Dolce Compagna di Primavera.

Luci hanno ancor negli occhi miei i tuoi occhi di ragazza incantata

davanti al Grande Monte che la Terra scolpì sul nostro orizzonte.

Pietre d’alabastro, oro verde e argento puro fuse nell’impasto.

Guarda! ­ Mi dicevi­ Il Gigante qui posa dormiente.

Dall’ermo colle vedo invece che erge il capo affonda la fronte

nei silenti spazi celesti, oltre l’urlo delle tempeste.

Non sono stellati fiori di cristallo, le fragili nevi dissolvono.

Lacrime di rugiada gonfiano il cuore di Gemma, madre generosa

Ricordi?

Ci destavano per andare a scuola appena Aurora levava ali iridate

a frangere nell’oro e nel viola il cupo spessore della notte

Pungevano le ore mattutine lungo il corso, i vicoli e i viali.

Tra salde braccia ci accoglieva la bianca piazza, porto sicuro

della cultura. Onda irruente, alta marea e marosi

il moto vorticoso degli studenti rifluiva lento.

Nel chiuso rigore dell’aula mi scaldava il lampo del tuo sorriso

sotto la frangia corvina dei capelli nell’assorto pallore del viso.

Rammenti nostra solitudine adolescente? S’apriva a primavera

ai nuovi ritmi d’oltralpe.

Malinconie scioglievano al sole impalpabili vele.

Attese deluse rifiorivano nell’aria leggera di una canzonetta:

“Tous les garçons et les filles de mon ậge”

“Quelli che hanno la stessa mia età…hanno tutti qualcuno d’amar.”

Nuovo lucente è il giradischi incantato, ma l’incanto s’è spezzato.

Sette anni ho bussato alla tua porta. Per sette anni in sogno tornavi

raggiante, mi dicevi: E’ possibile vincere la terribile malattia.

Ma quella mattina chiara e trasparente con impeto volò il vento

a sperdere lontano domande trepidanti, tremiti di verdi ciglia

Rami lasciò spezzati e braccia vuote.

Tenero germoglio, t’accolse il grembo roccioso del paese natio

Dormi ai piedi del Grande Monte

Nelle notti di plenilunio odi ancor melodie di corde d’argento.

Il soave canto ti culla di Ivan, nostro menestrello:

” Grande Sasso, che parli con le stelle,

le lacrime che asciughi sono sempre quelle.”


 

IL CANTO DELL’AMALASUNTA

Nell’ora più profonda che il brillio astrale rischiara, quando nostalgia

t’assale di lontani mondi, odi il canto della notte, l’elegia.

Freme l’anima, nei trasalimenti annienta la fuga dei soli.

Meteore desideri accendono, desideri incendiano. Scie luminescenti

piogge di gemme e rivoli di perle fiumi furono di lacrime e sudori.

Quanti tesori negli scrigni, nei templi incastonati e solchi seminati

lasciarono passate ere, non immemori negli occhi ardenti delle stelle.

Nel dominio immenso della notte viola stupirai al pallore del volto .

cifrato. Candida la mano dalle brume affiora, brume sfida, fuga e,

sfiorendo nel segno del cuore, di rosso rovente le tenebre indora.

Quando dalle remote fonti della notte a stille le note zampillano

nei tremuli calici del vento, arpe e violini hanno corde d’argento

i flauti effondono malie, t’attraversa, attraversi la mia nostalgia.

Di un diverso avvenire nostalgia, nella dolce terra natia.

L’ora del fato che la notte cela, l’inquieto specchio del lago svela:

nei gorghi scuri, bianco lume s’immergeva la luna, fra le braccia

m’accoglieva. Sciolta dai massi grevi, sciolta la corona di trecce d’oro

nel tremolio dei raggi sul fior dell’onda mi cullava, mi culla ancora.

L’elmo prezioso del messaggero di pace, del cavaliere più fedele

dov’era palesai in sogno a Divinangelo contadino: sotto cespi di rose

giacque tra le fulve zolle del colle, fronte al verde mare degli avi.

Quando sulle acque immote tornano a sciami i fantasmi dei Goti,

la voce risale dai fondali. Voce di Regina veggente. Voce chiara,

non soffocata da paura non lamenta l’attimo più duro: ombre cupe

sulle nivee ali del cigno reale, ingiurie d’ombra obliavo nei lampi

della mente, non le sventure pendenti su Teodato, re spergiuro.

Di fugare la guerra non più mi fu dato!

Questa voce mai placata nelle tormente dei tempi, rovinosi

sulle mie genti E oltre, in volo nel respiro lungo del futuro,

in volo sulle criniere dei venti, sulla spuma delle onde

fra fremiti di fronde per boschi errante e cavità di monti,

profetica ancora sarà, e fu, voce arcana di Sciamane e Sibille,

del limpido pensiero di Ipazia scintille.

Questa voce mai arresa nel coraggio delle madri parla, incita

e grida nel coraggio delle passionarie, rocce turrite scolpite

sulle barricate della storia e sulle barricate della vita.

Silente nell’interiorità della mente di asceti e filosofi sapienti.

Soave sulle labbra oranti delle clarisse che nel chiuso recinto

dei chiostri abbracciano l’ infinito.

Per la vita perduta, il sogno, il naufragio del sogno ­ armonia

e ori nel Paese del Sole – ancora e ancora questa voce scioglierà

in melodia l’ebbrezza del pianto nel dolce canto di Jauffrè Rudel.

Voce pura, eco della notte, dal fondo della notte redenta dai zefiri

sereni nelle sere di primavera,

solitudine d’assiolo carezza di brezza non consola.

A tarda ora veglia la tua porta socchiusa, in ascolto assorta.

Entra un lampo di luna, nel raggio vibra il canto, ha la tua voce.

Nel tuo canto rivive la mia voce.

 


Lola e il chierichetto

Lola, narratrice, insegue un sogno d’amore

Il chierichetto corre sempre, ha tanta fretta

Don Lorenzo, parroco di Montepagano

Vittorio Perozzi, il maestro

Gianpiero, giovane ortolano

Caterina la Rossa, pescivendola

Nicolino, marito di Caterina

Ricuccio, cantiniere

Mariella, futura sposa

Antonio, futuro sposo

Splendora e Funzino, genitori di Mariella

Armando, sarto amante del bel canto.

Pietro, primo figlio del sarto.

Teresina, futura suocera di Mariella.

Gaetano e Luciano, animatori della Comunità Giovanile di Montepagano

La band “I Nostri” organizza “La Stellina D’oro”

Il maestro Francesco cura e dirige i cori.

Gli Escatoi realizzano la messa beat: Rocco alla batteria, Antonio alla chitarra,

Attilio ai tasti, Vincenzino e Camillo al basso, Suor Anna Rosina all’Armonium,

Nunziatina , cantante solista

Antonino procura il furgone per i volontari nell’Irpinia terremotata

I giovani della cooperativa Cento Fiori e di Radio Popolare di Roseto impegnati

in attività culturali, concerti, inchieste, feste popolari

Cipì, Cipetta, la bambina che si è fatta grande

Il terzetto girovago in terra d’Abruzzo

1

“Quale allodoletta che in aere si spazia

prima cantando, e poi tace contenta

de l’ultima dolcezza che la sazia”

Pomeriggio di primavera. Siedo al limite dell’orto su un tappeto d’erba, all’ombra

del grande mandorlo. Spicchi di sereno occhieggiano tra i rami carichi di teneri malli

e foglioline nuove. Ho davanti la fronte chiara del soffitto di casa e la finestra aperta

sul tetto rosso granata.

L’antico casamento e le sue recenti diramazioni sono balconi incastonati nella

roccia del colle. Vi si affacciano gli spiritelli del luogo, allungano il collo, muovono

le antenne in varie direzioni, prima di spiccare il volo incontro agli spiritelli del

tempo per intrecciare nuove storie e avventure.

La casa nuova appare inquieta. Invadente, attraverso aiuole, file di cachi, ciliegi,

meli, melograni e frange viola di carciofi si allunga a sfiorare l’ariosa cima del

poggio, mia postazione preferita. Campi di grano prossimo a spigare verdeggiano

sul pendio fino al fosso che inghiotte il torrente Versacchio e corre, serpeggiando

verso il mare.

Paga del tepore dell’aria e della calma luminosa del prato, apro il libro, mi tuffo

nella lettura. Scivolo in altri mondi, riemergo un’ora dopo. II sole è ancora alto, il

cielo appena velato. Mi sdraio sull’erbetta aromatica, abbasso le palpebre, le riapro

attratta da un fruscio in mezzo al grano.

In un battito di ciglia il lampo d’un volo fulvo si leva da terra e fende l’azzurro. Non

mi sorprende. L’allodola ritardataria fa ancora in tempo a costruire il nido, deporre le

uova, covarle, trarre i piccoli dal guscio e crescerli dentro i solchi, al riparo delle

piantine in poppa. Dovrà affrettarsi a svezzarli e a sloggiare prima che il sole indori i

campi e attiri squadre di contadini con larghi cappelli in testa e con le falci in mano,

certi alla guida di mostruose falciatrici rombanti. Quando si gettano sulle spighe

mature le recidono a fondo, senza pietà. Passano in seguito le donne a spigolare a

tappeto, nuda lasciano la terra, trafitta da sterpi.

Attendo il volo del ritorno immobile, in religioso silenzio, non voglio disturbare.

Cullata dai raggi del sole che filtrano a fasci tra i rami scivolo in altre dimensioni.

1

Uno scatto del capo, apro gli occhi, cerco nel buio tra cielo e mare quel vago chiarore

di perla. Sono più che sveglia, elettrizzata dalla brezza che spira tra il colle e il lido.

Bisbigliano le fronde, tremano i fili d’erba, ombre lunghe e giganti fuggono lungo i

sentieri campestri.

Avverto formicolio in petto e batticuore. Un grido mi sfugge dalla gola. Mi levo,

fuggo quasi. La luna è una falce sfocata che tramonta tra le ultime brume della notte.

Raggiungo il palazzo antico, mi aggiro guardinga su questo balcone, rosso di gerani.

Luccicano umide di rugiada le briciole di pane che lui sparge ogni giorno sul terriccio

dei vasi, tra i fiori. Getto una voce e mi allontano. Torno indietro, ripeto il richiamo.

Nessun movimento, nessuna risposta. Non resta che aspettare, spero che si svegli in

tempo e non manchi all’appuntamento. Non so stare ferma, faccio un rapido giro

attorno al paese, arrivo davanti alla chiesa.

Esce la processione, don Lorenzo in testa. Spicca sul sagrato l’imponente figura

nell’ampio piviale rosso. Sullo sfondo della piazzetta la valle sfuma in una vasta

voragine grigioverde. In lontananza si stagliano le quinte dei monti. Solenni, uguali a

un coro di sacerdoti nei sontuosi paramenti bianco viola. Ai loro piedi si sgrana il

rosario dei poggi ancora avvolti nei veli della notte. Tremuli come le stelle in cielo le

luci dei paeselli sparsi sulle terre alte. Il parroco avvia la processione, intonando le

Litanie Maggiori(1). Lo affiancano il sacrestano e i chierichetti con l’aspersorio e la

croce, dietro si muovono le suore di Sant’Anna in bianco e nero con fruscio delle vesti

e calpestio discreto dei passi. Spiccano in primo piano i confratelli e le consorelle del

S.S. Sacramento con lo stendardo fiammeggiante, le casacche bianche, le mantelline

rosse. Seguono gruppi di donne infreddolite negli scialli e nei colorati fazzoletti di

lana. In coda gli uomini con i baveri dei pastrani rialzati sul collo.

Il corteo mentre si snoda lungo il corso accoglie altri paesani che sgusciano dai

vicoli e dai portoni. Lui non c’è. Lo cerco con frequenti scatti del capo. Neppure

l’ombra. Avrà fatto tardi ieri sera sui libri e non ce la fa a mettersi in piedi così presto.

La processione entra in piazza del Municipio. Solita sosta con benedizione, riparte

verso Porta da Sole(2). Conosco il percorso. Si fa un lungo giro dentro e attorno al

paese, una sosta nel rione del Borgo, si torna indietro, si esce da Porta d’aùra (3)

sul largo viale che conduce alla chiesetta di San Rocco, ultima tappa sul poggio più

alto del paese. Non è esclusa una puntata in contrada Fonte Lacollo.

(1) Le Rogazioni si recitano nel giorno di S. Marco (25 aprile)

(2).Porta Santa Caterina;

1

Lo vedo, il cuore mi salta in gola. Esce di volata dal portone del palazzo, imbocca

corso Umberto, in vista della chiesa spenta silente, torna indietro, una furia. Mulinello

di ginocchia ossute scoperte dai pantaloni corti. Il ciuffo gli balla sulla fronte, ha le

guance arrossate. La sciarpa rossa di lana, fatta ai ferri dalla madre, gli svolazza

attorno come una bandiera. E’ abituato a portarla, quasi una seconda pelle, obbligato

dall’aria fine. Sovente spira la curine (4) su questo colle affacciato sul mare.

Arriva trafelato al centro della piazza , si ferma di botto, si guarda attorno dubbioso.

Immagino le domande che si sta facendo. L’ansia lo divora. Vorrei aiutarlo ma lui,

pressato dal rigore di troppi compiti e doveri, non sente la mia voce, né il grido che mi

sgorga dal cuore.

Si decide. Sfila dal sacchetto appeso al braccio la tunica di candido lino con intagli e

ricami, se la fa scivolare addosso. Resta un attimo perplesso, gira la testa a destra, a

sinistra. L’onda dei canti e delle preghiere riecheggia tra le mura degli antichi edifici e

si perde dentro il groviglio dei vicoli. Alta risuona la voce del parroco:

“A flagello terremotis”(5)

I fedeli rispondono :“ Libera nos, Domine”

Don Lorenzo tuona: “A folgore et tempestate”.

Il coro completa l’invocazione“ Libera nos, Domine”

Il chierichetto capta parole e frasi che conosce, non realizza dove al momento gira la

processione. I contadini collocano croci di legno ornate con fiori di biancospino nelle

vicinanze dei campi, obbligando il prete a soste non previste e a impartire ripetute

benedizioni.

L’amico mio non sa in quale direzione precipitarsi per raggiungere rapidamente gli

oranti. Odia i ritardi, divorato dalla premura di arrivare per primo sa d’essere il pupillo

del prete ma ha dovuto guadagnare sul campo la posizione, arrivando in anticipo a

servire le messe mattutine e serali, a portare la croce e l’aspersorio con l’acqua per

cerimonie e riti vari di battesimi, cresime, comunioni, matrimoni, funerali, feste

comandate e feste paesane, sacre rappresentazioni e messe domenicali nelle frazioni

di Casale Thaulero e di Santa Lucia.

Don Lorenzo cura molto la liturgia che ritiene essenziale nella gestione del sacro, una

mano santa in grado di contenere le ondate d’angoscia che sovente si riversano

(3)Porta Borea

(4) libeccio

(5) fraseggio in latino compreso perfettamente dai paesani e dai contadini

1

sul cammino degli umani. Quando viene chiamato al capezzale di un malato grave

manda il sacrestano a scuola e il maestro Vittorio Perozzi, pur essendo laico convinto

e il primo comunista di Roseto, lascia andare di buon grado l’alunno per la stima che

nutre nei confronti dell’autorevole curato.

L’amico mio, smilzo e piccolino di statura, salti mortali ha dovuto fare ­ io appresso

ad assisterlo col cuore in gola­ e ostinati tentativi per imparare a suonare la campana,

afferrare la grossa fune, regolare lo slancio e i movimenti, senza farsi trascinare in alto,

né sballottare tra le pareti della torre campanaria.

Presente nella mia mente come fosse ieri la prima volta che riuscì nell’impresa. Si

piazzò deciso di lato alla campana, artigliò con mano ferma il cilindro del batacchio e

nell’accompagnarlo contro il bronzo, accordò a perfezione slancio, spinta e ritmo,

oscillando con il braccio e il corpo. Esplose il suono nella perfetta sequenza dei

tocchi e rintocchi. Mi misi a saltellare e a cantare come un’oca giuliva. Finalmente mi

vide. A conclusione di una fragorosa risata mi guardò con occhi spiritati, la faccia

lucida di sudore. Gridò: “Lola, Lola, sì, ce l’ho fatta! Olè, olè!”

Pensare! Proprio stamani all’amico mio tanto volenteroso tocca fare la più brutta delle

figure, mancare alla processione delle Rogazioni! Non è possibile, deve esserci a ogni

costo e, se ben lo conosco …

Lo vedo spiccare una corsa verso l’arco, torna indietro, svolta a destra, poi a sinistra,

imbocca la strada giusta. L’aria è già meno bruna.

L’alba è vicina, ne sento l’alito, la sferzata potente. Più forte urge la spinta dentro

me. Irresistibile! Non posso più contenere l’anelito, lo spasimo. Vibro in ogni fibra del

mio esserino. Mi si drizza a raggiera la cresta in testa, mi dilato a ventaglio e mi tuffo

nel blu.

Volo alto, acuto un trillo mi fugge dalla gola, sale a spruzzi scintillanti, ricade a

cascata, si ripete, s’allunga, ondeggia, è una scia d’argento, la seguo rapita nell’aria

viola. Accanto già mi volteggiano le sorelle, in coro cantiamo l’inno al nuovo giorno,

alla piena d’oro che viene da lontano, invade l’orizzonte. Le acque turchine tremano

dal profondo e si frangono in miriadi di brillanti, smeraldi, rubini.

Vertigini di gioia, capogiri, giravolte, canti a squarciagola. Una pausa infine. Per noi

volatili, messaggeri del mattino, è giunto il momento di zittire e di acquattarsi tra il

verde. Di nuovo risuonano nell’aria antiche parole nella lingua dei padri:

“Ut pacem nobis dones.” / “Te rogamus, audi nos.”

“Ut fructus terrae dare et conservare digneris.” / “ Te rogamus, audi nos.”

1

I fedeli pregano in ginocchio davanti alla chiesa di San Rocco. Don Lorenzo solenne

sta come gli antichi sciamani, come i sacerdoti druidi in faccia ai quattro elementi e ai

quattro venti. Luccica tra le sue mani la croce d’argento che porta sempre più in alto

con slanci ripetuti delle braccia, mentre invoca con tono crescente di voce la protezione

divina sui campi, sul raccolto, contro le calamità naturali e contro le sciagure umane.

Il chierichetto arrivato ultimo, tosto piazzatosi al solito posto lo guarda rapito. Io, che

a questo amico mio leggo il pensiero, afferro a volo la frase appresa dalle sacre

scritture che gli sgorga di getto dal cuore :

“ Tu es sacerdos in aeternum, secundum ordine Melkisedech”(6)

Scatta tra noi una conversazione mentale :

“Guarda­ mi dice ­ le spighe ondeggiano, si inchinano, partecipano al rito”

“ Il mormorio delle preghiere pare propagarsi attraverso le increspature di questo mare

di frumento, lucente di guazza che scende lungo il pendio fino a sfiorare il velluto

delle pinete stese a macchia d’olio sul biondo arenile”

“Guarda quelle macchiette chiare! Sono le case dei marinai, costruite su un solo piano

con i mattoni delle fornaci. Hanno ricami di luci e ombre, una pianta di fico, una di

nespole, pergole e cespi di rose nel davanti, barche e reti stese al sole ai lati

“ Visuale perfetta dall’alto della nostra postazione! Nella luce rosata degli albori

spicca il il lungomare alberato con pini, tamerici e il verde dei parchi .”

“Bella Roseto con i parchi attorno alle ville. Le case tutte fanno a gara a ornarsi di

variopinti giardini affacciati sulle vie larghe e dritte che si incrociano a scacchiera.”

“ Che dire delle palazzine liberty? Uguali a una sfilata di eleganti dame della belle

époque posano attorno alla stazione e alle piazze principali”

“Lo stile rustico domina allo sbocco della valle, nel mosaico di orti recintati e casolari

di ortolani. Giù partono file di pini, cespi di oleandri e rose che costeggiano il tracciato

della ferrovia. Oltre la statale adriatica si ripete la fascia di ville, parchi, case, piazzette

su cui si aprono negozi, botteghe di artigiani, empori e locande.”

“Ai piedi della collina corre la frangia dei grandi alberi che reggono il carico della

friabile scarpata su cui si aprono tre squarci e fumano altrettante fornaci. Olmi e pini

radicati a ridosso dell’abitato lo arieggiano e proiettano su terrazzi,vie e giardini le

loro ombre balsamiche e nostri canti, voli e danze d’amore.”

“Ciò che più m’incanta è il mare. In cima a questa collina l’occhio si perde dentro

l’azzurra profondità coperta di increspature lucenti come serici tendaggi e broccati”.

(6) Vecchio Testamento salmo110, 4, versetto riferito al re David.

1

Tacciamo come ipnotizzati. Spunta il sole, il disco arancione si riflette immenso nelle

acque, l’attimo prima di sbalzare in alto, scivola d’un passo lungo la linea sottile che

separa la Terra dal cielo. L’abbaglio di un veliero carico di ori e pietre preziose appare

e scompare all’orizzonte. Arrossiscono le onde, poi impallidiscono e ancora si

colorano, sopraffatte dallo stupore che ogni giorno si rinnova. Dalla parte opposta

fumano le cime dei monti volute leggere che un vento impertinente scompiglia in

ghirigori dai riflessi rosa e grigio argento. Cirri capricciosi nascono, si rincorrono,

s’azzuffano. Il sereno si vela, ma sono nuvole passeggere, nuvole di primavera.

Scendo in picchiata dentro il centro abitato. Sosto sul filo della luce sospeso tra due

pali piantati ai lati di questo slargo, teatro di fiere mensili e mercati settimanali. Un

quadrato di terra battuta,“Piazza del grano”(7) contigua a piazza della verdura. Qui si

incontrano e scambiano prodotti pastori, ortolani, contadini e gente di mare.

Bazzico spesso da queste parti, è facile trovarci la grazia di Dio, legumi, granaglie.

Delle manciate sfuggono dai sacchi durante le operazioni di compravendita, sui chicchi

sparsi per terra si precipitano schiere di formiche. Nessun problema! Ci pensiamo noi

sorelle e quegli uccellacci neri che si celano nei boschetti qua attorno, facciamo a gara,

ci azzuffiamo nell’affrettarci a ripulire tutto per bene.

La piazza è ancora deserta. Non vedo l’ora che si riempia di gente, voci, odori

mercanzie, colori. Lancio il richiamo. Una, due volte. Insisto.

Mi risponde un fischio. E’ Gianpiero, ortolano mattiniero. Viene avanti con il carretto

sul sentiero che taglia la scarpata, punta verso la piazza. Giovane scamiciato, berretto

calato sulla capigliatura ricciuta pare trastullarsi col carico, ora lo spinge avanti con un

braccio, ora se lo trascina dietro come un codazzo, mentre fischietta un motivetto che

non vede l’ora di cantare a squarcia gola, tra poco lo farà.

Si sbrighino le belle signore e le ragazze curiose a uscire. Sono l’anima del mercato

con le risate, l’allegro cicaleccio, le borse di paglia e le vesti colorate! Si affrettino a

comprare favi e carciofi raccolti prima dell’alba, uova fresche e galline sacrificate

poverini, con i legacci alle zampe. Non si aspetti che le cime rosse si affloscino e che

le primizie perdano sapore . Oh, ma chi va là, chi mai sarà?

Un secondo carretto spunta dal lato dell’arenile. Lo spinge Caterina, la Rossa. Si

riconosce dal fazzoletto variopinto con gli angoli ripiegati sul capo. Quel turbante non

basta a ripararle la faccia già scottata dai primi soli. Donna mattiniera, batte tutte

(7) dai racconti di M. P. Di Nicola in “Il Gomitolo della Vita” Ed. Piccola Città. Comunità in

cammino. Roseto degli Abruzzi. Dicembre 2006

1

per grinta e sui tempi. Luccica la stadera di rame accanto alla cassetta di pescato

fresco. E’ la scafetta, argento vivo di pesci schizzati fuori dalle reti che il paron della

barca assegna alle mogli e alle madri dei marinai schierate all’alba come statue lungo la

riva. Al rientro dei pescherecci ognuna, ricevuta la parte, va a venderla per le vie di

Roseto e provvede col ricavato alle necessità della famiglia.

Giampiero chiama Caterina, agita il berretto, e attacca la prima strofa di una canzone

che mette allegria:

“Nu jorne jeve a passe la Mariola (8)/ comprate na gallina a stu fijole

la gallina coco,/ li cillette cip cip

li gallette chicchirichichì / alziti bella mia ca ni’nghè temba di durmir”

Ricuccio, gestore della cantina che dà sulla piazza, chiamato in causa, non manca di

unirsi all’allegra compagnia e ora tutti e tre in coro danno la sveglia, il buongiorno

canoro ai pigri abitanti del centro cittadino:

“ Nu jorne jeve a passe la Mariola /comprate na yattucce a sto fijole

la yattucce miau, miau l’asinelle ah! ah!…

Tocca a noi sorelle approntare lì per lì l’accompagnamento musicale con strumenti a

fiato, gli unici che abbiamo. Mica possiamo inventarci l’organetto ddu botte, il

mandolino, la chitarra romantica e il tamburello. Mettendocela tutta, gonfiando il petto

di brezza marina con i becchi spalancati ce la facciamo egregiamente a lanciare in

piazza una cascata di note allegre.

Prima di andarmene non posso fare a meno di captare i discorsi di quei tre. Ricuccio

con modi cordiali si rivolge ai compagni:

“Caterina, Giampiero, accomodatevi, favorite qualcosa. Dopo una bella cantata, non

dico un bicchiere di vino in prima mattina ma un sorso di caffè ve lo posso offrire!”

Non si fa pregare il giovane ortolano:

“Per me va bene anche un bicchiere di vino, avendo fatto colazione sostanziosa con

due salcicce cotte nel sugo di pomodoro e peperoni”

“ Anche per me un sorso può andare, ti pare, cumbà Ricù che esco di casa all’alba per

andare in riva al mare a caricare il pesce senza prima rifocillarmi? Due fette di pane con

il companatico non me le toglie nessuno”

La Rossa, pescivendola dalla voce squillante, da lontano è una macchia di colore, da

vicino rivela nella sottile ragnatela di rughette attorno agli occhi e nelle mani gonfie di

artrite i segni dell’età matura, delle fatiche e delle pene patite nel corso degli anni.

(8) La Mariola, Lu passagalle 10 anni 1998­2008

1

Le domanda il cantiniere:

“Quanti anni sono, Catarì, che ti alzi prima dell’alba e fai il giorno tutta una tirara e

fino a notte tarda non ti fermi mai?”

“Il conto l’ho perso ma ciò che più mi ha logorata sono state le nottate senza mai

chiudere occhio, le albe fredde con l’occhio fisso sui movimenti delle onde e della

nuvolaglia, il peso in petto, un grumo in gola nel timore di sentire da un momento

all’altro lo scoppio dei tuoni seguiti a breve dalla furia dei venti di burrasca. Che ti

credi! Ho imparato a nascondere l’ansia sotto una facciata di allegria e a farmi coraggio

nell’incoraggiare gli altri con battute, consigli e risate”.

Caterina beve un sorso, su richiesta di Giampiero e Ricuccio inizia a raccontare

la terribile notte in cui si trovò di fronte per la prima volta una tragedia di mare.

Accadde a inizio anni trenta. Era allora una ragazza con le trecce fiammeggianti, gli

occhi scuri lucenti. La mattina si alzava contenta con la voglia di darsi da fare in casa.

Aiutare la madre più che dovere o fatica una soddisfazione, la faceva sentire grande.

Aveva l’innamorato in procinto di venire a parlare con i suoi. Amava cucinare, carpire

segreti alle cuoche, accorgimenti capaci di esaltare il sapore e il profumo di mare del

pesce appena pescato, cotto nei tempi giusti con i prodotti freschi dell’orto, pomodorini,

peperoni, patate scalogno, aglio, lauro, rosmarino, erbette aromatiche.

La svegliarono quella notte le voci allarmate, i passi affrettati della gente, il pianto

dei bambini, il rombo del mare. Si vestì in fretta, stringendosi addosso lo scialle, corse

fuori. C’erano i suoi, i vicini e gli amici insieme ai parenti e ai familiari dei pescatori,

precipitatisi per primi. Tutta Roseto si riversava sulla spiaggia. Guardavano impietriti il

mare grosso. A ogni ondata che si impennava e muggiva più forte si levavano gridi,

pianti, preghiere, tanti si mettevano le mani nei capelli. Apparvero le vele traballanti

con le spere(8) agganciate a poppa. Sagome umane, incollate ai timoni tentavano di

frenare la corsa delle onde e di mantenere in linea le barche.

A riva una folla di ombre, uguali a spettri agitati dal vento si sbracciavano a lanciare

segnali a quelli in mare. Se poco o niente potevano fare per aiutarli, almeno

incoraggiarli con la presenza! Riuscirono le lancette a giungere la riva. Quasi tutte.

Una tornò capovolta, nessuno a bordo. Urli e pianti della madre, della moglie, dei

figli del disperso si incisero nel suo cuore e nel cervello e Caterina ogni volta li

riudiva nel lamento del vento che anticipa il maltempo. L’anno dopo sposò Nicolino,

(8) (8) funi per il traino delle reti, usate per frenare la corsa delle onde, (l’intervista a

Lindoro Brandimarte 22, 12,19 85 negli studi di Radio Popolare di Roseto).

1

un marinaio. Prima della guerra era ancora la pesca ad assicurare il pane a molte

famiglie di Roseto. Andavano in mare più di trenta paia di paranze, ogni barca

impiegava dalle tre alle cinque persone. Tornavano con le nasse e le cof e(9) piene di

seppie, le reti gonfie di pesce azzurro e vongole o triglie, secondo le stagioni. Non

mancavano periodi di magra. Spesso si levava il garbino o calava la levantara (10).

Antiche paure di gente di mare, non solo mareggiate, anche i pericoli e le penurie

della guerra aveva vissuto la giovane sposa, presto madre. Oggi adulta la Rossa col

tempo si è un po’ indurita nel carattere e nei lineamenti. Troppe attese spasmodiche a

spiare le onde e la direzione dei venti fin quando spuntavano i triangolini delle vele

riconoscibili dai colori. Dalla battigia le contavano una a una, rilasciava il respiro solo

quando Nicolino toccava la riva. Grazie a Dio, averla scampata ancora una volta!

Oggi è più tranquilla. Ha sistemato i tre figli nati prima che il marito andasse in

guerra. Durante la ritirata dei tedeschi, gli alleati bombardavano il lido e la ferrovia

sfollata a Montepagano con i figli, una sera vide tornare Nicolino. Non si riconosceva

magro era stecchito, spiritato, ma vivo. Quiello fu il giorno più bello della sua vita.

Passata la quarantina, il primo figlio emigrato in Svizzera, il secondo imbarcato sul

Genepesca II, l’ultimo si fa apprezzare come aiutante cuoco nel migliore albergo

cittadino, Nicolino qualcosa racimola con i pescherecci locali, la Rossa somma alla

giovialità del carattere la saggezza dell’età matura. Al mercato la fa da padrona con

la parlantina, la risata, le battute e i consigli ai clienti su guazzetti, brodetti, grigliate

ripieni, suggerisce una ricetta speciale nata dall’incontro tra i pastori transumanti e la

gente di mare, i “troccoli al sugo di moscardini con formaggio pecorino ”(11)

Ricuccio è vivamente interessato. Caterina non si fa pregare, prima illustra, detta poi

la ricetta all’amico cantiniere che prende appunti diligentemente su un taccuino dal

foderino nero, siccome ha in mente di aprire a breve una trattoria nella stesso locale,

ampliando il servizio di ristoro e, spera anche i guadagni

“| Naturalmente qui da me il posto di capo cuoca per te,Catarì, è assicurato”

“ Naturale!” Risponde la donna con un largo sorriso.

Mentre Giampiero e la Rossa infilano l’uscita della locanda per posizionarsi in

piazza, spicco il volo, richiamata da una corrente. A volte mi attraversa un brivido o

un’onda sonora, altre volte seguo una scia colorata di rosso o viola. Mi capita così di

intercettare sentimenti, pensieri e parole dette e non dette da determinate persone.

(9) ceste alte circa 50 cm, dal diametro di cm 30­ 40

(10)banchi di nebbia

(11) ricetta riportata da E. Corini “I Pescatori del Cerrano”Edizioni Qui Roseto 2005

1

Due donne scendono da Colle Patito. Saltellando tra un ramo e l’altro dei meli, dei

sorbi e dei pruni, le raggiungo, le affianco lungo il sentiero. Sono contadine, brune di

capelli e di carnagione, somiglianti come gocce d’acqua. L’età le differenzia, anche

l’andatura. Sono madre e figlia. Mariella col passo di vent’anni pare che danzi lungo il

viottolo, reggendo in perfetto equilibrio sulla testa la canasta(12). Una tovaglia di lino

grezzo a righe turchine copre il contenuto che non sfugge ai miei sensi. Sono taralli

all’anice e delizie di crostatine con marmellata d’uva e mela cotogna.

Splendora, la madre, scende a passi lenti, cauti, maneggiando il peso bilanciato di

due sporte. Ha caciotte e ricotta fresca, asparagi campagnoli, una dozzina di uova,

piselli teneri da vendere per comprarci col ricavato zucchero, sale e filati di cotone,

necessari per ultimare la coperta all’uncinetto per Mariella. Se lo porta dietro da un

anno quel lavoro, può dedicargli scarsi ritagli di tempo, col gran da fare nell’orto e

dietro agli animali del cortile. Deve aiutare il marito. Funzino tanto aveva desiderato

un figlio maschio che lo aiutasse a coltivare la terra, ma non è arrivato. Lei non può

lasciare solo l’unico uomo di casa. Meno male che alle faccende di casa provvede

Mariella. Lo farà ancora per poco. Una fitta al cuore quando ci pensa. Nella vita gioie

e dolori. C’è da augurarsi che si compensino.

Deve completare la coperta. Ne ha fatta una uguale tempo addietro a Rita, la prima

figlia già maritata, non può far torto alla seconda. Ci tiene a lasciare a entrambe un

ricordo, un lavoro fine, fatto a mano dalla madre. Meno male che si trova a buon

punto. I risultati si vedono, un incanto! Bianche roselline d’Irlanda spiccano al centro

di ogni riquadro. Il corredo di Mariella, sposa a settembre, è quasi pronto. Splendora

non vede l’ora di mettersi del tutto tranquilla al riguardo.

Strada facendo discorrono madre e figlia del il matrimonio che si avvicina. Il tempo

vola. All’unisono lo pensano, se lo dicono e sentono per opposte ragioni accelerare i

battiti del cuore.

I preparativi vanno fatti in anticipo, perché le cose procedano al migliore dei modi,

anche per mettere insieme i soldi necessari. Sono tante le spese da fronteggiare.

All’opera il sarto Armando. Gli dà man forte Pietro, il primo figlio che apprende a

volo l’arte e ama cantare mentre taglia e cuce. Il ragazzo con la bella voce incanta

i paesani di passaggio che si accostano alla bottega affacciata in piazza del Municipio

Non manca chi entra per scambiare due chiacchiere e inizia complimentandosi con il

ragazzo e con il padre. “Pareva che fosse accesa la radio.”

Mastro Armando, anche lui amante del bel canto, specie dell’Opera lirica, si cimenta

(12)canestro largo usato per portare i pasti nei campi

1

in certi parti della Traviata durante i pranzi nuziali cui viene puntualmente invitato. A

ogni portata speciale scatta in piedi e attacca:“ Brindiam, brindiam”. Tanto lavoro sarà

compensata in agosto da Funzino con bei tomoli di grano, il doppio del normale

affitto, intanto nella sartoria c’è un bel da fare a confezionare l’occorrente: tailleur per

Splendora, completo, pantaloni e giacca per Funzino, abiti soprabito, vestaglie,

camicie da notte e la veste bianca per la sposa. Pronti il modello, la stoffa di raso,

pizzi e tulli scelti da Mariella su consiglio del sarto. Il pranzo si farà in casa. Tra regali

dei parenti e roba messa da parte, vini d’annata, prosciutti, agnelli, pollastri, galline,

tacchini, manca poco La camera matrimoniale è la spesa più impegnativa Meno male

che si sparte a metà tra la famiglia della sposa e quella dello sposo. Per far fronte

alle ultime spese contano sul buon raccolto. Il grano al momento lascia ben sperare, si

presenta alto, fitto, con le spighe in poppa. Basterà il sole di giugno perché maturi e

che il cielo non mandi il flagello della grandine. Ci sarà la mietitura, a seguire la

trebbiatura, si potrà allora tirare un sospiro di sollievo. Il grosso sarà fatto.

A questo punto dei pensieri e ragionamenti viene loro in mente l’aria di una canzone

e iniziano a richiamare le parole:

“Il ventinove luglio (13)/ quando si miete il grano..

Interrompe l’esercizio Mariella:

“Veramente il grano si miete a giugno, non a luglio. Per quella data abbiamo finito

anche di trebbiare ”

Ci pensa un momento Splendora e dice la sua:

“Magari la canzone è nata in montagna dove il grano matura con un mese di ritardo

rispetto alla bassa vallata e alle nostre colline sul mare”.

Le due donne si fanno una breve sosta, fissano le acque turchesi che luccicano oltre il

verde della pineta e la fascia dorata delle dune, respirano profondamente e

ricominciano a cantare a due voci le prime strofe e l’allegro ritornello:

“Il ventinove giugno / quando si miete il grano/ trum­ lallà larallallà

c’è nata una bambina con fiori e rose in mano./ Non è una contadina

nemmeno paesana / è nata in quel boschetto vicino alla marina

Vicino alla marina / là è lu bello stare…

Osserva Mariella:

“Le parole della canzone sembrano scritte per questi luoghi! Ma quando è nata

Roseto, quando si può può dire che è stata messa qui la prima pietra?”

(13) A’ssaltarella. Compagnia di Musica Popolare Abruzzese.

13.CD

1

Splendora richiama in mente quanto ha sentito dire dagli anziani:

“Difficile dirlo. I pescatori vivono vicino al mare dai tempi antichi, i contadini ci

sono sempre stati nei casolari allo sbocco della vallata. Salivano sulle alture per

difendersi dai pirati, riscendevano quando il pericolo si allontanava. Un secolo fa,

quando comandava il re di Napoli, raccontava tatone(14) che i signori dei dintorni,

venuti da Notaresco, da Teramo e da Montorio si presero le terre demaniali, prati,

boschi, dune, pantani. Quei signori recintarono le terre e abolirono gli usi civici”

“Che cosa erano gli usi civici?”

“Diritti d’uso sul demanio dove i contadini pascolavano le pecore, raccoglievano

legna per scaldarsi, erba fresca e fieno per i conigli, ghianda per il porco, cicoria e

rape per sfamarsi insieme a un tozzo di pane nero o a un pezzo di spianata. Ricordi la

focaccia di farina di granturco cotta sui mattoni del focolare che la nonna fece una

volta per fartela assaggiare?

“Me lo ricordo. Niente male”

“Non male di sapore ma di scarso nutrimento. Lor signori(15) si arricchivano,

lottizzando le quote sulla marina, alle famiglie più povere, alla maggior parte della

popolazione venne a mancare una fonte di sostentamento”

“Hai detto che i signorotti si appropriarono delle terre del demanio. Niente si lasciò

ai pescatori e ai contadini?”

“Manco un tomolo, che dico, una quarta, un coppo. Qualcosa era rimasto, ma nel

passaggio tra un regno e l’altro, quando re Vittorio e Garibaldi si erano messi in

movimento ,e si diceva che l’uno avrebbero espropriato i beni della chiesa, (16) e

che l’altro avrebbe dato la terra ai contadini, i signori locali e certi preti di

Montepagano si spartirono l’ultimo appezzamento di terreno rimasto nella marina”

“Pure la Chiesa fa queste cose ?”

“Figlia non scordare l’antico detto: bbade a ciò che predde dice su l’addare e no’

a ciò che predd fa(17), specie quando ci stanno di mezzo gli interessi.”

“Ma allora, tornando a quei tempi, ci fu un peggioramento della vita della gente.

Come è stato possibile in seguito progredire tanto e realizzare quello che oggi

vediamo? A chi va il merito di tutto questo?”

(14)Tatone( nonno) Rammentano, per sentito dire, gli anziani la privatizzazione della terra, le

leggi eversive della feudalità

(15) “Chiamavano con questo nome quelli che potevano o credevano di poter vivere senza

lavorare” Fedele Romani “Colledara” Edizioni Textus, 1996, p.12

1

“ Le storie da raccontare sono tante quante le persone che le vivono, intrecciano e

dipanano, in giro nel mondo, ma nei libri si parla solo dei potenti, non dei

sacrifici della gente.

“Stessa cosa oggi, è con il lavoro e con i sudori di un mare di donne e di uomini,

laboriosi come le api e le formiche che si fanno opere piccoli e grandi e tutto si

macina e trasforma.”

“Vedi, figlia com’è stato possibile progredire! Si capisce anche a guardare la nostra

famiglia. Fino a non molto tempo fa c’erano carestie e miserie, tasse e guerre ad

aggravarle. Molti si imbarcarono sui bastimenti, andarono in America, come tuo

nonno che al ritorno comprò la campagna a mezza costa. Una marea di gente tra la

fine dell’ottocento e il primo novecento si riversava oltreoceano. I più fortunati

tornavano con un gruzzoletto e l’arte imparata e impiantavano in pianura e sulla costa

nuove attività. Intanto partivano anche qui le industrie, tra un disastro e l’altro, guerre

in Libia e due guerre mondiali, ristrettezze e lutti a non finire. Ogni volta bisognava

asciugarsi le lacrime, corciarsi le maniche e ricominciare daccapo.”

“Pure oggigiorno molti giovani e padri di famiglia seguiti dalle mogli vanno a

lavorare nel nord Italia, in Svizzera, in Germania e nelle miniere del Belgio. Noi

restiamo perché la campagna l’abbiamo in proprietà ed è terra buona. Per fortuna

Antonio è stato assunto in questa nuova industria, sorta allo foce del Vomano, a due

passi da casa, la fabbrica, se bene si impianterà, durerà perché lavora ortaggi

prodotti dalle nostre terre. ”

“Così, figlia mia, tra chi resta, chi parte, chi torna e molto si ingegna questo lido si

è messo a galoppare, nel giro di una, due generazioni è diventato il centro popoloso

che vedi, dove andrai ad abitare da maritata.”

“Già, come me, tanti vengono dalle colline, a partire da Montepagano che è stato

nostro Comune fino all’arrivo del fascio. Ci spiegò la maestra che Mussolini spostò

il Municipio alla marina, gli cambiò il nome e declassò l’antico borgo a frazione”.

“La ferita brucia ancora perché da allora il paese ha cominciato a morire”

“Che peccato! Un paese affacciato sul amare, con la cupola e il campanile che nulla

hanno da invidiare a quelli di Teramo e di Atri, con un panorama spettacolare sulla

costa adriatica e sul Gigante degli Appennini, non, non meritava questo”

(16)In riferimento alle leggi Siccardi

(17)presta attenzione solo a ciò che il prete predica sull’altare e non ai suoi comportamenti

1

“ Chi sa se la gente che se ne allontana non ritorni un giorno perché ci si vive bene,

anche solo a passarci le vacanze, a godersi una boccata di ossigeno. I veri gioielli, le

perle rare non perdono valore, mentre ciò che poco vale, poco dura e presto si

consuma.”

“E’ vero, ma’, adesso però parliamo del matrimonio. Indovina che mi regalerà la

mia futura suocera il giorno delle pubblicazioni?”

“ Forse gli orecchini…”

“In pieno hai azzeccato! Siccome Antonio quando ci siamo fidanzati mi ha dato

questo anello d’oro bianco con una perla vera, i suoi vogliono completare la parure

con gli orecchini, non solo, lo sposo mio per le nozze mi ha promesso una collana

di perle. Già me le vedo e sento addosso lucenti …morbide”

“ Oh, la mia bella figliola che ogni cosa prepara per tempo! Sai se ti porteranno la

serenata?”

“Certo ma’, però adesso a pensarci sento nu friccicore al core”

“Oh, non dire niente a me ogni giorno viene in mente una canzone che mi struje

l’anime:

“E quande la fija me’ jeve a la messe (18)/ li spuse si ne jeve apprresa a hesse core

de la mamma de la mmamma sé/ massera ve la bande e se porta la fija mè..

Vaporose, frizzanti come i giorni di primavera scorrono le stagioni. Anni sessanta.

Rivedo l’amico mio su una vespa tra nugoli di polvere per i tornanti. Da quando la

famiglia si è trasferita a Roseto non passa giorno che non torni al paese, richiamato

dagli impegni nella Comunità Giovanile di Montepagano della quale è l’animatore più

vulcanico. Cosa non fanno? Teatro, cineforum, feste, gare sportive, dibattiti su temi di

scottante attualità, dal movimento pacifista sorto nelle università americane contro la

guerra nel Vietnam e per i diritti civili, alla fame nel mondo, alla teologia della

liberazione, alla chiesa dei poveri, ai preti operai in America Latina. Li divora l’ansia

di giustizia, di conoscenza e il sogno di un mondo migliore.

Hanno formato un gruppo musicale “I Nostri”, stanno organizzando la Stellina d’oro.

Impegnati nella preparazione dello spettacolo che coinvolge tutti i bambini del paese

si notano Gaetano, Luciano. Francesco si è appena diplomato maestro di musica e

cura i cori. Suor Anna Rosina insegna ai piccoli il solfeggio cantato.

I nostri s’inventano un altro gruppo “Gli Escatoi”, intendono realizzare la messa beat

(18)La fija mè cd Associazione corale L. De Carolis“ Lu cante de lu tempe luntane”

1

Provando, riprovando con l’aiuto di suor Anna Rosina e del maestro Francesco ci

riescono egregiamente. Eccoli! Rocco è scatenato alla batteria. Don Lorenzo gli fa

segno di andarci più piano ma lui proprio non può e così si giustifica :

“ Se rallento, non sento niente, non sento gli strumenti”.

Antonio alla chitarra, Attilio ai tasti, Vincenzino e Camillo al basso, suor Anna Rosina

ai tasti dell’Armonium. Voce solista Nunziatina che quando canta torna allegra com’era

da ragazzina e lei alle lodi e ai complimenti risponde con l’antico detto: “L’angeli l’ha

fatto lu cantari. Quando si canda nun si penza a male” (19)

I nostri sempre più scatenati, calamitati dai nuovi ritmi e richiami che giungono da

oltralpe ogni giorno inventano qualcosa, sperimentano vie nuove. Vanno a braccia

aperte, con buona dose di ingenuità, incontro agli spiriti dei tempi. Spiriti inquieti. Il

vento dell’est li investe, quello del nord e dell’ovest li spingono verso altri lidi. Sento

come fossi veggente che d. Lorenzo perderà i chierichetti, a iniziare dal suo pupillo.

Scorrono gli anni sessanta impetuosi come la piena di un torrente. Scendono dalle

colline e dai paesi dell’entroterra contadini e artigiani. Quanti furono pastori migranti

lungo i tratturi ancora vengono dai monti, seguendo il corso del Vomano e del

Tordino, si stanziano nella marina di Montepagano. La costa cresce a vista d’occhio.

Fioriscono i commerci, le industrie e il turismo balneare. A ritmo accelerato si

sviluppa l’edilizia. Aumenta la congestione del traffico. Eleveranno in seguito catene di

palazzi, ridurranno sempre più gli spazi aperti, oscureranno le vie interne.

Seguo ancora l’amico mio. Stesso batticuore. E’ un amore impossibile. Altro non può

essere che amore da lontano. Forse un giorno, in altre dimensioni ci incontreremo.

Eccolo in tuta, scarpe chiodate, pantaloni corti. Corre e si allena sulle dune, lungo la

riva spumeggiante. Nelle gare arriva ultimo. Non importa. Gli ripete il professor

Caporale. Ciò che conta è non fermarsi, giungere al traguardo. Non demorde, corre a

Roseto nel campo Patrizi e nel campo dei preti. Lo seguo a Giulianova, lungo gli

argini del Tordino e a Teramo alla Gammarana. Il professore lo premia con la

partecipazione al campionato nazionale di corsa junior di Bari. Si diploma, va a

lavorare in fabbrica a Milano. Continua a correre negli ampi spazi attorno a Breda e

a Sesto San Giovanni. non sente più le gambe, come se fossero semoventi, o

appartenessero a un altro essere, a un cerbiatto o puledro inseguiti dal vento.

(18) (19) E.Canziani Attraverso gli Appennini e Le terre degli Abruzzi Fermo,

Andrea Livi editore 1996, p.35

1

L’anno dopo si allena nei campi militari di Ascoli Piceno e poi a Monza e a San

Michele extra di Verona. Seguo col cuore in gola a Firenze, tra gli angeli del fango il

giovane sottotenente alla guida di una compagnia impegnata a fronteggiare i disastri

dell’alluvione.

Rinuncia alla carriera militare. Vocazione adulta. Riprende a correre. Arriva tra i

primi. Intensifica gli allenamenti. Torna a Milano e alle Olimpiadi delle parrocchie a

sorpresa supera il campione regionale. Vince in seguito diverse gare a Trento.

Correre è volare raso terra ma lui leva in alto lo sguardo, vola con la mente. Non si

placa l’inquietudine Lascia il seminario di Chieti per altri percorsi lungo i quali, ora

lo so, noi due ci incontreremo. Il nostro momento giusto è questo. Accade sul ponte

del Tordino. Sono una ragazza dalla chioma cavallina, occhi sognanti, spalle dritte,

piede veloce, io scendo dalla collina, lui viene dal mare. Ci abbracciamo.

L’ex chierichetto ama il canto. Da bambino lo incantavano le opere liriche che

eseguivano i bandisti del paese, Quando in piazza istallavano la cassa armonica era

festa grande. Il padre, il sarto Armando lo portava con sé, nei diversi paesi in cui si

esibivano i tenori e i complessi bandistici. Non solo il melodramma. Crescendo ha

appreso i canti gregoriani in latino, i cori alpini, s’è lasciato stregare dalla musica

rock, pop, jazz, dai canti di lotta e del lavoro, dai cantastorie e dai cantautori.

Siamo tanti giovani. Il supercinema di Roseto è gremito di studenti, abbiamo

organizzato il concerto di Lolli. L’anno dopo Lucio Dalla si esibisce all’Arena Quattro

Palme e I Nomadi tengono due spettacoli, uno a Teramo, l’altro a Roseto.

Il paese sulla collina pare destarsi dalla rassegnazione, si coinvolge in attività di

cooperazione nel settore dell’abbigliamento e dell’edilizia residenziale. Il miracolo

della rinascita di Montepagano si esaurisce nell’arco di un decennio

Costituiamo la cooperativa culturale Cento Fiori, gestiamo una radio libera,

intensifichiamo l’iniziativa dei concerti. Giovani affluiscono al palasport di Roseto da

tutto l’Abruzzo e dalle regioni limitrofe. Attacchiamo chilometri di manifesti.

Volontariato puro, litri di sudore, a rimetterci la fatica, a volte anche le penne.

Un mare di giovani ai concerti di Bertoli, di Guccini, di Graziani, Ron e Guzminav,

di Vecchioni, di Battiato. De Andrè si esibisce in due spettacoli lo stesso giorno per

la gran folla accorsa al Palasport da tutto il centro sud del Paese.

Radio Popolare di Roseto dal soffitto del palazzo più alto di Montepagano, che fu sede

dei Duchi Acquaviva trasmette musica nuova, inchieste tra la gente, interviste ai

testimoni e protagonisti della storia del nostro territorio. E lo sport, le partite di

1

basket seguite in diretta dalla radio, anche in trasferta. Quanto entusiasmo, quanta

fatica, e quante delusioni!

Faccio parte integrante del gruppo, seguo l’ex chierichetto passo passo, quasi. Una

volta l’ho lasciato andare senza di me che rimanevo al calduccio nel nido. Partirono in

quattro con un vecchio furgone procurato da Antonino, carico di beni di prima

necessità durante l’inverno più freddo mai ricordato in terra d’Irpinia percorsa e

squassata dal terremoto. Riportarono insieme agli eskimi zeppi di gelo e di sudore bei

progetti nella mente e nel cuore.

Lui ha continuato ad affannarsi nei quartieri popolari di tutta la regione, lottando al

tempo stesso insieme a numerosi cittadini per allontanare il traffico pesante di lunga

percorrenza dai centri urbani della costa medio adriatica.

Il momento più duro è stato quando è andato a Roma. Nelle stanze del palazzo lui

poteva entrare, io no, poteva entrare, battersi, aprire le porte ma non i cuori. Ci lasciava

il segno. Inevitabile il reciproco rigetto.

Si smascherava in quegli il cinismo del potere, il re restava nudo solo un istante,

tosto si ricopriva di abiti abbaglianti, grondanti di lacrime, con accresciuta spavalderia

tornava a pavoneggiarsi. Perdevamo persone d’eccezione, forti punti di riferimento.

Ferite ancora sanguinanti.

Fuori dalle stanze del palazzo lui ha continuato a impegnarsi e ha trovato e trova

ancora risorse interiori ed energie fisiche sufficienti per organizzare d’estate le feste

popolari nel centro storico di Montepagano e nei quartieri di Roseto.

Troppo il mio compagno ama la musica e la nostra terra tanto bella, quanto fragile,

soggetta a rischi diversi e gravi. Essa pure di recente ha tremato, è stata colpita al

cuore, necessita di tutte le nostre cure e sogna di veder rinascere la regina della sue

città, L’Aquila capitale, la vita della sua gente e i tesori d’arte e di cultura.

Mentre viaggiamo per monti, colline, conche, valli, pianori e gole d’Abruzzo solo

a me e alla bambina dolcissima che ci è nata, la nostra Cipì Cipetta, che intanto si è

fatta grande, lui canta ancora e fischietta le canzoni che più amiamo, e sa cantare.

E io, che pure amo il canto ­ ma dalla mia gola escono solo trilli acuti­ anni e anni

starò ancora ad ascoltarlo, affascinata dalla sua forza d’animo dalla voce armoniosa.