaggia s’arenano i resti della lotta; nel silenzio rotto dalle grida dei gabbiani ascolto il pulsare delle onde, le braccia aperte e nudi i piedi immersi nell’acqua salata.


L’appuntamento

Un bip lieve, ma ricorrente attestava che lui era ancora in vita in quella stanza semibuia dell’ospedale cittadino. L’infermiera gli aveva detto entusiasta che era un eroe, che aveva salvato una donna suicida dall’urto contro un autobus, gettandosi con coraggio su di lei per allontanarla dalla strada. La donna era rimasta illesa, ma se n’era andata, con colpevole disinteresse, lasciandolo tramortito in mezzo alla strada. Alcuni passanti, colpiti dalla scena, l’avevano prontamente soccorso, chiamando l’ambulanza. All’ospedale solo la cocciutaggine d’un giovane dottore l’aveva salvato, recuperandolo dall’arresto cardiaco che era intervenuto durante il trasporto. Ora era fuori pericolo, ma la sua mente era confusa. Si ricordava d’un appuntamento, d’un ospite inconsueta che doveva fargli visita…
Il sole era tramontato almeno da un’ora, in quel giorno ad inizio estate s’avvicinavano le nove di sera, l’ora convenuta per l’incontro. Tanti, prima di lui, l’avevano accolta, ma nessuno aveva lasciato un resoconto, una breve nota sull’andamento della serata.
Certo doveva esser bella per trascinare con sé tutti quelli che incontrava. Bella e terribile per come, a volte, appariva agli imbocchi delle curve lungo le strade asfaltate; insensibile e crudele di fronte ai mazzi di fiori che ricordavano tragiche scomparse; inaspettata e tragica per chi restava a rimpiangere l’amore perduto per inevitabile fatalità o per umana stupidità.
Era stato lui, stavolta, ad invitarla, a costringerla a presentarsi presso la sua casa. Non ci aveva pensato a lungo, aveva agito quasi d’istinto. Quando non si trovano più punti di partenza, quando si falliscono tutte le mete del viaggio, non si ha più voglia di pensare cosa succederà domani. Non voleva, però, accogliere l’ospite come tanti, magari travolto dall’alcool e dai tranquillanti, non voleva trovarsi poco cosciente al cospetto dell’atteso visitatore.
Voleva guardarla a lungo negli occhi, assaporare la dolce crudeltà del suo apparire. Voleva, lui che sapeva recitare, lui che era stato un grande imbonitore, provare a sedurla, magari a conquistarla fino al punto da farle dimenticare se stessa.
Due minuti alle nove, tra poco l’avrebbe rivista. Chissà se avrebbe bussato alla sua porta per annunciare il suo arrivo come fanno gli ospiti attesi ad una festa. La tensione e la fantasia gli suggerivano visioni bibliche: la violenta strage dei primogeniti nell’antico Egitto decisa da un Dio che voleva liberare il suo popolo oppresso o, in Palestina, la strage dei neonati voluta da Erode, sotto la luce della stella cometa, per uccidere l’annunciato nuove re dei Giudei.
Aveva fatto decantare, per rendere più intimo l’incontro, una bottiglia di vino rosso, quello che amava di più, quello che profumava di viole e di rose, di fragole di bosco e di muschio alpino. Quel sapore gli avrebbe ricordato le sere, piacevoli e sensuali, trascorse con le tante donne che aveva avuto. Sperava, quasi inconsciamente, di commuoverla, d’avere il tempo di osservarla, di scrivere lui quelle parole che nessuno aveva mai scritto.
L’aveva intravista pochi giorni prima in ombra, nella stanza semibuia di sua madre, accanto al letto di lei. Un impalpabile fluttuare di veli bianchi e neri e un lieve odore d’incenso e vaniglia, quella che sua madre metteva nei biscotti della colazione mattutina. “Aspetta, – le aveva detto – non portarla via ora… Dammi il tempo di parlarle, lasciami incontrare ancora i suoi occhi chiari…”.
L’ombra aveva scosso il capo. “Il suo tempo è finito…” aveva sussurrato con tragica voce beffarda.
“Se il suo tempo è finito… allora… allora… prenditi pure un po’ del mio… non posso lasciarla andare così. Deve sapere che sono tornato, che mi dispiace d’averla lasciata sola per così tanto tempo…”.
“Chi si pone contro il tempo, chi sfida il destino, pone a rischio la sua vita perché richiama l’attenzione del fantasma della morte… Porsi tra la morte e il destino è un privilegio che si paga”.
“Non ho paura. Il mio tempo l’ho sprecato, innamorato di me stesso, a far innamorare di me uomini e donne senza ritrovarmi. Non ho paura, pagherò il prezzo che chiedi se ti nascondi ora ai suoi occhi, se mi lasci l’unico tempo che conta, quello che posso passare ancora con lei”.
“Se è questo che vuoi… Ma ti costerà la vita. Tornerò presto, molto presto. Sabato sera alle nove, non ho al momento altri appuntamenti…”.
L’odore d’incenso s’era dissolto. Solo il profumo di vaniglia ora riempiva la stanza. I biscotti stavano sul comodino, accanto al letto di sua madre. Lei aveva allungato una mano, ne aveva raccolto uno e se l’era portato alla bocca. “Sono sempre buoni i miei biscotti, vero? Ti ricordi come ti piacevano inzuppati nel latte al mattino, prima d’andare a scuola?”
Quella notte insieme si mangiarono tutti i biscotti, come due vecchi innamorati, tenerezza, fragranza e poi un fiume di parole sussurrate, intense, tra sorrisi e alterni sospiri, con quell’intimità che non aveva mai incontrato negli anni trascorsi a far carriera, a passare da una donna all’altra, da un letto all’altro.
Commozione e complicità erano il senso perduto del suo viaggio. Voleva dirglielo con semplice sincerità, quasi sentisse il bisogno di lenire l’indistinto senso di colpa che l’aveva fatto ritornare.
Mentre lui le parlava, lei s’era accorta di non averlo mai compreso e, forse, neppure in quel momento riusciva a capirlo fino in fondo, ma gli sorrideva e lo guardava con gli occhi di chi si beve ogni parola della persona amata. Pervasa dal suono intimo della sua voce, rasserenata, s’era a poco a poco riaddormentata.
Lui aveva continuato a parlare quasi sino all’alba. Solo alla fine del suo racconto s’era accorto che lei dormiva. Le aveva riassestato le coperte chiedendosi se fosse riuscita ad ascoltare tutti i suoi pensieri, però s’era tranquillizzato nel vedere il suo viso disteso e un lieve sorriso sulle sue labbra. Con la nuca appoggiata all’alta spalliera della poltrona, guardando in penombra il profilo della madre finì lui stesso per chiudere gli occhi in un sonno ristoratore.
Si svegliò di soprassalto, alcuni infermieri che erano nella stanza parlottavano vicino al letto della madre. Capì d’essere rimasto solo, ma il colloquio con la madre sembrava averlo riconciliato con se stesso e con le astrusità del mondo. Mentre tornava a casa, aveva preso a interrogarsi sulle vicende di quella notte. Confusi, nella mente, i confini tra sogno e realtà, tutto preso dal funerale che doveva organizzare, superando il dolore di quella perdita, per alcuni giorni, non aveva dato peso alle promesse fatte allo strano fantasma incontrato in ospedale nella stanza della madre. Il sabato mattina, però, s’era svegliato incupito, quasi impaurito. Poi avevano preso il sopravvento la curiosità e il gusto d’una impareggiabile sfida. Nella peggiore delle ipotesi, s’era detto con un ironico sorriso, avrebbe presto raggiunto la madre nel regno delle ombre.
Aveva trascorso tutta la giornata a preparare l’incontro, elaborato il suo piano di difesa e una impeccabile strategia per raggirare l’avversario. Erano le nove, tutto stava per accadere o, forse, niente sarebbe accaduto.
Il campanello squillò e lui, incredulo, ebbe un sobbalzo. S’affrettò verso la porta d’ingresso, sostò per un attimo di fronte al grande specchio a fianco della porta, assestò capelli e cravatta. Era perfetto, così aveva sempre fatto colpo. Guardò attraverso lo spioncino, ma vide solo un’ombra. Tutto il suo corpo fu percorso da piccoli incontrollati brividi.
Aprì la porta, un falso sorriso tranquillo stampato sulle labbra e gli occhi attenti per cogliere l’effimera figura sotto l’eventuale fluttuare dei veli.
Si trovò di fronte un’affascinante donna bruna, alta, avvolta in un abito nero da sera, lungo e attillato sul corpo sinuoso; gli occhi neri, scintillanti, le labbra rosse e lucide, il viso d’un pallore lunare e un sorriso provocante. Stupito da quell’inaspettata apparizione, per alcuni istanti la osservò con aria interrogativa.
“Non avevamo un appuntamento? Non ti piaccio vestita così?” – disse la donna varcando la soglia. Lui era ammutolito, intimorito dalla sensuale bellezza di lei. Stretta in quel vestito nero, tutte le forme ferine e formose del corpo venivano esaltate, e quelle incredibili labbra rosse, quello sguardo intenso e sensuale… doveva tentare di sedurla, buttar via la paura e quello stupido timore reverenziale che ora lo pervadeva. Ma se lei era l’immagine con cui la morte voleva mostrarsi, come conquistarla? Con l’adulazione? Con la compassione? Con la rabbia d’una rivolta? E poi, poteva distrarsi la morte, abdicare al proprio dovere? Se lo avesse fatto avrebbe rinnegato se stessa. L’esistenza della morte era la morte stessa. La cessazione dell’essere era la vita della morte. Forse, per questo, la morte si nutriva di vite.
“Lo so cosa stai pensando. Quando ci siamo incontrati non ero così; ma ho voluto essere come tu desideri. Ho letto nel profondo dei tuoi pensieri… Vedi, hai preparato anche il tuo vino preferito. Cosa aspetti a versarmelo?!”.
Sforzandosi nell’ostentare una serena tranquillità, le riempi il bicchiere, ma i polsi gli tremavano, nonostante cercasse di nasconderlo girandole lievemente le spalle.
Lei, intanto, l’aveva raggiunto, gli aveva posato le mani sui fianchi, quasi accennando ad un lieve abbraccio. Lui s’era irrigidito. Sorpreso aveva istintivamente cercato di sottrarsi al contatto.
Lei aveva posato leggera la testa sulla sua schiena, quasi a sentire i battiti accelerati del suo cuore. Il profumo d’incenso e di vaniglia aveva ormai pervaso la stanza. Lui, con un agile gioco del corpo s’era girato su se stesso, offrendole il bicchiere di vino rosso.
“Brindiamo… brindiamo a questo nostro incontro… fermiamo il tempo, non andiamo oltre”, aveva trovato, improvviso, un po’ di coraggio per parlarle. Lei aveva sorseggiato il vino ed aveva cominciato a ballare, tenendolo per le mani. Lui, dapprima legnoso e guardingo, s’era lentamente abbandonato alla dolce musica che percepiva, le sue mani avevano lentamente cinto i fianchi della donna. Ora ne sentiva l’armonico movimento delle anche, era affascinato dalla pelle bianca e morbida delle sue spalle, dall’armonia del suo collo.
Lei quasi impercettibilmente aveva colmato la distanza tra i due corpi, aveva cinto le braccia sulle sue spalle. Stavano diventando un corpo solo. Lo sentiva vibrare, ne percepiva il desiderio. Sapeva che tra poco lui l’avrebbe baciata.
Lui cercò gli occhi di lei, tentò d’accarezzarle il viso, ma lei si scosse e si staccò da lui. Guardò per un istante i suoi occhi chiari e fuggì via, correndo lungo le scale. Lui la inseguì fin sulla strada. La raggiunse, si strinse con forza a lei e chiuse gli occhi invaso da una profonda commozione. Mentre lei si divincolava e si sottraeva al suo abbraccio, percepì uno schianto improvviso. Venne il buio, un buio silenzioso e profondo. Poi, dopo un tempo infinito, una luce lontana. Qualcuno premeva convulsamente con il palmo delle mani sul suo petto. I suoi occhi si aprirono appena e la sua bocca riuscì ad abbozzare un sorriso. Ombre bianche s’aggiravano intorno al suo corpo disteso. “Ce la farà – esclamava un uomo chino su di lui – ce la farà, ha il cuore forte”. Ora dobbiamo tener sotto controllo il suo battito, sostenerlo finché non si fa regolare. Se ha ancora voglia di vivere, vivrà.


Magie

Viveva un uomo, viveva i suoi giorni ormai disilluso. Passata la soglia dei cinquant’anni, tradito dai suoi compagni, stordito da un amore impossibile, aveva accettato il suo destino: spegnersi lentamente, lasciarsi andare ad un’esistenza senza infamia e senza lode.
Aveva imparato ad ascoltare i suoi silenzi; il suono dei suoi passi tra le vie strette e antiche della sua città segnava il tempo monotono, uniforme.
Lungo quelle vie, dove un giorno stagnava l’acqua dei canali, riusciva a sentire lo scambio di saluti tra due barcaioli che s’incontravano, il fruscio delle reti da pesca che venivano tirate a riva, il richiamo delle anatre in cova tra le canne, il profumo del fango mescolato al vapore freddo della nebbia.
S’era stancato di scrutare il destino col gioco delle carte. Smessi i pudori dell’infanzia, aveva cercato di svelare la stupidità dei suoi sogni per cicatrizzare le ferite che ancora rimanevano aperte.
La vita, però, non ci lascia vivere da illusi o rassegnati. Rigira le carte, anche quelle che tieni segrete, le gioca sul tavolo verde, invita all’azzardo, tenta coi suoi miraggi, offre da bere anche all’alcolizzato che da anni prova a disintossicarsi.
Quell’uomo, in un giardino coperto dalla neve, scorge un giorno una turgida rosa rossa che sfida impunemente il freddo dell’inverno. Preso dalla curiosità le si avvicina, ne cerca il sinuoso profumo tra i morbidi petali; ma il profumo che percepisce è tenue, quasi assente. Quella rosa ancora lo trattiene, non si fida del primo che passa. Anzi lo guarda, lo vede stanco, miseramente rinchiuso in sé, una foglia che s’è accartocciata su se stessa.
Solo gli occhi di quell’uomo lasciano ancora trasparire qualche inaspettato lampo di vita, occhi che la guardano con malinconica intensità, contro il bianco della neve che li circonda. La rosa, avvolta in sé stessa per ripararsi dai rigori dell’inverno, li guarda, si specchia, si vede con gli occhi dell’uomo: infreddolita, incapace d’aprirsi, di scaldare l’aria col suo profumo.
Anche lei aveva amato. Una breve stagione di sole, nel tardo autunno, aveva riscaldato le sue radici, smosso la linfa vitale del ramo, promosso un timido bocciolo verde, striato appena di rosso. Nel tepore del sole, la linfa aveva continuato a ingrossare i suoi petali d’un rosso ambrato, carico di promesse. Poi, l’inverno aveva preso il sopravvento, l’aria si era fatta fredda e cupa, tutte le foglie erano cadute e la neve era scesa copiosa e silente a inibire il coraggio di fiorire.
La rosa s’era trovata sola, in un angolo del giardino, confusa e spaesata, inconsapevolmente bella contro il candore della neve; rischiava di bruciarsi al gelo della notte.
L’uomo comprese, scordò le sue amarezze, dimenticò tutte le sue promesse di non bere mai più al calice amaro delle illusioni, e, con un gesto di tenerezza, la colse. Pensando che nel tepore della sua casa la rosa sarebbe rifiorita, promise a sé stesso che l’avrebbe amata come un dono inatteso del destino.
La pose al centro del salone, immersa nell’acqua di un bel vaso antico, inondata dalla luce di un imponente lampadario di cristallo. E la rosa sembrò rifiorire, per alcuni giorni si fece addirittura più bella, tentando di sbocciare. L’uomo dalla sua poltrona, qualche metro distante, le raccontava i suoi pensieri, le sue passate delusioni e, ogni tanto, si soffermava a guardare il rifiorire dei petali della rosa.
Ognuno sembrava trovare nutrimento nell’altro e sopravvivere in virtù di quell’insperato incontro. Così l’uomo, sentendosi più sereno, spense le luci, si gettò sul letto nella camera accanto e s’addormentò. Nel buio s’abbandonò a quel dormiveglia che spesso coglie gli animi stanchi delle persone inquiete, ma presto fu preso da uno strano presagio. Gli pareva di sentire un lieve sussurro, una voce fioca che forse invocava aiuto. Preoccupato s’alzò, entrò nel salone, accese la luce del grande lampadario.
La rosa aveva reclinato il capo in un gesto di rinuncia alla vita. Ebbe paura di perderla. Con ampi passi la raggiunse, la prese tra le mani e d’istinto la baciò con disperata passione.
Vide la rosa risollevarsi, sentì il suo profumo farsi più intenso, nè ispirò la fragranza e la vitalità. Si trovò avvolto nell’essenza odorosa e chiuse gli occhi quasi a prolungare quel nuovo incantesimo. Quando li riaprì la rosa era scomparsa, s’era dissolta tra le sue mani come neve a primavera.