PAROLE IN DELIRIO

E’ Lunedì, le parole sono andate dall’estetista, si sono messe gli abiti più belli e se ne sono andate in piazza a rivendicare i diritti.

E’ Lunedì, le parole ritornano a casa, piene di lividi, di ferite che sanguinano, gli abiti strappati e tutta quella polvere attaccata ai piedi nudi.

E’ sempre Lunedì in questa grande perdita dei diritti, persino il diritto di chiedere è stato abolito.

Le parole si guardano in faccia, cambiano il posto al tavolo, diventano vegetariane e tagliano i sogni e le lenzuola a strisce, fanno una bandiera che non smette mai di sventolare alla finestra.

Le parole dormono nude sul pavimento, ferite e abbandonate dai sensi fondamentali.

                                                                       2.

La libertà è rimasta sofferente sulla soglia di un Martedì cupo. Le parole si svegliano, fanno colazione con i loro pensieri e cancellano il giorno, mettono a rovescio i calendari e cominciano a scrivere il discorso dei silenzi, quelli dei risvegli, di pranzo e quelli della cena, ormai parlare con la bocca chiusa è un ritorno ai sensi finché Mercoledì riprende i suoi ritratti.

Le parole amano la loro arte, sano mettere l’intera vita su una tela. La loro casa è piena dei dipinti. A volte i colori scollano dai muri, coprono i corpi delle parole e tutta la dimensione si sposta.

In punta dei piedi o a salti tra Giovedì e Venerdì ormai non ha più nessuna importanza, sul davanzale il sole sorge ripetitivo come la rivolta, come il declino o come l’amore che conosce a memoria i movimenti di questi corpi.

Nell’ultimo giorno, le parole definiscono la loro festa, affittano la casa e decidono di fermarsi sulla prima pagina del giornale locale.


IL BUIO SENZA SCARPE

“Chi sei tu, così indefinita , non ti conosco affatto, è meglio che te ne vai!…
Giro le spalle ma non ho le spalle, è l’illusione del mio movimento…la fuga, ecco, la fuga è cosa migliore da fare ma, le gambe non si muovono, ehi, cosa succede, non si può scherzare così?!
Ti ho detto che per me sei un’estranea, non ti voglio parlare, perché mi segui? Il tuo soffio gelido nella mia nuca, Oddio, vai via!
Accidenti , sto urlando e nessuno mi sente, si muovono tutti in questo spazio, mi guardano e non mi rispondono…gente! Che sta succedendo, voi non vedete questa spaventosa creatura?!
Se potesse solo arrivare alla finestra! Così potrei buttarmi…qualche piccola frattura non sarà niente in confronto di questa macabra compagnia …
Inutile provare, le mie ossa sono rigide, questo corpo non vuole obbedire … e poi fa tanto freddo…
Nessuno cambia la lampadina, è buio.
Accendete la luce! Maledetti voi che mi ignorate in questo modo! E tu, che hai da ridere, brutta bestia che non sei altro! Ti sei guardato almeno nello specchio stamattina?! Hai la faccia sporca ma, nemmeno una faccia, sembri una maschera…ehi, non ti azzardare ad avvicinarti a me!
Avevo un orologio, dove è? Almeno potrei sapere l’ora, penso che è già tardi, parlano tutti piano per non svegliare gli altri, ma loro non vedono che i muri si muovono, diventano di gomma, Oddio, la stanza si fa piccola!..
È buio ..tu, sconosciuta maledetta che mi fissi così! Lasciami! Lasciatemi in pace!
Non posso respirare, la stanza si attacca a me, prende la forma del mio corpo, di questo letto così bianco, lenzuola d’acciaio, e tu, che hai rubato il mio volto, il mio nome, tu che traslochi tra le mie costole, senza pagare ti impadronisci di questo cuore, del mio che ero te da allora…!”

LILIANA PAISA


DIALOGHI ASSURDI

La mano destra sciopera, il suo lavoro è sempre più precario e la dignità è diventata solo uno striscione. Basta!
La mano sinistra guarda la destra mentre sciopera e comincia la sua arte sullo scioperato.
“Ehi, tu – disse la destra a sinistra – perché non scioperi, non vedi che i nostri diritti sono violati?”
“Io, cara sorella, ho la mia arte e non mi mancherà mai, io faccio l’arte della tua rivolta”.
“A chi servirà la tua arte se i diritti sono violati, guarda un po’ questo corpo, guarda!”
“Sì, tranquilla, lo sto guardando, vedo ciò che sempre ho visto: un corpo debole, amante dei suoi vizi e se non ha abbastanza li crea, i vizi creati all’istante sono più potenti”.
“Io – disse la mano destra – sono nata per lavorare, a te è stata donata la parte artistica della vita ma, non puoi capire questa arte, è inutile parlare con te.”
“Abbiamo dei compiti ben precari per questo corpo, non possiamo cambiare – disse la sinistra sistemando la tela del suo dipinto”.
“A me dici?! Chiedermi quante volte ho dovuto difendere quest’uomo, ti ricordi, no?! Amava tanto litigare per qualsiasi cosa, una volta mi ha rotto anche il polso”.
“Mi ricordo vagamente ma, certo, hai ragione, e adesso perché scioperi per lui?”
“Ancora non hai capito, pensa un po’, dici che l’arte è il tuo mestiere, anche se di concreto non ho visto mai niente, è un uomo di 50 anni, ancora il mutuo da pagare, ha 3 figli che studiano, la moglie non lavora, se lui perde il lavoro, che farà? Te l’ho dico io: questo poveraccio mi costringerà a testimoniare il suicidio, no, questo non succederà ! Poi se lui muore, tu ed io siamo finite, mica farai l’artista post mortem.”
“Hai ragione”.
“Tu hai i principi, gli ideali, l’arte di far saper a tutti dove sta l’artistico ma, io, cara sinistra, – disse la destra – io ti ho protetta, ti ricordi quanti volte ho difeso te e quest’essere dagli scherzi dei bulli, dai litigi e adesso dalle manganellate delle forze dell’ordine.”
“Gli scioperi non sono stati mai graditi – rispose la sinistra – e poi gli operai hanno perso la loro dignità. La dignità d’un lavoratore è il lavoro stesso, se viene a mancare il lavoro c’è solo la sopravvivenza con le sue regole, che a volte sono le regole di strada..”
“Tu, cara – interviene la destra seguendo il convoglio – sai quanto me che la malattia sociale è incurabile ma, quando si ammalano anche le anime allora l’antidoto è la rivolta, se la rivolta viene inibita, le anime perdono loro stesse e per trovarsi passano alla lotta estrema..”

LILIANA PAISA


PAROLE IN DELIRIO

E’ Lunedì, le parole sono andate dall’estetista, si sono messe gli abiti più belli e se ne sono andate in piazza a rivendicare i diritti.
E’ Lunedì, le parole ritornano a casa, piene di lividi, di ferite che sanguinano, gli abiti strappati e tutta quella polvere attaccata ai piedi nudi.
E’ sempre Lunedì in questa grande perdita dei diritti, persino il diritto di chiedere è stato abolito.
Le parole si guardano in faccia, cambiano il posto al tavolo, diventano vegetariane e tagliano i sogni e le lenzuola a strisce, fanno una bandiera che non smette mai di sventolare alla finestra.
Le parole dormono nude sul pavimento, ferite e abbandonate dai sensi fondamentali.
La libertà è rimasta sofferente sulla soglia di un Martedì cupo. Le parole si svegliano, fanno colazione con i loro pensieri e cancellano il giorno, mettono a rovescio i calendari e cominciano a scrivere il discorso dei silenzi, quelli dei risvegli, di pranzo e quelli della cena, ormai parlare con la bocca chiusa è un ritorno ai sensi finché Mercoledì riprende i suoi ritratti.
Le parole amano la loro arte, sano mettere l’intera vita su una tela. La loro casa è piena dei dipinti. A volte i colori scollano dai muri, coprono i corpi delle parole e tutta la dimensione si sposta.
In punta dei piedi o a salti tra Giovedì e Venerdì ormai non ha più nessuna importanza, sul davanzale il sole sorge ripetitivo come la rivolta, come il declino o come l’amore che conosce a memoria i movimenti di questi corpi.
Nell’ultimo giorno, le parole definiscono la loro festa, affittano la casa e decidono di fermarsi sulla prima pagina del giornale locale.

LILIANA PAISA


 

 LA GUERRA DEI SENSI                

Ogni giorno nella piazza del Comune – lo spettacolo dei peccati capitali, a vincere sono sempre le parole dei sensi primi. Le parole cadenti, esiliate dalla grande parola o meglio detto grido, queste parole incontrano le parole comuni, semplici nel campo semantico quotidiano.

Inizia la guerra: la parola di Dio condanna la parola dell’uomo, “Avete messo in esilio voi stesse, avete distrutto con la vostra superbia il paradiso, vi siete cacciate da sole dalla bellezza ed ancora non riuscite a riconoscere il vostro peccato. Guardatevi, fate pena!”

Le parole dell’uomo guardavano le parole di Dio e mettevano l’ordine nel caos dei loro sensi.

“Ascoltate, care parole di Dio, noi non abbiamo tradito voi, ma creato come libero arbitro un campo semantico umano, ehi, se i peccati in mezzo a questo gioco hanno fatto la vita meno lineare, è una punizione che si copre la faccia con il velo del perdono, sono delle emozioni contrastanti, il sale della vita. Meglio un istante forte che una immortalità piatta, noiosa.”

“Come vi permettete, deboli creature marcite dai piaceri che fanno chiudere l’anima in un baule, come potete parlare così al vostro Creatore?” Mentre nella piazza la gente cercava di difendere la propria percezione, le parole di Dio e quelle dell’uomo si guardavano tramite una nuova dialettica.

“Avete creato un mondo fittizio mettendo dentro, come verità, le vostre pietose tendenze, falsi idoli, pregiudizi, forme vuote, senza valori, riempite con tutto ciò che la carne adora ma, avete mai guardato la vostra anima lasciata fuori, la vostra anima nuda e fragile nella tempesta dei valori persi, l’anima che sta ancora lì a difendersi dalle vostre menzogne”.

Le parole dell’uomo scrutavano da un parte all’altra la piazza pensando di aver potere sul creato.

“Noi, parole umane, abbiamo avuto il coraggio di togliere i dogmi attaccati alle spalle, cucite sulle bocche affamate, appiccicate sulla carne, libere abbiamo scelto ciò che rendeva stupenda la nostra libertà. Siamo ricche, potenti e non ci importa che i peccati capitali macchino il nostro sangue divino, la vita è qui, grida, è una forza talmente potente che ci trasforma tutti in essenze, e voi, parole di Dio, pretendete che mettiamo adesso una tonaca, entriamo nella clausura, spegniamo noi stessi e facciamo dei nostri pensieri il rosario per le preghiere? E’ colpa vostra, eravate talmente intransigenti nei sensi che non avete lasciato un’altra scelta, cosa volevate, un esercito di sacerdoti? Eh no, care parole di Dio, voi avete creato le verità e poi noi, ci avete messo nel bel mezzo di un mondo sterile, quasi intoccabile, ma non avete fatto i conti con il nostro rifiuto di essere immortali, burattinai in un paradiso statico”.

“Noi, parole di Dio, abbiamo le verità e possiamo mettere fine alla vostra illusoria vita.”

“E cosa fate, un altro gioco, per non annoiarvi, create un nuovo mondo e fate magari altri burattini, soffiate su di loro la vita? E per divertimento cambiate i destini? Care parole di Dio, sapete che le parole dell’uomo mettono sempre la libertà di illudersi.”

Le parole di Dio e quelle dell’uomo guardano l’albero nella piazza e se ne vanno via contando le mele già mangiate a metà, mentre nel nido si prendono lezioni di volo o di vita.

LILIANA PAISA

 


 

  L’APPARTENENZA

 

“Io mi fermo qui, è il mio posto di nascita, perciò appartengo al posto, metto su casa, famiglia, i miei figli avranno la stabilità di questa terra”.. così cominciò la storia d’un uomo che non voleva essere universale, sapeva che la terra metabolizza i suoi abitanti, sapeva bene che chi si ferma in un solo posto non appartiene a sé stesso ma a quel posto, è una metamorfosi inevitabile.

“Antonio, senti alla sera il chiasso del bosco? Si dice che le anime d’abeti sono le anime dei nostri antenati, metabolizzati da questa terra, diventati questi begli abeti, questo bel bosco, lì è la mappa di tutti noi, è la festa della metamorfosi.” “Eh sì, lo so bene, caro amico, me lo raccontava sempre mia madre, ma tu cosa credi?  Si dice che l’uomo deve andare in più posti ad abitare per non perdere l’appartenenza universale.”

“Antonio, sono il tuo amico e ti dico in tutta la sincerità: il vero uomo ha bisogno di stabilità e la stabilità si crea come la casa, mattone per mattone. Noi siamo figli di questi boschi, dove vuoi andare e per diventare cosa? La terra degli altri  non ti benedice come un figlio, ma come un estraneo. Io credo che ognuno deve rimanere nel posto dei suoi antenati.”

“Eh, sì, caro amico, anche io credo ma, vedi tu, il mondo è globalizzato, la gente si sposta da una terra ad altra, ha i figli da una parte, il lavoro da un’altra, la famiglia da un altro posto ancora, come si fa ad averli insieme?”

“Antonio, ogni spazio ha dei buchi come delle piccole celle dove rimangono le nostre energie mentre ci spostiamo da una parte ad altra, dividiamo in mille pezzi quest’animo e non apparteniamo nemmeno a noi stessi, figuriamoci al posto, siamo divisi dalla propria esistenza che è sempre nella ricerca della propria essenza. Antonio, io credo che dobbiamo restare qui, nella nostra dimensione.” “Amico mio, ti confesso che la mia malattia è non appartenenza, chi si stacca dalla propria terra si stacca dalla propria vita, va nel mondo come un’ombra a cercare il senso del benessere, a sopravvivere a un mondo in delirio per la sua instabilità. Io ho deciso, rimango qui, cercherò di vivere con quello che posso strappare a questa terra.” “Antonio, hai ragione, qui riconosciamo il nome delle stelle, degli alberi e delle erbe. Il grano odora di vita. La storia di tutti noi rimane nelle ferite di queste mani che seminano, che raccolgono, che difendono il paradiso.”

 

 

LILIANA PAISA

 


 

L’UOMO DI FUORI

“Ehi, rinnegato, quanto vale la tua gobba?” Lo prendevano sempre in giro i bulli del quartiere ma Elio sentiva solo il rumore dei pensieri.

Lui aveva una madre, un padre partito per trovare il nulla e aveva anche una zia. Il cane della zia abbaiava solo di notte, mai una volta di giorno. Elio non capiva perché.

Ogni mattino Elio sentiva la gobba più pesante, continuava a lavorare, amare e guardare il mondo di nascosto. La vergogna di non essere come gli altri mordeva l’animo di Elio. Era stato da tutti i dottori per il suo problema, si era sottoposto anche ad un intervento ma la sua gobba aveva cominciato di nuovo a crescere. Ogni volta che i pensieri riempivano la testa di Elio la gobba dolorosamente cresceva.

“Elio, guarda dietro te” – dicevano i colleghi a lavoro, “sei sempre attaccato alle spalle come fossero la parte più importante di te”..

Stanco di tutto questo, di sé stesso e del mondo intero Elio cominciò a pensare di meno e a giorni quasi per niente. Viveva la sua vita come fosse una successione di immagini su un gigante schermo. “In fondo posso provare ad avere un rapporto di fiducia con il mio destino” disse Elio a sé stesso. Così giorno dopo giorno diventò un estraneo anche ai suoi propri concetti. La sua gobba non cresceva più, anzi sembrava diventare più piccola. Elio si guardò nello specchio e non fu capace di riconoscersi. La sua pelle sembrava le sfumature di tutte le trasparenze messe insieme, gli occhi e i capelli, tutto di lui non era lui. Spaventato di non trovare più se stesso, di rimanere così estraneo Elio decise di cominciare a pensare, a riflettere, di riprendere quello che era prima ad ogni costo.

Le mattine passavano lasciando la routine su di Elio come fosse una malattia. La sua gobba ricominciò a crescere.

“Ehi, rinegato, quanto vale la tua gobba?” gli domandavano i bulli e stavolta Elio sorridente rispose loro guardandoli dritto negli occhi: “la mia gobba vale quanto voi messi insieme, lì sono i miei pensieri, le riflessioni più profonde, è la quintessenza di ciò che sono”..

Giorno dopo giorno Elio imparò a memoria se stesso fino alla fine di tutte le sue insonnie.

 

 

LILIANA PAISA