Alla sbarra

In uno spazio quadrato di specchi,

nel brillante battere di un quattro quarti

su tasti neri e color dell’avorio,

cerco l’impossibile armonia delle membra

sferzando l’aria che sanguina sulla pelle

in gocce di sudore che ghiacciano i polmoni.

Sento il peso dei muscoli, la sofferenza dei legamenti

lo scoppiettio delle ossa come legna al fuoco,

le unghie degli alluci che rientrano nella carne

in una coltellata livida e stagnante

che fa battere il tempo e le arterie.

Il ginocchio cede al passo del vuoto,

le vertebre sussultano in un gioco elastico,

la pelle si gonfia, si spacca, lacrima nell’arsura di gesso

la cui sua durezza è il sostegno della menzogna.

Nel profondo respiro di movimenti imprigionati

l’infinito è incatenato dall’avidità del corpo,

il riflesso inganna lo sguardo,

con una bugia invadente e fatale.

La gravità nemica dei salti attira verso il baratro

dove l’equilibrio è l’eterna incertezza dei giri

e la brevità strutturale di queste linee

anticipa troppo presto la mia fine.


Il verbo

In una lingua che non ho scelto

mi sforzo di trovare un ordine alle idee

provo a cercare un senso alle parole a me oscure

a partire dal suono che dà loro una forma invisibile.

So che da qualche parte qualcuno

ha un dizionario infallibile

e si diverte a vedermi affannare nel rincorrere

bolle di parole che scoppiano

nel momento in cui le mie dita si avvicinano

alla loro iridescenza ingannevole e abbagliante.

E allora suoni distorti e sillabe confuse si sovraffollano

nella mia memoria labile e frustrata,

e quando finalmente credo di aver trovato

l’acqua e il sapone del mio pensiero, subito

mi tradisco con parole infedeli

in cui non mi riconosco.


Tango

Ad occhi chiusi sollevo le braccia,

si diffonde un segreto ancestrale,

incontro le braccia di qualcuno

che non sono quelle di ieri

né saranno quelle di domani,

precipitiamo nelle dune marine

di questo pensiero triste

e affondiamo nel calore umano

di respiri e parole silenziose,

nel palpito dell’improvvisazione speculare.

Potrei aprire gli occhi per vedere chi è,

ma non lo farò perché

voglio raccontargli la mia storia

con l’intensità della mia forza

e l’oscenità della mia leggerezza.

Scivolando come sull’acqua,

disegniamo forme geometriche

con compassi di gambe e punte di piedi.

Negli infiniti spazi l’aria è complice

e io dimoro nei suoi contorni,

seguendolo come lo specchio

e mi ripongo nella sua sostanza

nel tentativo di annullare la mia eccedenza.

Prigionieri e uomini di mare cantano

poesie di controtempi alternati

per i nostri incatenamenti sinuosi

che si articolano in un virtuosismo dell’anima

per poi sciogliersi e ripetersi nuovamente.

Pochi istanti e siamo gettati nell’inconoscibile

che scandisce la nostra morte quotidiana.

Poi, un silenzio breve come l’infinito,

mette fine ad ogni cosa, le braccia si separano

e io apro gli occhi, lo vedo per la prima volta

è, come me, un’ombra muta e senza nome.