In un lunedì di agosto

Solo quando vidi che eri finito in una tazza di cappuccino di un lunedì di agosto, mi ritornò in mente l’inizio di quella mattinata pigra. Erano terminate le due settimane di vacanza e le mie gambe non volevano saperne, non c’era verso di alzarmi, la doccia era stata un’impresa disumana, mi sembrava che l’acqua trasportasse via una serie di scorie stratificate sulla mia pelle, mentre la mente si affollava in ricordi perduti, piegati dal vento. Il caldo era asfissiante. Dal balcone arrivava la cappa di calore che sormontava la città come un grande cappello, una luce bianca accecante riverberava senza sosta e riparai gli occhi sotto la mano. Preparai la macchinetta del caffè e, seguendo l’ordine di ogni mattina con la stessa velocità, presi la tazza e la tovaglietta dal mobile, afferrai il cucchiaino ed ordinai la tavola. Stavo già perdendo gli effetti benefici della vacanza, tra un po’ mi sarei lanciata sulle scale per andare al lavoro. Sarebbe iniziata la solita giostra di follie. Da sotto la pianta dei piedi partì una scossa, con un fremito di irritazione respinsi i soliti gesti ormai rodati e decisi di lasciarmi andare assaporando la lentezza dei miei movimenti. Dovevo arginare la mia solita rapidità. Lasciai che la mente si sciogliesse in pensieri liberi di fluire. Attraversando il passato tornai lontano: ricordi, immagini di paesaggi e di viaggi, la mia adolescenza, le battaglie dell’università, l’impegno politico, gli amori svaniti nella nebbia e le amicizie mature, occhi silenziosi che si incrociavano. Tutto si sovrapponeva e si confondeva nella mia vita attuale, finiva per sbiadirsi in un caleidoscopio senza contorni. Quello che si avvicinava scompariva improvvisamente quando stavo per afferrarlo. Provai la stessa sensazione di quando, da bambina, avevo sognato di tenere tra le mani un giocattolo tanto desiderato, ma al risveglio le mie mani serrate erano vuote, il giocattolo era scomparso ed io ero rimasta delusa. Allo stesso modo mi sentivo beffata dal mio mondo interiore che compariva e bruscamente spariva come se non mi fosse appartenuto. Un suono arrivava da lontano, era un rumore ovattato, con cadenza regolare e sempre più insistente, come qualcuno che dice “uelà sono qui, mi vedi, mi vedi”. No non vedevo, ma sentivo. Il telefono squillava senza sosta da chissà quanto tempo, feci una corsa verso la cornetta, ma era troppo tardi. Qualcuno si era preso la briga di distogliermi dai miei pensieri e non si era neanche degnato di aspettare, non avevo neanche la soddisfazione di sapere con chi prendermela. Nella stanza si spandeva un odore di bruciato. Pensai a quanto fossero impietose le caffettiere con quel mormorio che se non fai in tempo si trasforma in un borbottio sincopato, un vero e proprio rimprovero alla dimenticanza. Sul pianerottolo, il sali e scendi dell’ascensore annunciava le agitazioni dei condomini, mentre dalla strada il rumore delle auto annunciava metri e metri di regolare incolonnamento, l’impianto di condizionamento solerte attaccava e staccava il deumidificatore. Tutto complottava per portarmi alla realtà. Fui invasa dal ricordo degli impegni della giornata inanellati in una successione che non prevedeva pause. Ero in ritardo su tutta la linea che, prima di uscire, prevedeva: stendere i panni, aerare la casa, rifare il letto e fare colazione. Dovevo accelerare, avevo una fitta tabella di marcia da rispettare, non potevo distrarmi. Ma vedi che pensieri assurdi di prima mattina. Automaticamente versai quello che restava del caffè nella tazza di latte e, girando, girando scorsi prima un piccolo puntino, poi osservando meglio notai che forse non era proprio un puntino, ma eri proprio tu. Come avevi fatto a cadere lì dentro? Sobbalzai di stupore, che beffa, avevi sempre approfittato delle mie distrazioni per non concedermi pause, ed ora il distratto eri stato tu. Ridicolo, vittima della tua stessa arma. Girai gli occhi intorno, palpitava un senso di estraneità che dentro di me cresceva, tutto divenne distante. Mentre una parte di me si sollevava da terra e restava sospesa sopra la mia casa, l’altra restava seduta immobile. Mi osservavo dall’alto con un sorriso curioso di ammirazione per quello che stavo per compiere. Ero immobile, guardavo alternativamente fuori al balcone e dentro la tazza, ma dentro di me un radar scrutava l’interno e scandagliava il vissuto. Sentii diffondersi l’insolita calma di quando si rompe un equilibrio naturalmente e non violentemente. I nuovi equilibri, quelli che portano il seme delle trasformazioni, erano il frutto di lente maturazioni, e trovavano la loro forza in un percorso naturale. Non avevo mai ottenuto nessun risultato quando con la violenza governata dall’impeto mi ero obbligata a cambiare atteggiamento, a scegliere approcci diversi. Altre volte mi ero costretta a castrare quell’animaletto che era dentro di me. Lui si agitava in maniera pedestre e, anche se provavo a domarlo con i buoni propositi, era sempre in agguato. Osservava i miei sforzi, sapendo che erano inutili e con sufficienza faceva spallucce bofonchiando. Le poche volte che perdeva terreno restava imperturbabile e, riconquistato il suo territorio, ridacchiava portandosi una mano alla bocca per soffocare l’eccesso di riso. Alla fine non resisteva e, saltando con gioia, esultava scoppiando in una risata prevaricatoria chiassosa e volgare. Sapeva che il suo nemico più grande era la lentezza, così, ad ogni trionfo, le sbandierava sotto il naso il suo vessillo e, non ancora pago, come un futurista impazzito, intonava l’inno della velocità. Ogni volta che mi riproponevo di decelerare, di lasciare decantare un pensiero, un’immagine, un ricordo, Lui si sollevava, si inquietava e sbraitando superava con un balzo il burrone orrido del pensiero per correre furiosamente nelle lande delle innumerevoli cose che dovevo portare a termine, iniziare o sistemare. Come era strano, adesso, vederlo nuotare indifeso verso le pareti della tazza. L’occasione era propizia. In un primo momento, pensò che scherzassi, che lo avessi lasciato cadere giù per dispetto. Si rassicurò pensando che era sicuramente una delle mie bizzarrie passeggere, poi mi sarei calmata e, tirandolo in salvo, gli avrei sorriso. Annaspò nel latte ridacchiando divertito da tanta stranezza, lo solleticava l’idea del mio umore sempre un po’ instabile. Nonostante il suo incessante lavoro su una parte del mio carattere, io resistevo ed ogni tanto mi inquietavo. Alte proteste e scontri vivaci, ma alla fine cedevo, cedevo sempre. Ma che idea! Farlo affannare in un insignificante tazzone di latte, come mi era saltato in mente. Bonariamente mi osservò come una bambina che compie una mascalzonata e che non si ha il coraggio di rimproverare seriamente perché ci viene da ridere. Io lo guardavo, in silenzio: non giocavo. Deve essere stato allora che cogliendo il mio viso inespressivo comprese che non era uno scherzo né un dispetto, tanto meno una semplice tirata di testa. Era vero, anche altre volte avevo provato a tradirlo, ma poi mi invitava alla riflessione ostentando i successi che avevo raggiunto anche grazie a Lui. Con orgoglio ribadiva che potevo ritenermi soddisfatta: la mia vita era appagata, docilmente incanalata verso il buon senso. Quando c’era il rischio di qualche tumulto svelto correva ai ripari scongiurando il pericolo, in fondo non avevo mai osato minacciarlo seriamente. Constatando la mia indifferenza rimase sbalordito e la sua sicurezza diede segnali di cedimento. Smise di ridere e languendo disse:

– Ma che fai, mi abbandoni qui? Come puoi farlo senza preavviso?

Conoscevo la sua destrezza: provava a farmi ragionare facendo leva sui miei sensi di colpa, su quella parte morbida del mio sentire.

– Non puoi scegliere un momento diverso? Non c’è bisogno di azioni così forti. Puoi sempre barattarmi in procinto di morte, o in caso di pericolo imminente, o cedermi in cambio di una vincita.

La sua espressione divenne incerta e si irrigidì. Sollevò il lato sinistro della bocca mentre chinava il capo dal lato opposto.

– Perché proprio adesso, così all’improvviso ed, accidenti, senza motivo?

Insisteva cercando scampo strappandomi qualche risposta. Un leggero tentennamento poteva essere l’ancora di salvezza, provò a far leva sulle mie paure, sapeva bene quanto fosse difficile la separazione. Ci credo che era sbalordito. Doveva essere inimmaginabile, dopo tanti anni di servizio, finire annegato in una tazza di latte non era onorevole. Piegai anche io la testa da un lato, i miei occhi lo osservavano senza quasi vederlo più, l’indifferenza sostituì le paure. La sua immagine lentamente sbiadiva e iniziò a divenire quasi trasparente, dietro di Lui intravedevo il colore tinto del latte. Allora, con un gesto spontaneo, iniziai a rovesciare nel latte i corn flakes. Il tonfo dei corn flakes sollevò onde di latte intorno al furetto. Si dimenò con tutte le sue forze cercando disperatamente un appiglio per stare a galla. Senza pietà immersi il cucchiaino nella tazza e girai piano, latte e cereali si sovrapposero. Nonostante i risucchi formati dai vortici riuscì a salire su un’esile zattera di cereali, piantò saldamente i piedi e, grondante di latte e caffè, alzò il pugno minaccioso verso di me digrignando i denti furioso.

– Mi devi salvare! Urlava.

Le parole uscivano a raffica e non sempre riuscivo a coglierne il senso, ma sapevo bene quali fossero i suoi argomenti di persuasione. Era convinto che senza di Lui fossi persa. Sfrontatamente cominciò incautamente a sbattere i piedi sul fondo del guscio di cereali.

– Smettila e tirami su! Strepitava stridulo.

– Non puoi continuare a rovesciarmi addosso il contenuto di quest’inutile scatola.

Vedevo la sua bocca spalancarsi e richiudersi serrando i denti. Con un gesto di stizza asserì furibondo:

– Lo sai anche tu che non hai il coraggio. Tra un po’ mi risolleverai e mi ricollocherai dentro di te. C’è un posto d’onore che mi hai riservato, mi spetta, me lo devi.

Non feci una piega, quel tono minaccioso mi intristì: come avevo potuto consentirgli quella spavalderia.

– Ti pentirai di avere osato tanto. Smettila. Stai superando ogni limite.

Non lo avevo mai visto così.

– Mi senti? Smettila, tirami su e chiedimi scusa. – Tuonò.

Eh no, era davvero troppo, la sua spocchia era intollerabile. Fu allora che sporgendomi bene sul bordo della tazza, lo vidi in tutta la tua miseria. Era forte di aver condotto la mia vita come un razzo, di aver reso infaticabile le mie membra e la testa sempre vigile. Era a Lui che dovevo i sensi sempre all’erta, sempre a Lui avevo concesso tutto lo spazio del mio essere. Certo doveva sentirsi tradito ed umiliato precipitando nella mia tazza di latte in quello che secondo Lui era un qualunque lunedì mattina. Ma quella non era una giornata qualunque. Quella notte avevo sognato che il mio corpo era stato invaso, scavato, da enormi voragini che si proiettavano sull’abisso, per poi scomparire. Sentivo da troppo tempo che una sterilità riflessiva mi inchiodava senza scampo ad una comoda quotidianità, non mi interrogavo più. La mia parte più vitale era appiattita dalle consuetudini e mi aggrappavo ad un’amorfa indifferenza, in un susseguirsi di giorni sempre uguali, per non guardarmi allo specchio. Si riducevano sempre di più quei momenti di pausa dalla realtà in cui sentivo che fosse necessario un nuovo approccio alla vita. Stavo rinunciando a prendermi cura di me abbandonando ogni domanda, ogni sfumatura, correvo senza sosta, correvo sempre per non pensare. No, per Lui non c’era più posto, dovevo abbandonare il futurista distorto che mi accompagnava, ricondurlo a più miti consigli. Dovevo necessariamente ucciderlo. Ma non era sufficiente annegare il furetto, per questo sarebbe stato sufficiente riempire il lavandino o la vasca ed a tradimento farlo scivolare lungo le pareti lisce di ceramica. Quel furetto faceva parte di me, dovevo separarmene, e riappropriarmene per rielaborare le sue storture ed indirizzarle verso nuovi orizzonti. Eliminare il marcio e conservare il sano. Ucciderlo e seppellirlo non era la soluzione, così non me ne sarei liberata completamente. Considerato che l’alba di una nuova fase poteva iniziare solo al mattino, migliore momento della giornata, decisi di annegarlo nel cappuccino e mangiarlo per colazione. Ci avrebbe pensato il mio organismo, come aveva fatto in altre occasioni, a mettermi al riparo dalle parti deteriorate, assorbendo e metabolizzando solo la parte sana. Iniziai a girare velocemente, rimescolando latte e cereali, il vortice centrale lo risucchiò trascinandolo sul  fondo. Prima di annegare lo vidi annaspare, nell’ultimo tentativo di aggrapparsi, circondato dai corn flakes. Così, mescolato tra il latte ed i corn flakes, lo sollevai con il cucchiaino, lo fissai e lo masticai lentamente a lungo prima di ingoiarlo. Non avevo più bisogno di impormi nulla, erano maturi i tempi per la trasformazione, la pelle spessa e protettiva della certezza mutava, mi rimpossessavo di me.