MARACAIBO 1980

– Che si fa? – ci chiedevamo ogni fine settimana. I giorni in quel cantiere sulle Ande fluivano scanditi dalle lezioni del mattino, quelle del pomeriggio, lo studio, le letture serali. Il tempo in fondo scorreva in fretta, addirittura al galoppo, per interrompere bruscamente la corsa il sabato sera, quando si presentava sempre lo stesso interrogativo: – Che facciamo? –

Eravamo distanti cento chilometri dall’unico centro urbano che con un pizzico di ottimismo si potesse definire città, ma il percorso dissestato richiedeva fino al  triplo del tempo necessario al tragitto su una strada normale. Questo limitava decisamente ogni velleità di tuffarsi nella confusione urbana che, devo confessare, a volte mi mancava: viavai di auto, strombettii, scintillii di vetrine, frullavano allettanti nella mia testa.

Oltretutto, non possedendo ancora una vettura né potendo ottenerla facilmente in prestito dall’impresa, perché il nostro ruolo di insegnanti  non lo prevedeva, si rimaneva confinati nel villaggio, condannati al consueto programma che prevedeva riposo, bricolage, passeggiate, noia.

Ma un week end decidemmo di rompere il tran tran. La meta della gita, data la situazione, doveva necessariamente limitarsi a qualche piccolo centro dei dintorni e l’escursione si sarebbe svolta così: sistemazione in albergo, sosta ai bordi di una piscina, shopping. Insomma, niente di speciale, solo  un semplice cambiar aria.

Ne discutemmo con i nostri amici, una giovane coppia. Neanche loro possedevano una vettura, ma Mauro, che come tecnico ne aveva una a disposizione del suo ufficio, pensò di chiedere in prestito proprio quella per un’uscita domenicale. Fece di tutto per convincere il responsabile delle officine meccaniche (elevato in quell’ambiente al rango di “ministro dei trasporti”) a cederla per il week end.

E così, un sabato pomeriggio, raccolto in una borsa il necessario per una notte, montammo su una Brasilia (da notare, non una fuoristrada, al settore “colletti bianchi” non spettava): si trattava di un’utilitaria, una vetturetta economica prodotta dalla Volkswagen in Brasile, come testimoniava il nome, che circolava in tutto il Sud America, ma non solo, perfino in Nigeria e in Portogallo. L’equivalente, per avere un’idea, di una Fiat 850 per dimensioni.

Avevamo deciso di trascorrere la vacanza a La Grita, una località ad appena un’ora di strada.

Operazione preliminare: benzina. Sostammo a rifornirci presso una bomba de gasolina appena fuori del cantiere. In Italia, da qualche anno il prezzo del carburante era salito alle stelle e ogni volta che ci accostavamo a una stazione di rifornimento, provavamo la sgradevole sensazione di stare per  subire un salasso. – Quanta?- chiese il benzinaio. Ci guardammo esitanti: – Facciamo 20 litri? – Poi Rolando controllò il prezzo: – Ehi, gente, ma qui la fanno a 1 bolivar al litro! -. Roba da non crederci: – Muchacho, fai pure il pieno! –

Così, completamente gasati da quel rifornimento incredibilmente economico, ci avventurammo lungo la carretera stretta e tortuosa che scendeva verso la pianura, dove andava a collegarsi con la panamericana.

Nel tardo pomeriggio giungemmo al bivio. Ragazzi, c’erano due cartelli, due frecce volte in opposte direzioni. Una indicava LA GRITA 10, l’altra MARACAIBO 600. Sostammo perplessi: quel secondo nome, inatteso, ci aveva fulminati.

Sapevamo che era sabato sera, che eravamo partiti per riposarci, anche svagarci, ma quel nome… MARACAIBO… frullava nelle nostre teste a un ritmo vertiginoso. Una suggestione contagiosa? Eravamo in quattro, ma il pensiero fu uno: era a “soli” 600 chilometri quella città dal nome incantato, carico di fantasmi salgariani, di avventura pura. E quel nome non lo stavamo leggendo su  un libro, ma su un cartello stradale! La distanza da Trento a Roma! Scambiarsi le stesse impressioni e mettere ai voti la decisione se voltare a sinistra o a destra, fu tutt’uno. Decidemmo all’unanimità: cambio de sentido. Mauro sterzò a destra e via verso nord-est.

Siccome era già tardo pomeriggio, la luce andava velocemente scemando. In breve calò la notte oscurando il paesaggio fino a renderlo invisibile. All’euforia dei primi chilometri, subentrò una certa noia. Dovemmo anche fare i conti con la stanchezza dell’autista, l’unico ad avere la patente in regola per guidare, quella venezuelana, di cui noialtri eravamo privi.

La notte avanzava e Mauro cominciava a dare seri segni di cedimento (del resto aveva anche alle spalle una settimana di intenso lavoro).

Ogni tanto si dovevano oltrepassare gli alcabala, i posti di blocco della polizia che costellavano le strade venezuelane. Erano sempre preceduti da poderosi dossi che obbligavano a rallentare per consentire il controllo. Nelle guardiole i gendarmi sonnecchiavano oziosi, in attesa di sollevarsi pigramente al sopraggiungere di un veicolo, sempre anticipato per fortuna da un rombo premonitore: questo gli dava la sveglia, in modo che, dopo un riassetto frettoloso della divisa, potessero assumere un aspetto più consono, tale da incutere soggezione ai viaggiatori in transito.

Ma in genere davano appena un’occhiata e con un cenno invitavano a proseguire senza chiedere niente. La pratica di controllare il traffico in quel modo, dapprima ci parve alquanto strana, poi ci abituammo e le luci che si intravedevano nel buio non costituirono più un’incognita.

Mauro continuava a dare in smanie: dopo sette ore al volante, era cotto. Passata la mezzanotte, le sue forze si esaurirono. L’unica soluzione, se non volevamo metter radici in quei llanos deserti, era di cambiare autista. Fu allora che Rolando gli dette il cambio.

Riprendemmo la strada e neanche passato un chilometro, scorgemmo le luci di un altro posto di blocco. Ci avvicinammo con circospezione, incrociando le dita. Nessuno ci aveva fermato finora; contavamo di oltrepassare anche quel controllo senza che intimassero l’alt e invece… Il poliziotto ci trattenne con gesto perentorio. Il sangue ci si ghiacciò nelle vene. In Venezuela, se a un controllo delle forze dell’ordine risultavi privo di documento di riconoscimento, venivi subito arrestato. Era già successo a gente dell’impresa che, sorpresa in giro senza carta d’identità, era stata condotta senza complimenti in carcere. A quel punto era intervenuta, come sempre nei frangenti, “Mamma I.”, come era appellata in quei frangenti la nostra ditta. Ma stavolta era grossa, si trattava della patente di guida.

L’agente, lo sguardo alticcio e la bocca impastata, intimò al guidatore di scendere per sottoporsi al controllo. Rolando non se lo fece ripetere; smontò prontamente  e con l’aria più innocente di questo mondo, cominciò a estrarre dalle tasche tutti i documenti che aveva. Armeggiava con fare da prestigiatore, tentando, come nel gioco delle tre carte, un effetto di moltiplicazione: carta d’identità, passaporto, transeunte. Il poliziotto, scostato il fucile con piglio militare, li afferrò, prese a scrutarli con supponenza, mostrò un particolare interesse per il passaporto che aveva impugnato al contrario, e all’improvviso, esclamando un perentorio vaya, vaya, accompagnato da un gesto teatrale di via libera, ci autorizzò a proseguire!  Restammo sbalorditi. Ma come? Non aveva neanche chiesto la patente, che razza di guardia era?!

Riprendemmo la strada increduli, ancora stupefatti per essercela cavata con tanta fifa e basta. Respirammo a fondo e la tensione si allentò di botto come era venuta.

Per non rischiare oltre, Mauro, ormai reso ben sveglio da quell’iniezione di adrenalina, era tornato alla guida. Continuammo a meditare sull’accaduto, congratulandoci per averla scampata bella, finché non scorgemmo le prime luci della città.

Era notte inoltrata, un’ora centrale fra la mezzanotte e l’alba, quando facemmo il nostro ingresso trionfale a Maracaibo. Ormai cotti a puntino, agognavamo un letto e naturalmente ci mettemmo subito alla ricerca di un hotel per trascorrere almeno quel poco che rimaneva della notte. Ma chissà perché, le luci che da lontano parevano contrassegnare alberghi, avvicinandosi si trasformavano in insegne di farmacie. Scoprimmo con soddisfazione che Maracaibo, nonostante non paresse una metropoli, era una città ricca di farmacie che effettuavano turni di notte, di cui avremmo potuto approfittare, se ne avessimo avuto bisogno. Però di alberghi neanche l’ombra.

Dopo tanto girare a vuoto qua e là per lo scacchiere delle vie, su e giù per tangenziali e svincoli autostradali, gettammo la spugna: non restava altro che dormire in macchina. Ma da immaginare:  in quattro in una Brasilia? Come sistemare quattro elefanti in una 500!

A quel punto facemmo questa considerazione: se dormire in macchina non si poteva proprio evitare, occorreva almeno farlo alla grande:  che cosa più eccitante di una sosta notturna in riva al mare, sul bordo di una spiaggia caraibica, lambita da acque che, anche se per il momento nere (era ormai notte fonda), si sarebbero rivelate di smeraldo alle prime luci dell’alba?

Puntammo nella direzione che a occhio e croce doveva portare sulla costa e questa la trovammo senza difficoltà. C’era un capanno presso la spiaggia e convenimmo che sarebbe stato proprio romantico fermarci lì, pregustando già la poesia dei primi raggi di sole che ci avrebbero risvegliato… tra breve.

Dovemmo valutare allora come sistemarci: a Mauro, l’autista, spettava il posto di riguardo. Lo ebbe: poté sdraiarsi (sic) lui, alto un metro e novanta, sui sedili posteriori. Io ebbi il posto di guida, quello più scomodo davanti al volante; Rolando, più in carne di me, quello accanto. Quanto a Daniela, la più piccola, non restava che il portabagagli, non quello chiuso dietro, ovvio, ma quello sopra i sedili posteriori, la cappelliera per intenderci, eppure ci si raggomitolò d’incanto.

Precipitammo nel sonno. Neanche il tempo di addormentarsi, che il sole si levò. Indugiammo ancora con gli occhi chiusi, lottando contro la luce che si faceva via via più decisa. Poi dovemmo arrenderci: era giunto il tempo del risveglio. Ci aspettava la strada del ritorno, il viaggio al contrario.

Detti un’occhiata al paesaggio: in quella mattina tiepida che già preannunciava un caldo torrido, scorgevo un mare lucente, una spiaggia dorata. Mi avvicinai al capanno, unico conforto di quella notte, la macchia nera che con il suo aspetto romantico ci aveva fatto sentire finalmente ben accolti e protetti, dopo  che la città ci aveva respinto. Ma osservandolo bene (è vero che i sogni muoiono all’alba) si rivelò per quello che era: una toilette.

Maracaibo poi non si mostrò così degna di nota: niente di particolarmente interessante, escludendo  il ponte sullo stretto che collegava il suo vastissimo lago, punteggiato di derrick, alle acque dell’oceano.

Neanche il viaggio di ritorno fu tranquillo. Era destino che fossimo perseguitati dai poliziotti.

Los documentos! – intimò l’agente dell’ennesimo alcabala. Quella volta era Mauro alla guida: non volevamo sfidare ulteriormente la sorte, che si era mostrata già così benigna con Rolando (io e Daniela non ce la sentivamo proprio di rischiare, anche perché per noi donne il controllo sarebbe risultato probabilmente più pignolo).

C’era quindi Mauro al volante, ancora stravolto dalla maratona del giorno prima e dalla nottata passata praticamente in bianco. Il nostro pilota estrasse prontamente passaporto, cedula personale, permesso di qua e carta di là. Che stavolta però non bastarono: siccome la macchina era di proprietà della ditta, occorreva anche l’autorizzazione scritta a condurla, cosa che il “ministro dei trasporti” dell’impresa non si era neanche sognato di rilasciare, limitandosi a un permesso verbale.

A quel punto proponemmo di telefonare agli uffici di S. Cristòbal per trovare una soluzione. Ma il poliziotto scosse la testa in segno di diniego, neanche a parlarne; fece intendere tuttavia, più o meno velatamente (ma che dico, spudoratamente), che la faccenda si poteva anche risolvere.

– Come la mettiamo? – disse in castigliano, con fare ammiccante. E come la mettevamo? C’era da strozzarlo quella faccia di bronzo. Sganciammo l’equivalente di 10.000 lire di allora, cifra che  intascò senza batter ciglio, considerandola sufficiente a far tacitare la sua coscienza o a crederla più limpida di quanto non fosse. Poi se ne andò via palesemente soddisfatto, noi un po’ meno: ci era costata più quella multa estorta abusivamente che tutto il resto.

Rivangando in seguito l’avventura, dovemmo riconoscere però che aveva avuto anche i suoi lati positivi: non era poco aver riempito il serbatoio dell’ineffabile Brasilia con l’equivalente di mille lire né aver risparmiato i soldi dell’albergo. Senza considerare che assaporammo per giorni il piacere sottile del mancato arresto di Rolando al posto di blocco, un bel colpo di fortuna!