La selva dei mali

In un tempo e in un luogo non lontani,
viveva uno scultore disperato,
ognor guardava fisso le sue mani
che il bello avevan sempre carezzato.

Or la bellezza non potean scolpire,
tremavan dalla rabbia e dal dolore,
qualcuno aveva fatto un dì morire
colei che il cuore suo, chiamava amore.

Trovaron la sua sposa nella notte,
in un vicolo buio ed appartato,
aveva di un sol braccio le ossa rotte
ed il bel viso, tutto deturpato.

Qualcuno aveva usato la violenza
per ottenere ciò che non si ottiene,
sfogando tutta la malevolenza
che aveva al fin spezzato le catene.

L’artista allor giurò sulla Sua tomba,
che il marmo non avrebbe più toccato,
neppur se nella notte una colomba
gli avesse… con la voce Sua parlato.

Tutto il paese gli si strinse accanto
perché non si perdesse nel dolore,
ma ormai il suo cuor viveva nel rimpianto,
rubando alla sua vita ogni colore.

Nel cuore di una notte assai brumosa
nell’aria si diffuse un suon già udito.
La gente si destò persin gioiosa
sapendo lo scultore rinsavito.

Tre notti di mazzuolo e di scalpello
ritmaron tutti i sogni della gente.
Era un rumor, che forse era un appello:
batteva insieme a un cuore sofferente.

Un giorno finalmente al camposanto
comparve sulla tomba dell’amata
la statua che, nel suo magico incanto,
avea quella bellezza rievocata.

Il suo giovine viso ritraeva,
il corpo eretto, solo appen velato.
Ogni sguardo passante lei attraeva
con l’indice sinistro ben puntato.

Due ali sulle spalle ora recava,
e il braccio manco teso ad indicare,
l’indice destro la tomba mirava
così che il reo potesse meditare.

La gente la chiamò tutt’ad un tratto:
“L’aspra Coscienza che la belva addita”,
facendogli veder cosa avea fatto
a un angelo ora privo della vita.

Ma quell’indice il bruto, avea sfidato,
e nottetempo giunse al cimitero,
sicur di poter togliere l’afflato
da quella statua dallo sguardo austero.

Lì, prese a martellar l’arto mancino,
che cadde e si spezzò sopra l’avello,
poi s’accanì sul dolce suo visino
che al cor di lui lanciò l’ultimo appello.

La belva, resa sorda dal furore,
riprese a martellar le ali spiegate,
che caddero, con un grosso fragore,
restando sul terren come adagiate.

A quei rumori si destò la gente,
che corse con i lumi al cimitero.
Lì videro una scena assai struggente,
celata dentr’un sordido mistero.

Il bruto era fuggito nella notte.
Nessuno aveva visto chi era stato.
L’avrebbero di certo preso a botte
se solo un poco si fosse attardato.

Il giorno appresso lo scultore afflitto
pianse le stesse lacrime già piante
quando si consumò l’amar delitto
d’un giorno che a dir poco fu agghiacciante.

Ma questa volta l’animo non perse,
e prese lesto a scalpellare il blocco,
e un colpo dietro l’altro al marmo inferse,
finché non giunse all’ultimo ritocco.

Tre notti dopo, l’opera era pronta,
e dell’altra version ancor più bella:
le labbra ora socchiuse da quell’onta
sembravan possedere la favella.

La statua ritornò dunque al suo posto.
Ma l’indice e quel braccio ancor più tesi,
sembravano sfidare ad ogni costo
la furia oscura che li aveva offesi.

E… dalle oscurità sorse la belva!
Che s’accanì sul braccio, il viso e l’ali,
poi ritornò a celarsi nella selva,
in cui vivon sopiti tutti i mali.

Tutti i paesani allor, presero a dire,
che l’uomo non l’avrebbe più rifatta:
non si poteva andar contro le mire
di chi sul collo avea una testa matta.

Notti fredde seguiron fredde notti,
e il buio ed il silenzio le avvolgeva,
persino alcuni vetri s’eran rotti
talmente il gelo la sua man premeva.

Chissà cosa pensava lo scultore
chiuso da solo nella sua bottega,
come il suo cuore, chiuso nel dolore,
senza l’amore che alla vita lega.

Nessun lo vide più, dentro il paese.
Se n’era andato senza salutare.
Ma un dì una donna giunta a fare spese…
disse d’averlo visto ritornare.

Seduto sopra un carro trasportava
un gran blocco di marmo tutto rosa.
Or dunque ancor l’amato s’apprestava
a ridonar le forme alla sua sposa?

Dopo altre notti di duro travaglio
il freddo marmo partorì la luce:
perfetta in ogni singolo dettaglio
persin se si guardava controluce.

Il marmo le ridava il suo incarnato.
Le vene ora sembravano pulsare.
E l’angelo tornò dov’era stato
con le due dita tese ad indicare.

Tutto il paese per la terza volta
rimase a bocca aperta a rimirare
l’atteggiamento in cui era stata colta
chi dalla tomba non potea tornare.

E lo scultor davanti alla sua gente,
giurò che non l’avrebbe più lasciata,
tanto la rabbia diventava ardente
pensando a chi l’avrebbe profanata.

Così decise di restarle accanto
non solo il giorno, ma pure la notte,
finché l’enigma non avrebbe infranto,
vedendo chi le statue aveva rotte.

Tutti gli amici gli parlaron chiaro:
era da folli compier quell’impresa,
in quelle notti v’era un freddo amaro
per affrontare quella lunga attesa.

Ma l’uomo non sentì alcuna ragione,
e si sedette dietro una cappella.
Lì, disse, di sentirsi assai benone
per aspettar chi uccise la sua bella.

La notte giunse, calma e silenziosa,
le nubi spesse nascondean la luna,
soltanto una civetta un po’ curiosa
s’udì pochi minuti dopo l’una.

All’improvviso, in ciel s’aprì il sipario,
e il tondo globo tra due nembi apparve,
poi l’astro, col suo lume autoritario,
com’era giunto subito disparve.

Fu allor che lo scultor vide l’amata
voltarsi verso la sua direzione,
e la sua voce calma e vellutata
gettar l’animo suo, dentro un tifone.

<<Perché…>> gli chiese, tra un sospiro e l’altro
<<…fai tutto quel che fai senza capire,
che quando hai le man ferme, tu sei scaltro,
a preservare il bello col tuo agire?>>

<<Quando la belva dalla selva sorge,
treman le mani come due fuscelli
mossi dal vento oscur, che niuno scorge,
ma che conduce il bello negli avelli>>.

<<Ricorda quello che, senza volere,
hai fatto non per sesso o gelosia,
ma per mostrare il tuo, vano potere,
padrone pure della vita mia>>.

<<Io volli uscir, ma solo per andare,
da un’amica non troppo distante,
tu invece mi volesti accompagnare,
credendo che io andassi da un amante>>.

<<Ora, marito mio, sai dell’errore,
ma non sai ancora come riparare,
perché hai una belva oscura dentro il cuore
che se si desta, non sai controllare>>.

<<Ma il bello vince sempre, perché il bruto,
non può distrugger la vera bellezza,
lui non accetta mai nessun rifiuto
e si nasconde dentro la fortezza>>.

<<Una fortezza ch’è, la sua prigione,
in cui la libertà viene bandita.
Ma l’uomo è fatto per usar ragione
non certo per distrugger volti o vita>>.

<<E la bellezza, prima che con gli occhi,
dev’esser vista con un cuore puro,
guarda, ad esempio, tutti questi fiocchi,
che scendono da un cielo freddo e scuro>>.

<<Ogni bambin si strugge nel vederli,
anche la prima volta che li vede,
e cerca con le man di trattenerli
perché in un mondo magico lui crede>>.

<<Ma il bruto vuol tarpare queste ali,
che ogni cuore puro ancora reca.
Non sa più cosa siano gl’ideali,
ed ogni uman rispetto egli depreca>>.

<<Quello che hai fatto non potrai cambiare,
ma in te vive pur sempre la speranza:
insegna, agli altri, dove non sbagliare,
perché il male si nutre… d’ignoranza>>.

E come giunse… se n’andò la voce.
Solo il frusciar dei fiocchi appen s’udiva.
L’uomo s’inginocchiò presso la croce
guardando il ferro che la man brandiva.

E fu quel ferro a trapassargli il cuore,
spinto con decision dal suo mazzuolo.
Lo ritrovò il guardiano, al primo albore:
la neve gli stedea sopra… un lenzuolo.

Il corpo suo, giacea sotto l’amata,
che con l’indice destro lo indicava.
La belva al fin, per sempre esorcizzata,
col sangue che la lapide bagnava.

Quando la gente giunse al camposanto
e vide lo scalpello nel suo cuore,
pensò che il bruto al fin avesse infranto,
anche l’altra metà di quell’amore.

Qualcun però, si pose una domanda:
perché la statua risultava illesa?
E la risposta fu assai miseranda:
perché la belva… era lì, distesa.

E infatti più nessun toccò la statua
che con l’indice destro rivelava
non la sua tomba, ma la storia vacua,
di ch’impotente al mal si consegnava.

Tutto il paese fece una colletta
e fecero scolpire lo scultore,
assassinato da una belva abietta,
sotto quel dito destro indicatore.

E qui finisce quest’oscura storia,
in un paese che si chiama “cuore”.
È giusto farne viver la memoria
perché il domani senza ieri muore.

Ognun dovrebbe andare a contemplare
quelle due statue fisse nell’incanto,
perché son sempre pronte ad insegnare…
ove poter trovar, l’oscur rimpianto.

G. P. C.-G.
13.12.2014