L’ISOLA

C’era una volta un’isola felice, azzurra e bianca, come il cielo e le sue nuvole.

Un porto di mare e di anime.

Era comune scorgerne all’alba, sul molo, la varietà: chi veniva, chi andava e chi, perduto, decideva di attraccare per qualche provvista, sparendo all’orizzonte poco dopo, fidanzate recitare addii stanchi, figli con troppa fretta fuggire, pescatori fissare le onde e piccole manine di bimbo fare ciao.

Alcuni quartieri, ma solo alcuni, mettevano paura; altri erano semplicemente spogli e tristi. Forse nessuno li visitava più.

Dal porto alla città, si doveva camminare a lungo. I confini costieri così impervi, fatti di scogliere scoscese, erano protagonisti di molte leggende popolari. Per circumnavigare l’isola poteva anche volerci una vita intera.

Poi finalmente, dopo una certa strada, sorpassato il mercato del pesce, apparivano il centro e la sua piazza. Celati quasi, soffocati, dal viavai della gente. Maestosi e vibranti, come la remota foresta di salici di quella terra, accoglievano avventurieri da ogni dove.

Questo cuore pulsante offriva comunque calore a chiunque vi entrasse. Nell’aria, l’odore della vernice fresca ritornava puntuale ad ogni primavera e sulle case il suo lieve brillio. Per terra, scaglie di pesce come coriandoli di luce. E quel municipio bianco che si reggeva su antiche colonne in granito di cui gli anziani portavano ancora il pesante marchio. Appollaiato al sole, qualche gatto.

Al tramonto gli abitanti, nessuno escluso, si ritrovavano lì, fra loro e per loro. Canti, danze, barzellette. Ridevano. Discutevano. Comunicavano.

Cancellavano qualsiasi titolo o distinzione. Per quella sera, come per tutte le sere, si stringeva un patto di alleanza.

Le nonne si affacciavano alle finestre regalando ghirlande di fiori freschi e ai forestieri più fortunati veniva raccontato di antiche tradizioni risalenti al tempo degli déi eterni e da essi benedette.

Ma la fine della storia era sempre la stessa: tutti ripartivano e in fretta.

La fama di un simile posto, così lontano dalla cattiveria delle restanti terre, attirò un giovane viaggiatore dalla pelle olivastra, scarno in volto e malconcio.

Forse nella sua breve vita aveva già visto più di quanto volesse, forse aveva scambiato nemici per amici e perso se stesso prima di poterlo trovare.

Così come perso nel tempo rimase il suo nome; ne resta qualche traccia solo nel mare, tra i racconti dei marinai ubriachi.

Esigeva un ultimo tentativo, prima di arrendersi alla cruda realtà, determinato a scoprire da solo il segreto di quell’isola felice, azzurra e bianca. Non sarebbe mai salpato né tornato senza averlo carpito.

Giunto in città, si sistemò sopra la bottega del fabbro, uomo di poche parole. Una branda, una sedia e poco altro. La voce si sparse velocemente: per la prima volta da molti anni uno straniero avrebbe soggiornato sull’isola.

E’ così che iniziò. E da subito fu chiaro che, qualsiasi cosa il ragazzo cercasse, si sarebbe fatta trovare a tempo debito.

Secondo le testimonianze, benché non troppo affidabili, egli trascorreva le mattine pulendo gli attrezzi di laboratorio e consegnando gli ordini ai clienti. Il pomeriggio, invece, lo passava nella grande piazza, quella grande piazza affollata. La panchina su cui era solito sedersi era sempre la stessa, ormai piegata alle sue curve.

Osservava ogni persona, i passanti e gli stanti, le giovani madri e gli operai sudati.

Attentamente. Continuava per ore, fino all’imbrunire. E capitava spesso, soprattutto di venerdì, che si recasse in farmacia a prendere qualche unguento per gli occhi arrossati. Furono mesi di lunghe riflessioni. Nessuno osava avvicinarlo, oltre al saluto e a brevi convenevoli, per la sua espressione perennemente accigliata.

Eppure diventò familiare, abituale, mimetizzato e cucito nel tessuto dell’isola stessa, che gli concesse i suoi spazi, come fa un genitore col proprio figlio.

Più viveva sull’isola, comunque, più sentiva di essere nel posto giusto per trovare le risposte desiderate. Ma in ugual misura, crescevano le sue domande. Era tutto così reale eppure insensato. A cosa servivano quelle ghirlande? Perché la sera gli abitanti si mischiavano fra loro scordando convenzioni sociali, privilegi e vecchi rancori? Qual era lo scopo di tutto ciò?

Nessuno sa quanto il giovane scontroso abbia capito. Lui e il fabbro si somigliavano in una cosa, certamente: troppe poche le parole a cui davano fiato. Non disse mai ad anima viva di quell’angosciosa ricerca. Di quelle angosciose domande.

Una sera, al termine della sua osservazione, a pochi passi di distanza dalla panchina, appena fuori dal negozio del barbiere, un bambino lo avvicinò. Era solo e vestito di verde. Sul nasino sporco, troppe lentiggini. Il giovane il cui nome si perse nel tempo, girandosi di scatto, quasi trasalì.

Gli occhi bruciavano, come sempre. Il bambino prese a seguirlo, ricalcando a grandi salti i suoi passi.

-Perché mi vieni dietro? Torna dai tuoi genitori, è tardi-

-Sì io questo lo so, signore- rispose -è lei che non lo sa. Prende tanto freddo qua fuori e poi la vedo andare in farmacia e in più non ha la giacca e quindi si ammala!-

Il bambino prese velocemente fiato.

-Io non capisco. Ho chiesto alla mamma e non capisce neanche lei. Tutti i giorni in questa piazza grandissima tutto solo. Perché non vuoi giocare?-

Il giovane rimase attonito, impietrito, di fronte a tanta preoccupazione e realizzò che nonostante le ore ed ore sulla panchina ad osservare ogni abitante dell’isola, il viso di quella creaturina gli era estraneo. Com’era possibile? Eppure al bambino vestito di verde sembrava non essere sfuggito nulla di lui.

Fu in quel medesimo istante, o almeno così si racconta, che il giovane comprese il segreto di quell’isola felice, azzurra e bianca, come il cielo e le sue nuvole.

Poggiò la mano sulla rossa testolina del bambino, lo ringraziò e sorrise a lungo dentro e fuori di sè.

La musica intanto era iniziata, le note accarezzate dai salici salivano in cielo e la gente come d’abitudine aveva preso a riversarsi in strada.

Lo stupore non era mai stato tanto. E mai più lo sarebbe stato. Tutta la piazza puntava dritto al ragazzo venuto dal mare.

Qualcosa era cambiato. E ballò quel giovane. E molto. Volteggiò libero, stringendo e lasciando mani di ogni taglia e colore.

La sua ricerca era finita.

Ballò di gusto per ogni via della città, fintanto ne ebbe la forza.

Il mattino dopo, raggiunto dai primi timidi raggi del sole, aprì gli occhi trovandosi sdraiato sulla solita fedele panchina. Abbassò lo sguardo, tramortito: al collo una ghirlanda di fiori e sulle gambe una coperta di lana. L’intimo gesto lo commosse. Per la prima volta, gli occhi arrossati dalla gratitudine.

Qualcuno narrò di averlo sentito chiedere al fabbro un giorno libero ma nella grande piazza non ci fu traccia di lui per l’intera giornata.

Dove andò e cosa fece restano tuttora un mistero. C’è chi dice volesse avventurarsi nell’isola e attraversarla da un’estremità all’altra o chi lo avrebbe sentito farfugliare con la farmacista di una pesca solitaria.

Ma quel giovane il cui nome si perse nel tempo non avrebbe mai chiarito tali dettagli.

Sparì. Semplicemente

D’altronde quello era un porto di mare.

La sera stessa, alla festa di piazza, tutti i presenti non parlarono d’altro. E il giorno dopo e quello dopo ancora. In fondo era un tipo divertente, broncio a parte. Che peccato averlo scoperto tardi!

E la vita riprese, beatamente ignara.

Qualcuno trovò, anni dopo, nella vecchia mansarda del fabbro, un dipinto avvolto in una coperta di lana. Raffigurava la grande piazza in festa. Moltissimi i dettagli, meticoloso lo sguardo del pittore e sullo sfondo, una panchina. Vuota.

La dedica sbiadita sul retro della tela recitava:

Perché no”?