Sic  transit gloria mundi….

Un’ aiutante parrucchiera di 17 anni, sguardo tra il dolce e il provocante, corpo visto solo nelle riviste per adulti, astutamente sottratte ad uso personale nella bottega di un compiacente barbiere, resta, tra le nebbie dei ricordi, l’avventura più significativa di quegli anni che oggi definisco “metafisici”. Conservo ancora una sua foto leggermente consunta, nel cui retro si legge “Ti amo, per sempre tua Claudia”. M’è rimasta solo la fotografia! Era più esperta del sottoscritto, aveva sperimentato in un paio di occasioni l’amore di un uomo e ne pareva paganamente compiaciuta. In genere le ragazze della sua età erano devastate dall’acne o da un profluvio di brufoli, lei no. La pelle si presentava perfetta e di ciò menava giustificato vanto. Gli occhi verdi incastonati in un viso arguto e francamente di una straordinaria bellezza gitana, ti catturavano all’istante, inducendoti a fantasticherie piuttosto distanti dalla decenza. Labbra disegnate da Eros in persona (quelle, per intenderci, che oggi dive e divette agognano), un seno di marmo pario, gambe che a guardarle non sarebbe bastata un’intera nottata, piedi arcuati cui un civettuolo smalto avorio conferiva un alone che solo un monile prezioso sa emanare, fianchi ben torniti che invitavano ad una presa inebriante e selvaggia: potevo non innamorarmene? Allora frequentavo l’ultimo anno del liceo classico e gli impegni di studio erano assillanti; lei aveva un’intelligenza naturale che solo le difficili condizioni economiche avevano compresso in un lavoro di bassa manovalanza. Spesso diceva di invidiare il mio essere studente di un liceo ( a quei tempi un liceale era il sogno del terziario femminile! ), avrebbe voluto studiare e io le prestavo libri su libri che venivano divorati con indubbio profitto. Era l’età dei sogni e io sognai!

Vista la mia titubanza verso una sessualità adulta (in effetti la sua prorompente fisicità mi attraeva e mi imbarazzava ad un tempo; così, confinato in eterni ludi preliminari, il nostro erotismo restava all’acqua di rose), decise che il “classicista” imparasse davvero l’ars amandi; a tal fine, mentre si era in camera mia tra mille cachinni, resasi conto che l’occhiuta vigilanza del parentado pareva esser venuta meno, iniziò sulle note di Summertime uno spogliarello da ridestare i defunti; mi si avvinghiò sussurrandomi cose, proposte e richieste che “il tacere è bello”. Conobbi il paradiso e buona parte dei suoi angeli. Evidentemente feci la mia parte, se abbracciandomi giunse alle mie orecchie, quasi soffio vellutato, eppure tagliente come la spada di un samurai un “ ti amo e ti amerò per sempre”. Provai, allora, quello che descrive San Paolo mentre saliva al terzo cielo!

La nostra storia divenne  concreta e umana; è vero che la pagella di quel trimestre fece pena, ma mi sentivo ampiamente giustificato: lei mi amava, io la ricambiavo; fu così che m’illusi di avere debellato la precarietà. Eravamo giovani, pieni di vita, e io ( pensando ai frequenti litigi dei miei) l’adoravo, trattandola come una regina e mettendola sempre al centro di ogni mio pensiero o emozione. Claudia fece di me un essere desiderante. Ogni volta che la vedevo m’incantava; non mi sono mai più sentito così in sintonia con l’universo. Quante ore, durante quell’anno indimenticabile, trascorse a dipingere il nostro futuro, a immaginarci felici assieme! Finalmente lontani dalle interminabili discussioni familiari, quadro fosco di una convivenza maculata da rancorosi livori.

Il professore di greco ci parlava delle  erotikà  pathèmata, le sofferenze d’amore, ed io mi chiedevo stupito come fosse possibile patirle, vista la gioia infinita che l’amore mi regalava. Dovetti poi capire sulla pelle quel che m’era parso tanto strano! Un giorno, finito lo studio, mi recai nel negozio dove lavorava per salutarla e aspettare che finisse, ma la titolare mi comunicò di averla attesa inutilmente, non s’era vista. Allarmato corsi a casa sua, e qui appresi sconvolto che da tempo aveva una relazione con un architetto di Milano; quella mattina lui se l’era piratescamente portata nella sua terra lombarda per sposarla. Credetti  di morire e in effetti  buona parte di me subì tale sorte. Con risibile sussiego mi fu consegnata una lettera di lei. Non osavo aprirla, ero al crollo totale. La lessi in quello stesso letto dove tante volte avevo provato invano ad immaginare una felicità superiore alla mia, dove il suo fantastico corpo aveva lasciato ancora il tepore di abbracci felici, dove avevo creduto che le parole fossero cose e non ingannevoli suoni. “Forse un giorno capirai e mi perdonerai”. Liquidati i sogni con questa frase telegrafica e sibillina,  ricordo che tre cose mi attraversarono le fibre: le parole del professore di greco, i miei che si volevano separare e quel “per sempre tua” della foto tessera; mi sentivo una pietra scagliata in un baratro e quella prima di tante notti insonni mi insegnò ad abbracciare un’ombra. Ero ancora un ragazzo, ma il dolore e l’affanno erano già quelli di un uomo. Col tempo ho perdonato, ma non ho mai capito. Oggi, in là con gli anni, stanco e deluso, capisco, ma non riesco più a perdonare. Anche la generosità invecchia.