LA MELODIA DEL DOLORE

 

Carcinoma non microcimatoso del polmone morfologicamente compatibile con adenocarcinoma moderatamente differenziato.

 

Questa la diagnosi emersa dalla biopsia ai polmoni di mio marito in un giorno di primavera del 2015.

Era un giorno di sole, quel giorno, ma all’improvviso il cielo mi apparve buio, il cuore cominciò a battere e un dolore fitto mi trafisse l’anima.

“Perché proprio a noi?” Cosa abbiamo fatto di male?

La morte mi apparve davanti agli occhi come fosse una signora dalle brutte sembianze che mi sorrideva e mi sbeffeggiava.

“Perché sei qui?” Le chiesi…”non ti ho chiamata, vai via”

Mi rispose la morte: “dovevo venire prima o poi, non puoi essere felice per l’eternità”.

 

Avevo vissuto 35 anni felici con mio marito, ma erano passati in fretta e non immaginavo una vita senza di lui, per me era immortale: un uomo bello, colto, intelligente, sportivo e come poteva un “cancro” impossessarsi di lui? E perché?

Quanti perché mi passavano per la testa e non sapevo dare una risposta.

In una sola settimana la vita era cambiata: lastra al torace, tac con contrasto, biopsia e per finire pet. Tutto privatamente per fare presto e non perdere tempo, e se non si hanno i soldi si fanno prestiti.

Il maledetto era già posizionato in tutte e due i polmoni, aveva già sviluppato tante piccole metastasi intorno al nodulo centrale ed appariva come un cielo con la luna e le stelle intorno;  ma non c’era nulla di sereno paragonabile al cielo stellato. Era un cancro, un maledetto cancro.

 

A quel tempo avevo un’amica malata di cancro al seno che lottava come una leonessa, ed io che spesso la accompagnavo alla terapia soffrivo per la sua sofferenza, soffrivo per la consapevolezza che presto l’avrei persa perché sapevo che era invasa da metastasi e non aveva scampo. Il dolore per la mia amica era sicuramente intenso ma quando la malattia colpì mio marito mi resi conto che provavo un diverso dolore: straziante!!!

Mi sentivo un po’ in colpa pensando che il dolore assume diversi toni, è come una melodia: parte dalle note basse per arrivare alle note alte e le note alte sono un urlo di disperazione!!

 

IL CANCRO: cade il mondo addosso, il buio, la paura, l’angoscia. Niente è più come gli altri giorni, i ricordi si affollano nella mente, i pensieri si accavallano. Quel giorno si spegne il cuore fino a che una luce ti appare e rinasci e combatti.

 

Ecco, appare una luce che fa rinascere e fa combattere e con tutta la forza che si possiede, si vuole vincere contro quel maledetto alieno che spesso io preferivo chiamare TUMORE, mi sembrava meno duro, meno aggressivo, più buono insomma.

 

Con i risultati della biopsia ci rassicuravano perché era un “carcinoma” non aggressivo tanto quanto un “microcitoma” e quindi saremmo dovuti essere tranquilli e rivolgerci ad un bravo oncologo.

 

Volevo a tutti i costi apparire tranquilla, soprattutto per mio marito il quale mi sembrava avesse accolto la notizia con serenità. Mi chiedevo però se quella serenità fosse vera o falsa ma non osavo domandarglielo, preferivo far finta di niente e desideravo trattare (solo ai suoi occhi) la malattia, come fosse un’influenza, una brutta influenza. Mio marito aveva capito la gravità della cosa e per me e per tutta la famiglia faceva finta di nulla. Egli era un grande uomo, era stato un Ufficiale del Genio Alpini, aveva scalato montagne, aveva costruito Ponti e non certo appariva preoccupato per il suo stato.

Io intanto, oltre il dolore, ero preoccupata per altre cose: come poter rivelare – ad esempio – ai famigliari e ai conoscenti la disgrazia che ci era capitata; cominciavo inconsapevolmente a nascondermi sotto una maschera teatrale,  fatta di duro cemento, difficile da sciogliere; mi sembrava quasi una vergogna che mio marito fosse così gravemente ammalato. Ho dovuto lottare con me stessa per arrivare ad essere consapevole che dovevo slegare quello stato d’animo di teatralizzazione che da sola mi stavo costruendo, dovevo invece essere io e solo io e solo me stessa.

Sono riuscita a sciogliermi, ma solo dopo aver versato tante lacrime. Ho pianto così tanto da riuscire a disfare la maschera che era in me e finalmente ho cominciato a lottare con il cuore in mano, senza vergogna né costrizioni né costruzioni, anche se dentro me cominciava a morire la voglia di ridere, di scherzare, di incontrare persone, amici etc..etc..

 

La notte era giorno, non dormivo, piangevo solo,  ma dovevo stare attenta a non destare preoccupazioni, e dalla mattina alla sera quella parola in testa: tumore!!! cancro!!

 

Volevo a tutti i costi combattere quelle maledette cellule, non è possibile che niente riesca a disintegrarle pensavo.  Quell’alieno infernale non ce l’avrà vinta.. volevo convincermene!

 

Iniziava la ricerca di oncologi : nomi famosi e meno famosi; il centro oncologico migliore, quindi cominciavamo ad accettare consigli ascoltando varie versioni di persone malate o che avevano  parenti malati.

Si arriva poi  alla conclusione che meglio non perdere tanto tempo e andare al sodo.

Il dolore intanto continua a spaccare il cuore e la testa sempre lì: cancro!!!

Non c’è parola più brutta : CANCRO = MORTE.

 

Il cancro non è un “dono”, il cancro è una maledizione che porta allo sfinimento e alla disperazione sia la persona che lo ha, che quella che gli è vicina.

Certo in una visione cattolica il cancro può essere inteso come “dono” perché durante la malattia riaffiora quella filosofia di vita dimenticata dall’essere umano. Essa fa in modo che ogni giorno sia vissuto come una benedizione del Signore, riemerge l’amore verso Dio, verso il prossimo, verso la famiglia, verso la natura. Tutto diventa inspiegabilmente AMORE. E’ questo il “dono” del cancro.

 

Come dicevo, si comincia la ricerca di bravi medici, non si sa a chi dare ascolto. Ogni medico ha un suo curriculum che si va a visionare e si scopre che al giorno d’oggi molte forme tumorali sono state sconfitte, ma la parola indica sempre e comunque presagi luttuosi.

 

Avrei portato mio marito fin sulla luna per farlo guarire, avrei accarezzato le stelle e avrei chiesto a loro tanta energia positiva capace di distruggere il male, e così con l’idea della guarigione in testa e con l’impossibilità di raggiungere le stelle, ho cominciato ad acquistare libri su internet dal titolo “di cancro si può guarire”.

E se lo dice un libro, perché non dovrebbe essere vero?

Libri..libri..libri…chi dice una cosa chi ne dice un’altra fino ad arrivare alla dieta anticancro.

E qui inizia il mio protagonismo, direi la mia pazza idea che alcuni cibi uccidono le cellule cancerogene.

Compravo tutto ciò che mi dava speranza: dalla frutta ai cereali alle erbe, tutto rigorosamente integrale.

 

Continuava così la vita: tra visite, chemio, alimentazione e tac e pet.

 

Quando questa malattia diventa la padrona di casa non esiste più il riposo: né quello notturno né quello psicologico. La vita cambia…certo non può rimanere quella di prima, cambiano le emozioni…certo non si può più pensare alle cose amene, alle cose frivole.

 

Ho sempre pensato che la sofferenza rende migliori le persone (questo è un altro “dono” della malattia) ma un dubbio mi è costantemente sorto: dopo la conclusione della malattia, che sia di guarigione o di lutto, le persone restano comunque migliori? O si dimenticano delle sofferenze e ritornano ad essere gli individui che erano prima?

Si sa, il tempo lenisce i dolori, il tempo cura le ferite. E gli animi delle persone che fine fanno? Riappaiono quei sentimenti sopiti per un po’? O continuano a rimanere nascosti?

E’ una domanda che ho posto a me stessa. Dopo la morte di mio marito, che amavo e amo immensamente, nonostante il dolore che ho dentro e che mi spezza il cuore, alcuni impulsi sono riemersi; e sono arrivata alla conclusione che quando la sofferenza ha fine riaffiorano quelle  istigazioni umane sopite durante il periodo della malattia, quali impazienza, insofferenza, intolleranza.

 

Come ho detto all’inizio di questa testimonianza ho voluto incontrare la morte, l’ho materializzata nei miei sogni e ho voluto parlare con “essa” faccia a faccia. Mi è apparsa una signora deforme nel suo manto nero. Aveva occhi malvagi, sguardo perfido, mani scheletriche; rideva del mio dolore e alle mie domande rispondeva a tono, per nulla infastidita.

 

“Come ti chiami”, le ho chiesto “perché me lo chiedi, sono la MORTE” mi ha risposto, “e perché sei qui?” ho continuato,  “perché sono venuta a prendere la persona che tu ami, la luce dei tuoi occhi” sghignazzando continuava “la felicità terrena non è eterna, sei stata felice 35 anni…penso ti possa bastare, adesso dovrai soffrire e straziarti di dolore”, “non capisco perché sei così cattiva, perfida. Forse sei invidiosa? Hai mai avuto un amore?” La Morte mi rispose: “il mio compito è quello di portare dolore e sono felice quando gli altri soffrono,  adesso vado via, ma non ti darò tregua, sarò attaccata a te come una sanguisuga”.

Quando essa scompariva dai miei sogni, mi restava un dolore acuto. Avrei voluto rincorrerla per ucciderla.

 

Purtroppo era vero: non mi dava più pace. Non c’era pace, non c’era serenità. Facevo di tutto per far scorrere la vita tranquilla: mio marito ammalato e i mesi trascorrevano e ogni giorno ringraziavo Dio che ancora fosse vivo, ma ogni giorno appariva qualche disfunzione: una volta l’intestino, una volta il cuore, una volta l’apparato linfatico. Le pet sempre peggio, le cellule cancerogene sempre più numerose.

Che disperazione!!!!!

Il Professore che lo curava, persona di grande umanità, volle cambiare la chemio – che non dava più risultati – con la terapia immunologica, dicendo che quella terapia era stata studiata proprio per le persone come mio marito: di una certa età e alle quali la chemio non risponde più.

L’immunologia ha fatto miracoli, ci diceva il Professore, agisce non sulle cellule malate ma sul sistema immunitario, lo rende talmente forte da esser capace di distruggerle.

Molte persone erano guarite.

Grande speranza quindi per la terapia immunologica, non aveva controindicazioni e sembrava una passeggiata. E se ha salvato molte persone, perché non dovrebbe salvare mio marito? Questo era il pensiero che giorno e notte non mi lasciava, e che mi aveva fatto apparire la vita migliore. Ero contenta, fiduciosa, allegra.

Andavamo in ospedale, facevamo colazione, eravamo sereni e convinti che ci sarebbero stati  grandi risultati.

L’ospedale ci era oramai famigliare. Conoscevamo tutti, salutavamo tutti e il bar era la nostra meta preferita.

Era rinata la speranza…la speranza della vita: sorrisi, teneri abbracci e programmi per il futuro.

 

Di notte sbeffeggiavo la MORTE. Ho vinto io le dicevo!!!

 

Questo fino a quando ci furono i risultati della seconda pet dall’inizio della terapia immunologia: invasione totale di metastasi, soprattutto nell’intestino.

La disperazione fu terribile.

Perché l’immunologia non aveva funzionato con mio marito? Questa domanda mi arrovellava la testa. Perché eravamo stati così sfortunati?

Lo guardavo mentre pian piano si spegneva: la magrezza era impressionante nonostante gli dessi cibi proteici e ingrassanti, olio extravergine di oliva, composti galenici e per finire una volta a settimana agopuntura oncologica.

Il dolore di veder spegnere l’uomo atletico, bello, sorridente ma a volte anche “rompipalle” mi strappava l’anima.

Non riesco a descrivere i sentimenti di dolore che si provano, è come avere tanti serpenti dentro il corpo che si aggrovigliano e poi mangiano ogni pezzetto degli organi fino allo sfinimento, fino alla fine.

 

La MORTE mi aveva sbeffeggiata!!!!

 

Non riuscivo e non volevo pensare che la fine si stava avvicinando, ogni giorno un giorno in meno, volevo pensare che mio marito avrebbe ripreso peso, avrebbe ripreso il sorriso che oramai non aveva più. Ci credevo, ci credevo davvero e perfino mi arrabbiavo con lui quando lo vedevo triste e cupo, e una volta lamentandomi con mia figlia per il brutto carattere del papà, lei mi rispose: “mamma ma che vuoi, papà sta morendo e lui lo sa”.

In quel momento ho pensato che mia figlia si stesse sbagliando, non era vero quello che mi diceva, lo faceva solo per “rimproverare” la mia durezza di quei giorni.

 

Gli sguardi dei medici però mi affermavano tutto e mio marito – che stupido non era –  aveva raggiunto quella rassegnazione umana che fa pensare: meglio morire prima che inizi la grande sofferenza, prima che inizino i dolori atroci!

 

Mi sono rivolta a Dio, alla Madonna. Ho pregato, e una notte prima che mio marito “andasse avanti” ho visto una luce attorno al suo corpo oramai pieno di fili che lo tenevano in vita; era una luce abbagliante e ho pensato che fosse un  messaggio divino che mi diceva che Lanfranco non era solo, ma che il Signore era vicino a lui.

 

Mio marito è morto dopo 9 giorni di ospedale, una terribile ascite se l’è portato via. E’ morto serenamente tra gli abbracci dei miei due figli: Elisa e Angelo ed io che attonita assistevo al suo trapasso.


Realtà lavorativa accanto a un politico della Prima Repubblica

 

 

PREMESSA

Oggi sono una signora 61enne al di fuori del mondo della politica e voglio raccontare i miei 25 anni trascorsi con dedizione lavorativa e professionale accanto a un personaggio  politico della Prima Repubblica .

 

ERA IL 1983

Era il 1983 quando entrai a lavorare al PSI. Mi si presentò allora quell’ occasione e naturalmente la presi al volo. Non capivo nulla di politica sapevo solamente che per discendenza famigliare dovevo essere socialista, e tanto mi bastava affinché fossi orgogliosa di quell’ opportunità.

La Direzione Nazionale del PSI era un luogo ambito da politici di periferia  e da gente comune. Ero veramente fortunata a poter entrare in quella sede ogni giorno alle 15 del pomeriggio per uscirne non si sapeva quando. Si andava  avanti a lavorare  fino a tarda ora e bisognava stare un po’ alle regole dei politici per guadagnarsi la  loro stima e la loro fiducia. Era importante avere la loro considerazione perché al primo incarico importante fuori il PSI che il Segretario conferiva loro, si poteva sperare che ti portassero, insieme a un gruppo scelto di collaboratori, in ambienti ambiti: Gruppi Parlamentari o Ministeri.

Questo è ciò che è successo a me.

 

LAVORANDO SODO

Mi sono guadagnata il posto, prima al Gruppo Parlamentare e poi ad un importante Ministero, dopo aver lavorato sodo per lunghi 8 anni al PSI nella segreteria del Dipartimento Problemi dello Stato.

Otto anni al PSI sono stati un’esperienza unica, che adesso ricordo con ilarità, ma di grande durezza e fatica.

IL PSI era diviso in Dipartimenti, più o meno importanti; ed anche i piani erano più o meno importanti. Al 5° piano c’era l’ufficio del Segretario e gli uffici dei suoi più stretti collaboratori. Il 4° piano era meno importante del 5° ma ancora abbastanza importante, e via via che si scendeva di piano si scendeva di importanza. Il 3° e il 2° piano erano davvero invisibili, a parte l’ufficio di protocollo e la cassa, che per motivi tecnici l’uno e amministrativi l’altro erano la meta di tutto il palazzo.

Ancora ricordo l’arrivo e il primo giorno in quell’ufficio. Tremolante e timida mi presentavo a tutta la segreteria formata dal deputato, da una segretaria di una certa età ma che era un’istituzione del partito, due collaboratori uomini che avevano l’aria di interessarsi di cose politiche di un certo livello e 2 o 3 signore che formavano la segreteria, quelle alle quali ci si rivolge – ancora adesso –  quando ci sono cose manuali e poco importanti da fare: protocollare, inviare corrispondenza etc..etc..

Il deputato capo del Dipartimento non era stato informato del mio arrivo e la prima volta che lo vidi non si accorse della mia presenza, ma con il passar del tempo capii che il mio vero capo era la segretaria storica e non certo il capo del Dipartimento. Era quest’ultima che impartiva ordini, che mi dava le cose da fare, le telefonate dovevano essere passate a lei la quale poi decideva se passarle al capo o esordire con la mitica frase: l’Onorevole è in riunione!!!

 

UNA PRESENZA CLANDESTINA

Per molti mesi la mia presenza in quel luogo fu quasi clandestina. Non facevo nulla di importante se non scrivere indirizzi, andare al protocollo e prendere ordini dalla segretaria storica. Succedevano cose che al di fuori da li non avrei mai immaginato esistessero. La signora spesso scendeva per fare shopping in via del Corso e tornava in ufficio a sbandierare i suoi costosi acquisti. Rimanevo di stucco. Non avevo mai visto nessuno spendere cifre cosi esorbitanti per abiti e suppellettili e pensavo che lo stipendio  di mio  papà non arrivava nemmeno a un terzo di quello  che lei spendeva in un solo giorno.  Ciò mi faceva soffrire e già all’epoca pensavo alla disparità sociale.

La signora naturalmente usufruiva di un  autista, che non era personale, bensì del PSI ed era utilizzato dal marito che all’epoca ne era l’amministratore.

Il PSI era una specie di “comunità famigliare”. Lavoravano lì i figli dei vecchi compagni, i nipoti, i parenti etc. etc. Anch’io in verità ero riuscita a entrare in quel posto per merito di mio zio, socialista e dirigente generale di un Ministero.

Devo dire che l’esperienza al PSI è stata emozionante e bella. Li sono cresciuta professionalmente ma sicuramente era il posto meno adatto ad imparare ad essere “compagni”. Compagni lo si è dentro nel proprio DNA, allora come adesso.

Comunque il tempo passava ed io oltre che crescere in età crescevo davvero professionalmente ma soprattutto nei rapporti umani. Mi facevano tenerezza e pena le persone che venivano a questuare raccomandazioni per figli e nipoti e conoscenti. Affrontavano viaggi anche costosi pur di venire a ossequiare “L’ONOREVOLE” . La fila per chiedere raccomandazioni era inverosimile, tutte le settimane centinaia e centinaia di “poveri cristi” aspettavano di essere ricevuti “dall’Onorevole”.

Passava il tempo ed io mi ero fatta una cerchia di conoscenze, forse per il mio modo di fare per la mia gentilezza e per la mia umanità. A volte e spesso la signora “capo segreteria”  cercava il modo di mettermi in cattiva luce e non perdeva occasione per rimproverarmi di qualcosa che in ufficio non andava pur sapendo benissimo che quel qualcosa non dipendeva da me. Era gelosa di me e lo si vedeva apertamente specialmente quando qualche “compagno” mi offriva piccoli regali: profumi, foulard etc..etc..

Con il tempo l’Onorevole cominciava ad accorgersi che in quella segreteria esistevo anch’io, che ero brava ma soprattutto obbediente, vuol dire che se mi chiedeva di rimanere fino alle 9 o alle 10 di sera per finire il lavoro dopo qualche riunione di partito o alla Camera, io ero sempre pronta a sacrificare la famiglia e a rimanere per lavorare. Naturalmente dopo neanche un GRAZIE!!

 

“OFFERTE”

Al PSI cominciavo a farmi la fama di essere brava e cominciavano a  conoscermi come “la segretaria di …” questo dava molto fastidio alla segretaria storica. Con il tempo cominciarono anche le “offerte” da parte di ignobili bavosi pieni di soldi che svergognatamente osavano definirsi “socialisti”. Le offerte consistevano in proposte sessuali per avere in cambio qualcosa di molto solido; perfino un attico in una zona centrale della città. Non ricordo il nome di costui, ricordo solo che era milanese,  e pensava di essere il padrone del mondo. Qualsiasi donna sarebbe caduta ai suoi piedi per avere l’attico al centro della città, e il mio rifiuto lo ferì atrocemente. Mi disse allora che non pensava che io rifiutassi un attico, in fondo ribadì che “era solo una scopata”.

Il PSI era un mondo a parte, come credo però lo fossero tutti i partiti a quell’epoca. Mi parlavano del PCI e mi dicevano che le cose funzionavano come da noi. Raccomandazioni, conoscenze etc.etc.

In quegli anni c’erano momenti belli e momenti brutti per la vita del paese, i governi cadevano “a iosa” e alla nascita di ogni nuovo governo tutti aspettavano di essere nominati Ministri. Ad alcuni andava bene ad altri male e questi ultimi gufavano sul governo appena fatto affinché cadesse e se ne facesse un altro con la speranza che potessero entrare.

 

AL GRUPPO PARLAMENTARE

Prima di diventare Ministro il mio capo fu nominato Presidente del Gruppo Parlamentare PSI e fui chiamata a seguirlo. Al Gruppo rimanemmo due anni e fu un lavoro interessantissimo, mi piaceva moltissimo lavorare in politica e la mia fama di “segreteria di…” aumentava. La segretaria storica non seguì l’onorevole, lei era storica, ma lo era nel PSI e lì voleva rimanere.

Essere Presidente del Gruppo Parlamentare voleva dire essere Capogruppo, essere cioè all’interno del Parlamento e costituire la proiezione del partito in Parlamento stesso. Quindi una figura di prestigio all’interno della politica.

In quei due anni e mezzo al Gruppo  me ne successero di tutti i colori, alcune cose da ridere altre invece di estrema gravità. Una cosa grave mi capitò quando un “tizio” socialista mi chiese una raccomandazione. Io naturalmente dovendo intrattenere rapporti sociali con tutti dissi al “tizio” – anche lui  di Milano e anche lui straricco- , che la cosa molto probabilmente si sarebbe potuta fare. Era una cosa di estrema delicatezza e appena fu possibile strappai il foglio di carta dove c’erano i riferimenti per poter intervenire.  Il tizio di che trattasi (seppi molto tempo dopo) si era venduta la mia buona fede facendosi dare molti soldi (mi pare 300 milioni) da  colui che desiderava la raccomandazione, dicendo che io volevo essere pagata per fare quel tipo di ingerenza. Naturalmente la cosa andò male, perché così doveva essere, e il  tipo che aveva pagato 300 milioni “a me” voleva denunciarmi. Fui salvata da un carissimo amico avvocato che casualmente era stato chiamato a condurre la causa e conosceva la mia onestà e la mia buona fede.

Il mio capo, dopo l’incarico di Presidente del Gruppo Parlamentare,  anelava a diventare Ministro, ma dovette aspettare perché in Sicilia c’era già un deputato siciliano nominato più volte Ministro e una Regione non poteva averne più di uno.

1992

Nel 1992 – dopo la morte di Falcone – in fretta e furia fu eletto il Presidente della Repubblica e di conseguenza il governo. Qui il mio capo fu nominato  Ministro. Ebbene, forse perché ero brava e obbediente mi propose di andare con lui al Ministero.

Naturalmente fu per me una gioia incommensurabile ed accettai.

Fiera di ciò che mi stava succedendo ed ancora incredula mi trasferii al Ministero e pensavo, anzi ero convinta, mi nominasse Segretaria Particolare, che è una figura di stretta collaborazione con il Ministro, ed è quella che oltre a interessarsi della segreteria del Ministro, da’ indicazioni sul lavoro e quant’altro.

La nomina a Segretaria Particolare non arrivò mai. Il Ministro si contornò di uomini e ognuno di loro voleva comandare. Io avevo il mio ufficio vicino al suo ma si capiva che non contavo nulla, se non ricevere i compagni siciliani che ancora e sempre più venivano a questuare “il compagno socialista” divenuto Ministro.

I signori uomini non mi degnavano di considerazione, io ero la segretaria nel significato più brutto della parola, tant’e che il giorno in cui il Capo di Gabinetto fece gli elenchi telefonici di casa e ufficio del nuovo team, io non c’ero. Presi coscienza di ciò e dissi al capo di Gabinetto che io facevo parte del team del Ministro ed era perciò pregato di inserirmi nell’elenco delle persone della nuova segreteria.

Tutto ciò per descrivere quanto fosse maschilista il mio Capo e quale impronta maschilista riuscì a imprimere già dal primo giorno.

 

ASPETTO FISICO

Mi preme sottolineare che lo scopo di questo scritto è quello di raccontare, anche con ironia, la personalità di quell’uomo al quale ho dato 25 anni di mia vita professionale.

Ve lo descrivo: giovane abbastanza, non brutto, corpo mellifluo, inizio alopecia, assente, sovrappensiero, né alto né basso, arrogante, poco umano.

Come qualsiasi essere umano maschilista aveva una lunga scia di donne innamorate di lui e perciò   intratteneva rapporti con molte di loro: alcune del partito, altre che venivano da fuori e avrebbero scalato le montagne per passare una notte con lui. Non capivo cosa ci trovassero di bello in lui e pensavo che forse era molto esperto in pratiche sessuali (non si può dire amore!).  Qualcuno diceva però che avesse anche rapporti omosessuali. Di questo non ne sono sicura e non posso dirlo, potrei invece elencare una serie di nomi femminili che sbavavano alla sua vista: giornaliste, magistrate, docenti, compagne socialiste, compagne comuniste etc..etc… sembrava fosse un Adone, uno di grande bellezza. E invece non lo era. Si diceva inoltre che nelle pratiche sessuali non fosse un granché, anzi si diceva che lasciava molto a desiderare sia come misura di membro genitale che come durata  di atto sessuale.  Naturalmente queste lamentele erano raccontate da coloro che passavano il proprio turno, una dopo l’altra fino alla ragazza di cui lui si innamorò.

 

 

AVVISO DI GARANZIA

Nel mese di aprile del 1993 mentre iniziava Tangentopoli  fu raggiunto da avviso di garanzia e si dimise da Ministro. La segreteria fu smantellata per dar luogo al successivo Ministro.

E’ inutile dire che dal momento in cui ricevette l’avviso di garanzia tutta la gente che lo venerava e ossequiava, sparì di getto. Nessuno lo conosceva, nessuno si ricordava più di lui. Fu anche arrestato e mi pare stette in carcere circa 20 giorni. In quella fase nacque la mia devozione nei suoi confronti. Non mi sembrava giusto che la gente non lo avvicinasse più o che facesse finta di non conoscerlo. Sapevo bene quanti avevano vissuto dietro di lui e quanti avevano sbavato al suo passaggio, anche le donne erano sparite, tranne una ragazza che effettivamente lo amava per quello che era.  Naturalmente lui era ed è sposato, ma il suo rapporto matrimoniale era conflittuale. Due figli, uno dei quali con molti problemi ma di grande intelligenza.

La ragazza di cui sto parlando era una giornalista ancora a inizio carriera poi diventata docente universitaria. Lei lo ha amato sinceramente ed ha sofferto molto per lui. La moglie sospettava qualcosa e sapeva anche chi fosse la sua rivale. Spesso si scambiavano frecciate velenose con messaggini sul telefono cellulare e spesso si incontravano in vacanza, perché i posti dei vip in Sicilia sono sempre gli stessi e sia l’uno che l’altra, essendo vip, frequentavano gli stessi posti. C’era da ridere!!!  

 

LA FIDATA COLLABORATRICE

Come dicevo negli anni delle sue disgrazie processuali cominciò la mia devozione nei suoi confronti e lui che non è, e non era stupido lo capì immediatamente e cominciò ad approfittarsi della mia buona fede. Per darmi il “contentino” inauguro’ il tempo della “fidata collaboratrice”. Mi presentava a tutti come la “sua fidata collaboratrice”. Naturale che questa fosse una sua strategia per tenermi come “lavoratrice a tutti gli effetti”  e naturalmente gratis, visto che non aveva più nessuno con cui poter interagire.

Nel 1997 dopo aver girovagato da un posto ad un altro, e dopo aver lavorato 2 anni al Ministero degli Affari Esteri, decisi di andare a lavorare all’ARAN in forma di comando.

E’ qui che comincia l’avventura  clandestina  lavorativa o dir si voglia “professionale” durata quasi 10 anni, con l’ex Ministro.

Premetto che la sede dell’ARAN è lo stesso palazzo dove una volta c’era il PSI. Dopo Tangentopoli, pian piano il PSI, dopo vari tentativi di ricostruzione, si disperse  e  per motivi di debiti dovette lasciare il palazzo situato in zona centro Roma. La sede fu presa dall’ARAN che è l’Agenzia che nacque nel 1993 con un decreto legislativo.

Io ero molto emozionata dal fatto di andare a lavorare in un posto dove già ero stata anche se con altri principi, la cosa mi emozionava moltissimo. Ricordo il primo giorno all’ARAN, davvero un gran battito di cuore. Le stesse scrivanie e le stesse sedie e poltrone esistenti anni addietro. Trovai addirittura la mia scrivania e mi misi a piangere. Era passato tanto tempo ed era passato male: Tangentopoli, arresti e morti.

Naturalmente l’ex Ministro fu informato da me stessa del mio nuovo lavoro e, ne fu felice. Non perse occasione per venirmi subito a trovare e secondo me, già la sua mente era organizzata, a stabilirsi a lavorare in quel luogo. Come solo una volpe sa fare, volle subito salutare il Presidente ARAN di allora –  personaggio di area socialista –   facendosi  grande che la sua “fidata collaboratrice” lavorasse in quella sede.

All’epoca l’Agenzia era politicizzata più che mai, nomine politiche e dirigenti quasi tutti di sinistra. L’ex Ministro fece il giro dei piani del palazzo, ricordando i tempi in cui lui era Capo Dipartimento e salutando tutti coloro che incontrava con grande affetto. Sembrava stesse “acclimatandosi” e voleva sembrare più cordiale e umano di quanto non apparisse; tant’è che se fuori incontrava qualcuno dell’ARAN non si ricordava chi fosse e non salutava. Questa cosa mi imbarazzava molto e restavo impietrita davanti a certe situazioni.

 

IL LAVORO – LA STRATEGIA

Qui comincia la sua strategia.

Devo comunque fare a me stessa un’autoanalisi e molte cose sono successe per non aver capito il cinismo della persona.  

Ero presa dalla sua storia e pensavo di essere una paladina, forse l’unica a dargli sostegno e aiuto nel periodo in cui era umiliato da tutti: giornalisti che non si occupavano più di lui, o meglio, usciva ogni tanto qualche articolo ma sempre in negativo. Ex politici suoi amici che non lo degnavano di una discussione. Personaggi come Martelli, Intini, Amato etc..etc.. che non lo chiamavano mai. La cosa mi faceva davvero rabbia e soffrivo perchè pensavo che …. poveraccio…..non meritava questo. Addirittura gente comune per strada faceva finta di non conoscerlo e spesso si notavano i sorrisetti malvagi delle persone come per dire “ti sta bene”.

Proprio all’ARAN comincia la storia che a distanza di anni mi appare illogica e irrazionale, ma che a quel periodo mi sembrava normale.

Succedeva che l’ex signor Ministro aveva trovato in me l’unica persona che lo seguiva e perciò aveva pensato: chi meglio di “questa” può aiutarmi a fare le cose che devo fare? Così è stato per lunghi 10 anni, fino a che i suoi procedimenti giudiziari erano in atto e fino a che lui aveva contatti a Roma con i suoi legali. Gli piaceva venire nella capitale, dalla Sicilia a Roma è un gran bel passo: incontrava tutti, chiacchierava con tutti e lavorava con me.

In pratica si era creata una situazione per così dire “kafkiana”: io dipendente ARAN lavoravo in sede quasi tutti i giorni per lui disinteressandomi completamente dei compiti istituzionali della mia Agenzia. Colleghi e dirigenti mi guardavano stupiti ma nessuno osava dire qualcosa, si sapeva che il Presidente fosse a conoscenza di questa situazione e tutti stavano zitti.

Ho lavorato per questo signore “clandestinamente” per circa dieci anni. All’ARAN lui veniva la mattina come fosse il suo ufficio, mi dava le cose da fare e stava lì  fino a tardo pomeriggio. Ho scritto al pc per lui  libri, relazioni etc..etc.. Nel tempo che trascorreva mentre io lavoravo, lui intratteneva le sue relazioni e spesso invitava la gente a salire all’ARAN che lì c’era la sua “fidata collaboratrice”, usava il telefono del mio ufficio come fosse il suo, gridava come fanno tutti gli arroganti e molto spesso chiedeva a me di telefonare a qualcuno per poi passarglielo. Non era sceso mentalmente  dalla poltrona della sua isterica supremazia.

Naturalmente tutto sembrava scorresse senza traumi ma la mia carriera all’ARAN si è fermata lì, non avevo promozioni né mai ero inserita in progetti dove avrei potuto guadagnare soldi. L’Onorevole di che trattasi mai e poi mai si era interessato alla mia condizione professionale ed economica. Tutti pensavano mi pagasse per il lavoro che facevo per lui, ma in dieci anni non ha mai sborsato una lira per ricompensarmi.

Stando così a contatto con lui conoscevo i suoi imbrogli e sotterfugi. Conoscevo la donna che frequentava conoscevo i suoi spostamenti, molto spesso gli tenevo il gioco. Non ero la sola a sapere della sua relazione, io però conoscevo i dettagli più particolari; la gente mormorava che lui avesse un amante a Roma e alcuni sapevano chi fosse.

 

LETTERE ANONIME

Ad un certo punto, pare che la moglie cominciò a ricevere lettere anonime dove le dicevano con chi stava il marito e dove stava. Tornava a casa ed erano storie. Ebbene il personaggio di cui sto parlando si difendeva rivolgendosi alla moglie in questi termini: “non preoccuparti cara, sai chi manda le lettere anonime? Le manda Grazia perché lei è una segretaria e le segretarie fanno queste cose”. Naturalmente tutto ciò lo disconoscevo, solo quando lui e la sua amata cominciarono ad avere discussioni, quest’ultima iniziò a raccontarmi la considerazione che lui aveva di me, cioè NULLA!! Mi considerava poco intelligente, invidiosa e capace di programmare e usare strategie per farli litigare: quindi lettere anonime etc..etc..

La ferita fu troppo grande, la disillusione insopportabile. Avrei voluto chiamarlo e dirgliene di tutti i colori, ma quando lo chiamavo al telefono non rispondeva mai, e neanche mai richiamava, a differenza degli anni passati che mi cercava ovunque pur di “installarsi” nel mio ufficio.

Il signore di cui io sto parlando fu nominato RETTORE di una Università nel 2005 e naturalmente ricostituì una segreteria e nuovi collaboratori. Non si degnò di offrirmi nessun incarico anche solo per ringraziarmi di quanto avevo fatto per lui in dieci anni.

Non lo vedo da circa 4 o 5 anni, viene spesso a Roma ma non ha il coraggio di fare solo una telefonata e chiedere come sto. Ho perso tanti anni dietro a  lui, ho perso promozioni e progetti, ho perso tanto nella mia vita professionale.

Ecco per concludere voglio solo dire che mi spiace aver conosciuto e creduto in un PICCOLO UOMO…

 


STORIA DI DROGA

 

Era il 1979 quando un mio amico mi mise in guardia sullo stato di mio fratello, dicendomi: “stai attenta a Marco perché si buca”.

Avevo 24 anni all’epoca studiavo psicologia ero fidanzata e una vita tranquilla con mamma e papà. Da quel momento in poi la vita non sarebbe stata più tranquilla, ma non immaginavo mai cosa ci aspettasse nel futuro.

Davanti a questa confidenza restai impietrita, incapace di reagire. Non capivo bene cosa significasse “bucarsi” ovvero lo capivo ma non ero molto informata sul problema, sapevo che era ed è una cosa che fa molto molto male.

Il mio pensiero subito a mia mamma e a mio papà, “speriamo non vengano a saperlo” pensavo. Purtroppo non fu così e tutto successe in maniera repentina, fu lo stesso mio fratello a confidare alla mamma che faceva uso di sostanze stupefacenti, quali l’eroina.

Non avevamo a quell’epoca una conoscenza del problema  e la soluzione che pensavamo era davvero riduttiva: “un po’ di buona volontà e ne esce fuori”.

In quel frangente di notizia bomba  ci si ferma a pensare come mai quel problema possa essere  capitato a noi, si sente dire degli altri ma non si immagina possa accadere nella nostra famiglia. E’ come una grave malattia, agli altri va bene,  ma perché a noi? Cosa abbiamo fatto di male?

Invece siamo tutti uguali in questo – l’unica cosa giusta nella vita: malattie e morte.  Le malattie possono venire a tutti, poveri e ricchi e la morte prima o poi porta via tutti.

Si rivivono gli anni addietro, quando siamo nati, quando siamo cresciuti, quando abbiamo studiato, i nostri affetti, la nostra terra, i nostri cari.

Noi eravamo un nucleo famigliare di 4 persone: mamma, papa e figli. Io la più grande, la più giudiziosa. Mai fumo di nessun genere, mai sballi mai niente se non innamoramenti continui di ragazzi che non mi prendevano in considerazione. All’università studiavo psicologia e li, nella consapevolezza degli studi  e grazie al mio aspetto fisico appariscente ma con sobrietà, avevo molti corteggiatori, a volte anche professori.

Le nostre origini nascono in Sicilia in un centro vicino il catanese. Tutti nati in quel paese con radicalizzazione li, in una casa matriarcale dove ci riunivamo tutti nelle feste per vivere in armonia con zii e cugini. Purtroppo la nostra felicità fu interrotta da un concorso vinto da mio papà nella pubblica amministrazione.  Mio padre era agricoltore e per una “vita migliore” lo hanno aiutato ad avere un “posto sicuro” a Roma. Siamo partiti quando mio fratello aveva 2 anni e io 9 anni. Ci hanno tagliato le ali, a Roma negli anni sessanta il razzismo era l’odio verso i meridionali, in particolar modo calabresi e siciliani. Mia mamma cercava casa in affitto e su molti palazzi c’era il cartello con scritto : “non si affitta a siciliani né calabresi”. Tutti i membri della mia famiglia non avevano nulla del prototipo siciliano, noi eravamo e siamo tutti discendenti normanni, con pelle chiara e occhi azzurri (non io purtroppo!!), questa nostra caratteristica disorientava i romani e spesso rimanevano di stucco per esordire con la mitica frase: “non sembrate siciliani”.

Mi chiedevo: ma che hanno i siciliani?

Dopo le riflessioni di una vita passata e la domanda del perché la  droga fosse entrata a casa nostra, per distruggere le nostre vite, purtroppo cominciò la tragedia .

Il protagonista della vicenda era lui: mio fratello di anni 18, fino ad allora bello come il sole, educato come solo un principino può essere, sempre bravo a scuola soprattutto  in matematica.

Il mondo delle fiabe finisce in un respiro quando un intruso penetra nelle famiglie per rovinare l’esistenza. Ecco, la droga rovina l’esistenza.

Comincia una vita fatta di disperazione, ma all’inizio c’è ancora la speranza che presto finisca. Solo speranza purtroppo, perché la droga non dà scampo non dà pace; la droga è ferocia a livello puro.

Dopo aver appreso quindi la condizione di mio fratello cominciai a pensare che dovevo salvarlo, non sapevo come ma in qualche modo dovevo  intervenire, naturalmente parlando con lui.

“Ho saputo che ti buchi, non chiedermi chi me l’ha detto, non posso dirtelo, ma sappi che so tutto “

“non ti preoccupare” è la sua prima risposta, “è stata un’esperienza ma ti giuro che smetto”

“Se lo vengono a sapere i nostri genitori, è un dolore” “ti ho detto di non preoccuparti” ribatte lui “smetto quando voglio”.

Intanto non avevo più pace: dubbi, dolore, ma la speranza che davvero poteva smettere. Non conoscevo  ancora gli effetti dell’eroina ed ero fiduciosa che bastasse la buona volontà per smettere.

Non era così purtroppo e cominciavo ad accorgermene mentre il tempo passava: mesi e mesi e non vedevo nessun miglioramento, anzi sempre peggio. Appariva sempre più emaciato e  sempre più assente. Chiedeva soldi a me ed ai miei genitori ed ogni scusa era valida, inventava le peggio cose per poter avere soldi. Allora la dose minima era 40mila lire.

Mia mamma cominciava a preoccuparsi, quel figlio era sempre più strano. Aveva già smesso di andare a scuola al terzo liceo, aveva trovato lavoro ma puntualmente non si presentava e il suo datore di lavoro informava mio padre.

I miei genitori ancora non si preoccupavano più di tanto, un figlio maschio può dimagrire ed essere assente per tanti motivi  legati alla crescita e agli innamoramenti.

Io che sapevo tutto morivo di dolore e non avevo il coraggio di dirlo.

Avevo saputo che continuava a bucarsi ancora e le promesse che mi aveva fatto non erano valse a niente, continuava imperterrito e sempre di più. Scappava da casa nelle ore più assurde adducendo sempre  qualche scusa credibile: “mi ha chiamato un amico” oppure “vado a fare lezione di guida” o ancora “mi hanno chiamato quelli del lavoro”. Non era vero niente, andava a bucarsi sempre di più.

Fu un giorno normale di pomeriggio che seduti in balcone io, mia madre e lui, all’improvviso Marco esordì dicendo: “mamma ti devo dire una cosa, ma non preoccuparti” , e lei chiese cosa gli fosse successo, “mamma io mi buco, ma non ti devi preoccupare che con un po’ di volontà smetto, e ti prometto che da adesso in poi smetto. Mamma te lo prometto”

Mia madre ebbe un colpo al cuore, pianse e ci chiese in cosa avevano sbagliato lei e nostro padre. Piansi anch’io che avevo già più consapevolezza di lei in cosa andavamo incontro. Mi ero informata e sapevo che non era più facile uscirne quando voleva.

Marco andava spesso “a rota” si dice così l’astinenza.

Il suo aspetto andava emaciandosi sempre più: colorito da morto, magrezza e scontrosità. Entrava in casa e andava a chiudersi in camera sua. Non parlava con nessuno, non mangiava ed era continuamente alla ricerca di scuse da propinarci.

Io ero sempre più in pensiero, la notte mi svegliavo impaurita e pensavo sempre e solo a Marco. Lo immaginavo mentre si “faceva” e il dolore mi attanagliava il cuore.

Una siringa di “roba” conficcata nel braccio è quanto più brutto ci possa essere quando pensi di avere un fratello a cui non è mancato nulla, anzi troppo gli è stato dato in affetto, attenzione e amore.

Abitavamo in una zona della via Tiburtina a Roma e li eravamo cresciuti da quando ci eravamo trasferiti dalla Sicilia. Il quartiere era molto popolare e come tutti i giovani di quel periodo ci radunavamo in gruppi a secondo dell’età. Io facevo parte del gruppo dei più grandi, i quali facevano uso di marjuana ma non andavano oltre. Marco più piccolo di me apparteneva a un altro gruppo e lì invece andavano oltre il fumo. Sapevo che avevano cominciato a sniffare eroina per poi farsela in vena. Tutti l’avevano provata e molti erano diventati tossicodipendenti senza saperlo. Uno di questi era proprio mio fratello.

I giorni e i mesi passavano e mia madre riusciva a mantenere ancora il segreto con mio padre, gran lavoratore al quale non volevamo dare quel dolore. Purtroppo le cose peggioravano nonostante Marco ci giurasse che stava per smettere o che  aveva già smesso, e un bel giorno mia madre si decise di dirlo a mio padre.

Ancora lo ricordo: era una sera in cui mio fratello era uscito la mattina senza dare notizie di sé tutto il giorno e ancora alla sera non tornava. Mia madre quindi preoccupata e arrabbiata disse a tavola, durante la cena, a mio padre: “nostro figlio si droga!” Il povero mio padre, ignaro che la droga fosse così pericolosa non sembrò tanto preoccupato e rispose che in gioventù si fanno tanti sbagli e dovevamo fare in modo di stare vicini a Marco che sicuramente avrebbe smesso.

Si capiva che quella notizia lo aveva ferito, ma non era tanto addentro al problema e sembrò non preoccuparsi più di tanto.

Marco intanto era sempre più dentro nella droga. Lo capivo io e mi arrovellavo il cervello per capire come poteva uscirne. Ne parlai con il mio professore di psicologia clinica, cercando aiuto, ma  tutto proseguiva normalmente come solo la droga sa fare.

La droga è quella sostanza  che rovina la vita, rovina il fisico e la mente. Non esiste nient’altro che la droga. Si pensa solo a lei si vorrebbe morire con lei non si ha paura di nulla.

Io parlo di eroina perché negli anni ’80 la droga era l’eroina, non c’era cocaina e non c’erano sostanze chimiche. O meglio c’era la cocaina ma era solo per ambienti snob, costava moltissimo e non era abbordabile nei quartieri popolari. Poi c’era l’LSD ma anche quella era per sballarsi una sera in discoteca. La droga d’eccellenza era l’eroina: un po’ di roba, un cucchiaino, un accendino e una siringa chiamata in gergo spada.  Questi gli attrezzi per farsi.

Oltre che studiare all’Università io già lavoravo, ma anche mio fratello lavorava in un posto della Pubblica Amministrazione. Era stato aiutato a frequentare un corso per operai che poi con un piccolo esame da superare sarebbero entrati a far parte della pubblica amministrazione. Era stato fatto questo nella speranza che il lavoro lo tirasse fuori dalla droga. Invece le cose peggioravano, perché con lo stipendio si faceva sempre più e sempre più peggiorava. A volte non si alzava per andare a lavoro ed in casa cominciavano le urla e la disperazione, ma lui con la testa sotto le coperte non sentiva niente.

La situazione diventava sempre più pesante e Marco decise di chiedermi aiuto. Finalmente si confessava  e cominciava a rendersi conto che era completamente schiavo della droga. Mi chiese se ero disposta ad accompagnarlo tutte le mattine al SERT (allora si chiamava SERT adesso si chiama SAT)che era ed è il luogo della ASL dove somministrano metadone, cioè “droga di Stato”.

Accettai e cominciai una nuova avventura. Tutte le mattine prima di andare in ufficio io e lui eravamo al SERT  per il programma di disintossicazione che loro stessi gli avevano prescritto. In quel luogo ho visto cose che mai avrei immaginato: giovani eleganti con borsetta ventiquattr’ore in fila per il metadone, giovani avvocati (ho saputo dopo) che prendevano il metadone, ragazze ben vestite che andavano lì tutte le mattine bevevano quella “bibita” e scappavano via. C’era poi il mondo dei diseredati, di coloro che erano a livelli di dipendenza difficile da uscirne, quindi ragazzi mal vestiti con visi cerulei e scavati, puzzolenti perché dormivano in strada e già ubriachi di mattina. Un mondo a parte, un mondo paragonabile all’inferno di Dante…cadaveri che camminavano.

Un’esperienza terribile durata molti mesi.

Avevo la speranza che Marco riuscisse a disintossicarsi per chiudere quella storia e tornare ad essere un ragazzo di famiglia, come lo era stato prima che incontrasse l’eroina. La mia era solo speranza, perché purtroppo l’eroina aveva già  vinto.

Furono giorni duri, ogni mattina in fila per il metadone, poi io andavo in ufficio e Marco mi diceva che sarebbe andato a casa invece poi venivo a sapere che si bucava anche di mattina dopo il metadone. Una tragedia, un vero inferno.

Cominciava a diventare uno zombie, anzi già lo era da molto tempo. Si andava avanti  con la disperazione. Mia mamma piangeva ma nello stesso tempo era decisa a salvare il figlio, e come si poteva salvare? anche nel peggiore dei modi: cioè facendolo arrestare.

Il primo arresto di Marco è stato voluto da mia madre che in un attimo di dolore ha pensato che era meglio che il figlio fosse in galera che non per strada e ad avere sempre il pensiero all’eroina. Scoprii che spesso  chiedeva l’elemosina e il brutto fu un giorno che tornando dal lavoro lo incontrai sotto i cunicoli della metropolitana che come un pezzente chiedeva soldi.

Ero sconvolta ma non   riuscii a fare niente se non allontanarmi al più presto e cercare di far finta di niente. Purtroppo non era cosi.

La vita in famiglia scorreva come meglio si poteva ma oramai eravamo segnati dal dolore, quel figlio e quel fratello perso era una pugnalata perenne al cuore.

Il giorno in cui mia mamma chiamò la Polizia per farlo arrestare fu davvero un giorno nero. Io non ero d’accordo pensavo ancora che con un po’ di buona volontà ce l’avrebbe fatta, ma mia madre molto più pragmatica di me disse che il figlio doveva essere arrestato, l’unico modo per distoglierlo dalla strada.

Al telefono con la polizia disse . “pronto” “sono la mamma di un ragazzo drogato e voglio che lo arrestiate”

“ma signora” risposero dall’altra parte “perché dobbiamo arrestarlo?” “non possiamo arrestare tutti i drogati” “almeno che’ suo figlio non abbia fatto qualcosa di brutto, non abbia commesso un reato”” la risposta di mia madre non si fece attendere: “certo vado a denunciarlo, mi ha rubato l’anello d’oro per bucarsi”. A quel punto la polizia non poteva fare altro che portarsi nella via della droga e controllare tutti.

A quel controllo trovarono effettivamente l’anello addosso a mio fratello. Non aveva fatto in tempo a venderlo,  e lo portarono perciò al Commissariato di San Basilio, ma dovettero rilasciarlo perché era incensurato. Mia mamma richiamò nuovamente la Polizia chiedendo spiegazioni del perché non avevano arrestato il figlio visto oltretutto che lo avevano trovato in possesso di un anello rubato. Risposero dall’altro capo del telefono che l’anello non era risultato rubato. La delusione di mia mamma fu forte, ma non si arrese e qualche giorno dopo avendo notato dal balcone che al figlio gli stavano dando la droga, richiamò la Polizia  e questi nuovamente fecero una retata.  Quella volta trovarono molta eroina e portarono in carcere 3 ragazzi tra cui Marco. Fu processato per direttissima e gli diedero un mese di carcere. Lo portarono a Regina Coeli.

Eravamo davvero disperati dal dolore. Nessuno era mai stato in carcere nella nostra famiglia e ciò ci sembrava “vergogna”. Andavamo a trovarlo e a fare i colloqui con lui, io e mio papà. Un grande papà dall’animo buono che non si vergognava di quel figlio. Mia mamma si rifiutava di vedere il figlio in carcere, ci diceva che sarebbe stato troppo dolore e preferiva non venire.

I colloqui in carcere con Marco erano dolorosi per noi,  ci sembrava non lo fossero per lui che si mostrava strafottente, ma capivamo che era colpa della droga. In carcere andava subito in astinenza e i dolori lo massacravano. Quel mese di detenzione fu un soffio di vento. Uscito da lì fu nuovamente in strada a mendicare per farsi di eroina.

Io non riuscivo più a parlare con lui. Era completamente in un altro mondo. Mi chiese però di accompagnarlo nuovamente alla ASL per provarci ancora una volta con il metadone. Fu cosi che lo accompagnavo tutte le mattine per un ciclo intero di metadone e nuovamente mi ritrovai catapultata in un ambiente estraneo alla mia vita: gente di tutti i tipi, cadaveri che camminavano e dall’altra parte dottori che trattavano queste persone come numeri. Ma cosa potevano fare di più? Niente si poteva fare. Il drogato non è più una persona, non ha sensibilità, pensa solo ed esclusivamente alla “roba” e a come racimolare i soldi per comprarla: chiedendo l’elemosina o rubando o facendo scippi.

Ero una donna ancora giovane e forse anche carina perché notavo che molti uomini mi guardavano, tra di loro c’era un medico tossicologo molto interessato a me. Questo mi permetteva di parlare con lui in qualsiasi momento, della condizione di mio fratello. Mi disse in primis che era sicuro che Marco provenisse da una famiglia così perbene, si vedeva che era un bravo ragazzo caduto nella trappola della droga, ma dall’altra parte mi disse che era davvero un tossicodipendente conclamato, cioè cronico e questo rendeva più difficile la situazione e anche il suo recupero. Sarebbe uscito dal tunnel della droga solo se avesse avuto una volontà di ferro, cosa che Marco non aveva. Le sue parole, la sua umanità, da una parte mi facevano bene, dall’altra mii gettavano nel dispiacere e nella paura di una vita di merda che avrebbe avuto mio fratello.

Il medico mi informava sempre sul percorso terapeutico di Marco e quando sembrava che tutto stesse andando per il meglio, quando cioè il SERT arrivava a scalare il metadone , venivo a sapere che si “faceva” subito dopo il metadone e nel pomeriggio continuava a “farsi”.

A queste notizie non si poteva sopravvivere, era un incubo, un doloroso incubo.

Sempre più e sempre più rapidamente la situazione precipitava. Passavano mesi e purtroppo anche anni. Mia mamma aveva perso dieci anni di vita, mio papà sempre a lavoro per mantenere la famiglia in modo decoroso.

Non riuscivamo a capire cosa combinasse Marco per acquistare la droga che gli serviva, non rubava a casa se non il primo e solo anello d’oro. Non frequentava più il SERT perché i programmi di disintossicazione vanno a scalare e stava per strada sempre più spesso. Non andava più neanche in ufficio ma era attento a inviare certificati medici. Marco era diventato una specie di cadavere ambulante, i nostri sforzi per tirarlo fuori dalla droga erano sempre più inutili e la disperazione era sempre più forte.

I miei genitori decisero di cambiare casa per portarlo via dal quartiere dove aveva iniziato a bucarsi, il consiglio degli esperti era quello  di allontanarlo dalle vecchie amicizie.

Detto – fatto.

Vendita di casa e acquisto di una nuova casa in un altro quartiere lontano dal primo ma molto ben collegato vicino alla metropolitana ma soprattutto vicino a me che ero andata a vivere da sola.

Fatica e sacrifici per un nuovo mutuo da mantenere ma con la speranza di un domani migliore.

La speranza durò ben poco perché Marco non solo non aveva abbandonato il vecchio quartiere, ma addirittura si sentiva più sicuro perché sapeva di non essere più tanto controllato dalla madre che prima lo seguiva come un segugio.

Quelle poche volte che tornava a casa era solo per dormire; le sue braccia sempre coperte da maniche lunghe anche in estate con un caldo torrido. Poche volte riuscivamo a vedere il suo braccio sinistro martoriato, solo perché distrattamente  dimenticava di coprirsi.

Un inferno quella vita. Spesso desideravamo la morte di quel ragazzo. E’ brutto da dire ma purtroppo l’eroina è come il cancro. Vince lei. Nella nuova casa e nel nuovo quartiere mia mamma non aveva più la situazione del figlio sotto lo sguardo vigile, immaginavamo soltanto quello che facesse quando sempre più spesso la notte non rientrava. A volte ci telefonava qualcuno dicendo che per strada, ubriaco, c’era quel ragazzo che chiedeva aiuto e qualche volontario o qualche persona buona d’anima ci telefonava per andare a prenderlo.

In quei casi la scena era terribile: Marco per terra come uno straccione, ubriaco e spesso con la siringa ancora conficcata nella vena. Non riusciva neanche a togliersi la siringa dopo che si era iniettato la droga.

L’inferno di DANTE era sicuramente meno doloroso.

Non si sapeva cosa fare, anni terribili, anni oscuri, non sii riusciva a vedere il sole.

Dopo molti mesi e poi anni cominciavamo a sentire che alcuni ragazzi amici di mio fratello erano stati trovati morti in qualche angolo di strada. L’eroina prima o poi raggiunge il suo scopo: la morte!!!!

In famiglia, cioè io, mia mamma e mio papà cominciavamo a pensare alla Comunità; ma per andare in Comunità ci vuole l’assenso del “drogato”, e non  è facile. La persona che si droga se non raggiunge il fondo, cioè l’inferno, non decide mai di rialzarsi. Nessuno può convincere un tossico a curarsi se non lo vuole lui stesso. Naturalmente Marco non voleva sapere di Comunità e continuava a dire che ce l’avrebbe fatta da solo, e che eravamo noi a non avere fiducia in lui.

Un giorno presi dalla disperazione chiamammo al telefono Don Pierino Gelmini il quale ci dette un appuntamento nel suo ufficio a Roma. Andammo io e mia mamma ed esponemmo a lui il nostro problema, la nostra disperazione.

Don Gelmini era in primis un uomo – grande uomo – e poi un Parroco – grande Parroco – e ci disse che non eravamo i soli, c’era molta più gente di quanto noi pensassimo ad avere lo stesso problema. Ci consigliò di essere duri altrimenti avremmo fatto il suo stesso gioco. Dovevamo lasciarlo fuori casa e proibirgli di rientrare. La sua casa da allora in poi sarebbe stata la “strada”.

Dolore su dolore ma forse necessario per una presa di coscienza del tossicodipendente.

Cominciammo una dura lotta con Marco e non lo facemmo più entrare in casa se non ci avesse comunicato la volontà di andare in Comunità. Il periodo fu lungo. Marco viveva in strada come un barbone, chiedeva l’elemosina in tutte le stazioni della metropolitana e con i soldi che racimolava si faceva, non mangiava quasi più : solamente eroina su eroina e ancora eroina.

Dopo un mese circa che non lo vedevamo più – avevamo notizie solo da persone che lo incontravano – eravamo certi che prima o poi avremmo ricevuto una telefonata che ci comunicava la sua morte. Altri suoi amici intanto erano morti, era rimasto lui e qualcun altro.   Il gruppo di amici “tossici” , inizialmente bravi ragazzi di famiglia, finiti nel giro della droga solo per stupidità, era di – forse – 20 persone. Pian piano quelle vite di giovani venivano sterminati come fossero foglie in autunno. Cadevano per terra per una dose di eroina troppo pura e restavano sui marciapiedi con la siringa ancora dentro la vena.

Io e la mia famiglia assistevamo  alla disperazione dei genitori che spesso conoscevamo, genitori che non avevano fatto niente di male se non dare tanto amore ai loro figli.

Non voglio giustificare i giovani dell’epoca, ma chi si drogava allora non sapeva a cosa andava incontro. Erano gli anni ’80 e si era ancora ignoranti sulla materia. Non si aveva la coscienza del male, della disperazione dell’inferno  cui si andava incontro. Non lo sapevano neanche i ragazzi che si avvicinavano alla droga per curiosità e pensavano di uscirne fuori come e quando volevano. Quando arrivavano all’astinenza…..era fatta!!!! Schiavi dell’inferno, precipitavano sempre più in basso e tanti – purtroppo – non si rialzavano più.

Morivano ragazzi di giovane età, il dolore per chi li conosceva era troppo. C’era la rabbia che a volte faceva pensare : “gli sta bene, che vive a fare in quelle condizioni?”, ma sapevamo che nelle famiglie il dolore era atroce.

Finalmente un giorno dopo circa due mesi che Marco viveva fuori, ricevemmo una telefonata che ci comunicava la volontà di entrare in Comunità. Era lui al telefono, aveva una voce debolissima come fosse dell’al di là. Lo facemmo rientrare a casa. Era in condizioni disperate, pesava forse 40 chili, colorito emaciato,  braccia e gambe con evidenti cicatrici da buchi vecchi e nuovi,  non mangiava da molti giorni. A casa si mise a letto e dormì per due giorni di seguito, il terzo giorno aveva necessità urgente di “bucarsi”, piangeva e urlava dai dolori e niente gli poteva dare aiuto: provammo con tanti farmaci che il medico ci consigliava, arrivammo a fargli dosi massicce di toradoll, ma la situazione restava tragica. Stava meglio per un’ora e ricominciava a urlare dai dolori.

Arrivammo a un accordo: sarebbe andato a farsi una “pera” (in gergo) accompagnato dalla sottoscritta e al ritorno saremmo immediatamente partiti per andare in comunità da Don Pierino. Era talmente disperato che accettò.

Lo accompagnai a drogarsi, naturalmente rimasi in macchina per non vedere ciò che mi faceva tanto male, e quando tornò “tranquillizzato” presi mio papà e partimmo per la Comunità. Lo lasciammo ai responsabili e andammo via come fossimo due persone in trans. Ci fermammo per piangere abbracciati.

Stette in comunità 3 anni. La nostra vita era migliorata, lui stava molto bene. Aveva preso coscienza di ciò che aveva passato e di ciò che aveva combinato in tutti quegli anni, sembrava rinato. Eravamo grati a Don Pierino Gelmini per il lavoro che faceva, era un parroco dalle grandi doti umane, grande personalità e grande carisma. I ragazzi delle sue Comunità lo adoravano, vedevano in lui la salvezza, vedevano finalmente il giorno, dopo tanto buio. Li ricominciavano una vita normale, fatta di regole, di lavoro, di sacrifici, di responsabilità, era insomma la giusta via per la riabilitazione.

Il periodo “giusto” per riprendere la propria dignità era di circa 3 anni. Dopo 3 anni Don Pierino li faceva riflettere e li metteva nelle condizioni di scegliere se andare o restare ancora.

Naturalmente mio fratello scelse  di uscire dalla Comunità e tornare a casa.

Il suo rientro a casa fu duro e ancora c’era la paura che tornasse alla droga. Infatti così fu.

Ci riprovò , andò in ospedale in fin di vita, fu portato  in rianimazione e ci stette per molto tempo, voleva suicidarsi ma non ebbe il coraggio.

Nel frattempo aveva perso il lavoro, i miei genitori avevano già deciso di cambiare città e andare a vivere in Sicilia in un piccolo centro,   abbandonarono Roma .

 

 

Già da tanti anni mio fratello e mia mamma vivono in Sicilia – il papà non c’è più –  e lui è seguito dalla psichiatra della ASL del paese. Marco  non è morto, non si droga più non beve più,  ma nell’anima e nel corpo i segni di una vita “sbagliata”.