Gabriele FantatoSe raccontassi che mi trovavo all’interno di una selva oscura, sembrerebbe plagio. Eppure è così. Non so dire quando sia accaduto e nemmeno dove fosse il luogo in cui sostavo mentre mi guardavo intorno, palesemente confuso. Ero capitato lì: non ero arrivato con le mie gambe, non con un mezzo di trasporto e non ero nemmeno stato condotto da una terza persona; non che io ricordi. Probabilmente ero all’inconsapevole ricerca di me stesso e, non solo non ero riuscito ad addentrarmi nella mia più profonda intimità,  dove avrei scovato la mia essenza,  ma mi ero addirittura perso fisicamente. Certo, in quel momento ero davvero solo e sarebbe stata la situazione ideale per raggiungere l’obiettivo che mi ero prefissato. No, no! Cosa sto dicendo? Io ero impaurito, molto impaurito: avevo intentato un viaggio che non sapevo dove mi avrebbe condotto e, nell’istante in cui mi ero accorto di essermi perso, non ricordavo più nulla di ciò che era successo in precedenza. Era come se fossi stato il protagonista di un libro che si apre “in medias res”, come l’Iliade omerica, per intenderci.  Niente di nuovo. Se ripenso che mi sto paragonando ad un eroe di un poema epico, mi viene da ridere. Cos’avevo in comune con loro? Nulla, assolutamente nulla. Ero solo un ragazzo avvolto dalle tenebre, in un bosco. Fossi stato Dante Alighieri, sarebbe stato quasi comprensibile; nessuno, infatti, si è mai messo a sindacare riguardo il proemio della “Comedìa”: a tutti sembra normale che un racconto possa iniziare in quel modo. Ecco che io ero nella medesima situazione, eppure mi pare, se ci rifletto, un fatto assurdo.
Dicevamo che, nel bel mezzo degli eventi e delle tenebre, circondato da soli alberi, mi guardavo intorno spaesato. Non c’era anima viva. “Meno male”- avevo pensato- “Non è di certo dei morti che ci dobbiamo preoccupare, loro non nocciono.”
Nonostante questa considerazione, tremavo di paura. Chi, infatti, è sicuro davanti all’ignoto? Poi era probabile, o quantomeno possibile, che qualcuno prima o poi si presentasse. Da tutte le storie si impara che, quando ci si trova immersi nel buio, di notte, non succede mai nulla di buono. Era questa consapevolezza che mi aveva attanagliato, immobilizzandomi. Sì: erano i miei pensieri a fermare il mio corpo. Intanto mi dicevo “Scappa, scappa”; e non mi muovevo. Mi sentivo stupido: stare senza far nulla non era una grande idea ma, nel contempo, correre mi avrebbe portato ad un bivio. Se avessi proceduto di corsa le possibilità che si prospettavano erano: o arrivare in un luogo dove si vedesse almeno la luce della luna, oppure correre incontro a ciò che avrebbe potuto uccidermi. A risolvere questa mia indecisione estrema, ci aveva pensato un bagliore, che mi stava portando a fuggire in direzione opposta ad esso. Poi una voce. Starete pensando già ad un finale da horror, immagino. Pure io non ero confortato da quella luce.
Come stavo dicendo, però, una presenza mi aveva invitato gentilmente, devo ammetterlo, a non andarmene via da quel luogo. Mi aveva detto, successivamente “Io, io sarò la tua salvezza.”
A quel punto mi era venuto il dubbio che fossi riuscito ad entrare in me stesso e che il mio fine ultimo fosse stato perfettamente raggiunto. Che io stessi vivendo nell’interiorità? Avevo deciso di dare una manata ad un albero. No, no: ero vivissimo e la mano faceva male. Dalle mie labbra era uscito solo un gridolino e la presenza, sempre con molta garbatezza, si era nuovamente rivolta a me, stupendomi :” Sei vivo, non preoccuparti. Non stai viaggiando dentro te stesso, ma io sono venuto a salvarti. Sono vicino, sto arrivando.”
Era arrivato davvero, pochi istanti dopo. Vedevo quel biancore luminescente che pervadeva la figura che si trovava dritta davanti a me. Ad aumentare tale effetto vi era il suo abbigliamento: era un uomo vestito di bianco, di media altezza, che portava una barba curata e dei capelli lunghi. Indossava dei sandali marroni e niente’altro lo contraddistingueva.
Volevo parlargli, domandargli chi fosse e perché tentasse di salvare proprio me.
Mi aveva preceduto (o meglio: aveva preceduto i miei pensieri)  e mi aveva detto, in maniera pacata: ” Sono venuto da te perché ne hai bisogno. Come lo so non importa. Sbaglio o sei partito alla ricerca di te stesso e ti sei ritrovato qui?”
Avevo annuito prontamente e lui aveva ricominciato subito a parlare: ” Ti dirò la strada, anzi le strade. Ora tu devi uscire da due parti: da questa selva e dall’oscurità che senti appartenere alla tua vita. Sì, lo so che ti sembra impossibile, anche ritrovare la via per casa. Questa è facile: basta che continui a procedere in avanti. Entro pochi minuti si presenterà innanzi a te la strada principale, quella in asfalto. Non so se mi spiego. ”
A quel punto lo avevo interrotto. Va bene il monologo, va anche bene che mi stesse aiutando ma volevo sapere come sapesse tutto ciò di me e come facesse a darmi le indicazioni per ritrovare me stesso.
Come era accaduto fino a quel momento, mi aveva anticipato e aveva detto: ” Ti racconto una storia.
In un paese sperduto della Grecia viveva un uomo che cercava di conoscere se stesso. “Socrate!”- mi dirai-. Invece non era Socrate, ma un suo discepolo. Era un ragazzo di trent’anni circa e all’interno del villaggio aveva l’unico compito di conservare una candela, che aveva l’estremità coperta. Dalla mezzeria in su aveva una sorta di coperchio che la proteggeva. Gli avevano raccontato che era opera degli Dèi e che non andava smarrita; serviva che nessuno la sottraesse illegalmente. Erano passati gli anni e lui faceva in modo che quella candela non venisse rubata da nessuno. La cosa che gli sembrava molto strana era questa: si trovava in una stanza illuminata da altre candele, per il resto non vi era luce. E quella candela? Chissà se faceva luce o se era completamente spenta. Il dubbio che non fosse nemmeno quello che credeva, gli era venuto. In realtà pensava non emettesse alcunché, la credeva estinta da secoli ormai. Forse non era nemmeno un regalo divino, ma solo un modo per tenerlo lontano dalla città. Forse lo ritenevano troppo stupido per altri incarichi.
Un giorno però aveva deciso, con tutte le sue forze, che voleva vedere cosa ci fosse sotto, quale trucco o quale cosa si celasse al di sotto della teca speciale. L’aveva forzata, per quanto gli permettevano gli strumenti rudimentali che possedeva. Non appena l’ammasso di ferro era stato tolto, aveva visto una luce bianchissima e abbagliante, come non ne aveva mai viste. Una voce gli aveva detto: “Avevi il compito più importante: proteggere la fiamma che rappresenta la vita stessa, la tua vita. Capisci ora?”  Improvvisamente aveva compreso il senso del tutto e aveva trovato e conosciuto se stesso.
Questo significa che c’è la luce anche dove pensi che non vi sia nulla, una luce come mai la potresti immaginare. Questo significa che devi andare e scoperchiare tutto ciò che credi sia avvolto dal buio. Soprattutto scoprirai che, anche se penserai di non avere un ruolo importante, avrai in mano la tua candela che ti ricorderà quale funzione hai nel mondo: proteggere te stesso e non farti abbattere. Ora va’ e scopri i luoghi reconditi dell’animo in cui credi ci sia solo il buio, e trova la fiamma, l’ardore della vita.”
Detto questo si era avvicinato e mi aveva posato un braccio sugli occhi.
A quel punto mi ero svegliato e sentivo un male alla mano e non capivo. Non appena mi ero svegliato, però, mi ero girato nel letto e cosa avevo visto? Avevo visto la copia esatta di me stesso. Sì, proprio così.
Sul letto, sdraiato alla mia sinistra, vi ero io. E a destra vi ero sempre io. Per quanto bizzarro avevo intentato un discorso, tanto per approcciarmi a me. Forse quello strano uomo intendeva anche questo con “troverai te stesso”. Effettivamente a livello fisico avevo trovato un altro me. Gli avevo dunque raccontato, dopo i vari convenevoli, quale sogno avessi appena fatto e lui si era messo a ridere (anzi: io, quell’altro io, mi ero messo a ridere). Me stesso mi aveva risposto in maniera bizzarra e mi aveva detto che aveva fatto esattamente lo stesso sogno. Io gli avevo detto che il tizio che mi parlava assomigliava molto a Gesù Cristo. Secondo me era proprio lui.
Il “me” che stava di fianco a me, a sinistra, a quel punto non si era più trattenuto dal ridere. Mi aveva detto: “Cosa stai dicendo? Ma sei scemo? Gesù Cristo… Quello era John Lennon. Non hai capito che, se pur il testo non dica ciò di cui ti ha parlato, il titolo “Imagine”, canzone di John Lennon per l’appunto, ti inviti proprio a immaginare e a scoprire ciò di cui sei alla ricerca?”
Avevamo iniziato a disquisire riguardo quella teoria bizzarra. Lui rideva e mi diceva che lo stupido ero io, che era molto più probabile che nel sogno ci fosse uno dei Beatles e non Il Redentore, che la sua storia era molto più verosimile della mia. Io ribattevo dicendo che la sua era mera invenzione, solo il tentativo di convincersi che quello che aveva visto  fosse un’altra cosa. Gli avevo detto che pur di non abbandonarsi all’irrazionalità della fede, si abbandonava ad un’altra totale follia: cercare di fare sembrare sensato qualcosa di estremamente poco lucido.
L a conversazione si era fatta intensa. D’altra parte era comprensibile: io che sono aggressivo combatto contro me stesso che, ovviamente, deve essere altrettanto aggressivo. Una lotta per determinare “il re della foresta”.
Inutile dire che quella si sarebbe trasformata in una lite furibonda. Sì, proprio una lite al limite dell’umano. La sottile linea tra bestia e umano si stava assottigliando sempre più. Ad un certo punto mi ero alzato e avevo sbattuto la porta della mia stanza, così forte che avevo addirittura sentito male ad un orecchio per il rumore assordante. L’altro me stesso era uscito furibondo. Aveva aperto la porta che dava sul balcone e, arrabbiatissimo, furioso, mi aveva messo le mani addosso.
Violentemente e poi ancora più violentemente. Era chiaro che io dovevo reagire. Tra una cosa e quell’altra, l’io che inizialmente di sinistra e l’io che inizialmente era di destra si erano confusi. Erano ormai indistinguibili.
Poi era accaduto l’inevitabile. Uno dei due io aveva sbattuto l’altro contro la ringhiera del balcone. Quest’ultima si era completamente sfondata e… Ed ecco che uno dei due “me stesso” era caduto.
L’impatto a terra era stato rovinoso. Cadeva da un’altezza di dieci metri. Proprio nel momento in cui avevo toccato terra, però, era successa una cosa impensabile. Mi ero infranto come fossi un vetro sottilissimo e fragilissimo, si era sentito un rumore e a quel punto…
A quel punto mi ero svegliato. Ero nel mio letto e sentivo un po’ di male all’orecchio. Mi ero guardato in giro: la mia stanza era sempre la mia stanza e non vi erano figure strane. Non vi erano doppioni.
C’ero solo io, io e basta. Accertato che, finalmente, dopo una lunga notte, tutto era tornato alla normalità, avevo visto mia madre passare in corridoio. Mi ero alzato, le ero corso incontro felice, nonostante tutto.
L’avevo abbracciata e avevo capito che non ero più in un sogno.
L’altra cosa che avevo compreso era questa: io avevo sognato due miei alter-ego che avevano, a loro volta, sognato un me stesso unitario che aveva visto un uomo. Forse Il Cristo, forse John Lennon.
Stava di fatto che, dopo quel traumatico risveglio, non sapevo più a cosa credere. Aveva vinto la mia parte sentimentale o quella “razionale a tutti i costi”? Non potevo immaginarlo né dirlo con certezza. Avevo solamente una cosa da fare: seguire il consiglio di quell’uomo misterioso e vedere dove avrebbe portato.
Chi ero? Non lo so. Di sicuro avevo male ad una mano e il timpano doleva.