CONTATTI

Oggi è il 25 Marzo 2015, un anno e tre mesi che ti aspetto e anche oggi ho aperto la porta, ma tu non ci sei. Sono due giorni che non prendo le gocce blu, quelle che mi addormentano un po’ il cuore, che mi addolciscono la pena, ma l’afflizione si è fatta pesante, dolente, di notte non dormo e di giorno ti cerco fino ad avere l’ impressione che mi segui ovunque vado. Stamattina mentre Sandra mi faceva le unghie, impulsivamente ho girato lo sguardo verso la vetrina del negozio e il mio cuore ha incominciato a battere e a dirmi che tu eri lì fuori seduto sul muretto ad aspettarmi. Una voce mi ha detto”guarda che è lui, ti prego girati e sorridigli, guardalo come se lo vedessi per davvero, non lo vedi ma c’è, è lì per te”. Allora l’ho visto con gli occhi del cuore: eri seduto sul piccolo murettino basso a due metri da me, con le spalle rannicchiate e le braccia incrociate sulle ginocchia unite, mi guardavi con l’espressione pulita, dolce e tenera degli ultimi tempi, eri lì e mi spiavi innocentemente attraverso la vetrina, sperando che mi accorgessi di te. Mi sono accorta di te Matt, ragazzo triste e pensieroso e ci siamo guardati tante volte, con la passione dei nostri cuori infranti, indifesi, disarmati, con quella voglia pazza di ribellarci a questa condizione che ci ha tolto la possibilità di stare ancora un po’ insieme, ci siamo assorbiti, annegati nella compassione di noi due anime perdute, io di qua e tu di là e quel vetro tra noi testimoniava la barriera impenetrabile dell’invisibile gesto di Dio che ha dato e ha tolto.

Improvvisamente ti sei alzato, mani in tasca , le spalle sempre rannicchiate nel giubbotto aderente di pelle nero…per un’ attimo ho pensato che sotto avessi ancora quella t-shirt bianca a mezze maniche con disegnate le Torri Kio, che ti avevo portato dalla Spagna e che hai messo per l’ultima volta quella sera di Natale e che probabilmente ti è rimasta addosso e così lentamente come un piccolo felino indifeso ti sei avvicinato al vetro e hai puntato lo sguardo fisso su di me, hai capito che ti ho visto e mentre Sandra mi laccava le unghie con abilità, io ero rapita da te che nel frattempo avevi tolto le belle mani dalle tasche e le appoggiavi con i palmi allargati contro quel vetro, che premevi con forza e lui si indeboliva, diventava sempre più fragile sotto la disperata pressione che sprecavi su di lui con le dita lunghe e affilate. Ora sorridevi con una tenerezza audace e so che avresti voluto spaccarlo quel vetro, ma ti sei arreso di fronte all’impossibile e sei tornato a sederti sul muretto, ci siamo guardati sconfitti e ribelli e tu hai detto “scusa, mi dispiace” e io ho detto “perdonami se non posso aiutarti” e poi ho detto “aspettami fuori”.

Sono due giorni che ho messo da parte le gocce blu, dicevo e di notte non dormo. Stanotte ho deciso di venire io da te, in quel mondo invisibile che tanto mi attira. L’ho sempre fatto questo gioco fin da bambina e poi da adolescente, per sopperire al mio problema dell’insonnia, che ha distrutto le notti di mia madre per anni. Dal momento che non dormivo, mi coccolavo in un mondo tutto mio immaginario dove stavo divinamente bene e staccavo la spina, vivendo tutti quei desideri che la vita mi negava.

Quando penso a lassù immagino di approdare come per incanto in una spiaggia bianca come la neve, luminosa, con il cielo notturno e mille costellazioni, tanto basse che se alzo un braccio le tocco. E’ notte, ma tutte quelle stelle e pianeti brillano, occupano quasi tutto il cielo e lasciano poco spazio al blu e tutta questa luminescenza si riflette sul mare calmo, limpido, verde trasparente, c’è mille volte più luce che in una giornata soleggiata sulla terra. Io mi trovo lì, sola, penso che sono finalmente caduta in quel benedetto tombino e tornata in quella mia patria tanto sospirata. Sono serena e tranquilla e penso “questo è il Paradiso o la hall o una stazione di attesa ?” Non lo so, ma mi piace e mi sento bene, finalmente libera da quell’affanno che mi opprimeva, non sento più nessun dolore, solo una pace immensa in quella spiaggia immacolata, silenziosa, dove il mare è talmente immobile che s’infrange su di essa con un’indolenza dolce, come se volesse accarezzarla, castamente baciarla, per poi ritirarsi con delicatezza, senza fargli male. All’improvviso sento l’eco lontano ma ancora vivo del mio mare, che urlava in balia dei venti e incazzoso travolgeva la spiaggia ligure e senza nessun rispetto se la mangiava tutta riducendola ad una pietosa sassaiola, ma io l’adoravo anche così vivo e ribelle come me. Ora non so se posso camminare su quella sabbia, ma ci provo, a piccoli passi, lasciando piccole orme e scopro che qualcosa di me è rimasto! Ci sono delle pietrine che brillano, sembrano diamanti o forse lo sono veramente, le raccolgo con cautela come facevo con le conchiglie, ma non so dove metterle, messa come sono con il pigiama leggero e senza tasche. Ho ancora le scarpe rosse eleganti con tacco a spillo che ho indossato per l’occasione, ma decido di toglierle. Il mio sguardo si dirige verso la parte superiore della spiaggia dove c’è una duna a forma circolare e tanta vegetazione marina e poi tende bianche di garza o lino leggero in balia dell’aria che soffia lieve, attenta a non disturbare quell’equilibrio impressionante. C’è una donna con il viso da bambina e dei rumori di voci e poi all’improvviso ragazzi che arrivano dappertutto, giovani, non ancora uomini o donne e ho pensato “forse lo sarebbero diventati se avessero avuto il tempo”. Raccoglievano anche loro le pietre preziose che spuntavano sulla spiaggia e le portavano a lei, a quella donna bambina così incredibilmente bella che attirava tutti a sé. Anch’io le ho portato i miei diamanti e lei li ha appoggiati sul banchetto che sembrava un’ altare insieme agli altri.

I ragazzi giocavano, correvano, si tuffavano in quel mare puro come loro, innocenti creature, altri un po’ più grandi erano seduti sulla sabbia in circolo e parlavano con la donna bambina e lei li ascoltava e sorrideva. Mi sono allontanata un po’ per avere una visione più ampia o per farmi notare, se mai qualcuno mi aspettasse o cercasse. I ragazzi che erano a un passo da diventare piccoli uomini ma non ce l’hanno fatta, erano più alti degli altri ed erano vestiti come tè, vedevo tanti jeans lunghi e stretti , altri tagliati, t-shirt, chiodi di pelle nera, felpe con cappuccio, capelli lunghi, capelli corti, capelli ribelli e folti come i tuoi con basette lunghe e barba incolta, ma tutti avevano la stessa luce. Mi meravigliavo che avessero mantenuto lo stesso corpo, le stesse sembianze, e anche i cinque sensi, tutto esaltato da quella luce che li illuminava di bellezza e amore e mi è tornata alla mente quella frase pescata nel Librone “nella mia carne vedrò Dio ” ed ero sicura che fosse esattamente questo che era successo quando furono rapiti.

Intanto nel cielo sopra di noi scorrevano oggetti metallici, simili ad astronavi d’argento, che emanavano una luce abbagliante, si muovevano, si abbassavano, si alzavano e ripartivano come razzi e i ragazzi dal basso salutavano. Forse c’era una base spaziale, ho pensato, in fondo tutti quei pianeti erano talmente vicini che dovevano far parte dello stesso mondo dove mi trovavo io e probabilmente erano tutti abitati e collegati armoniosamente tra loro. Poi un’astronave si è abbassata sulla duna più alta, era immensa, lucida come l’argento e alcuni ragazzi più grandi l’hanno raggiunta e sono saliti con dimestichezza, altri sono scesi e mescolati tra la folla che li accoglieva festosamente. Si è aperto un varco in mezzo a loro e uno dei ragazzi veniva avanti, con il viso proteso verso l’alto e con la mano sinistra accarezzava la testa dei più piccoli, mentre loro euforici dicevano “l’ammiraglio”. Era distante da me e la luce era talmente forte che le immagini apparivano rarefatte, come liquide, non vedevo bene, ma intanto lui si avvicinava e sentivo qualcosa dentro di me che mi attirava come una calamita verso quel ragazzo del quale potevo vedere solo che indossava un chiodo nero con qualcosa di bianco sotto, andatura lenta, mani in tasca, pantaloni a vita bassa aderenti, stretti in fondo e stivaletti anfibi….doveva essere giovanissimo e ho detto ad alta voce “come mai ammiraglio?”un bambino accanto a me mi ha detto “ è lui che guida la nave” e io ho detto “ma è giovane, li ammiragli sono vecchi” e lui ha detto “devi essere esattamente come lui per comandare un’astronave”.

Il ragazzo carismatico intanto ha proseguito in direzione della donna col viso da bambina e quando è arrivato di fronte a lei è rimasto fermo, impassibile poi ha tolto le mani di tasca lasciandole cadere sui fianchi asciutti e in quel preciso istante ho sentito una scossa di amore che arrivava da non so dove ma che era qualcosa di sublime. Erano uno di fronte all’altro e lei lo ha accarezzato sulla guancia e sui capelli folti e scompigliati da ragazzaccio strano, come tra madre e figlio e si sono guardati con complicità, con sguardi che emanavano trasmissione di dati incomprensibili, con volti che non riuscivo a vedere perfettamente, ma dovevano essere pieni di emozione.

Il ragazzo si è girato all’improvviso restando fermo sulle gambe, con una lieve ma decisa ponderatio e la sua figura ora era armonicamente equilibrata, come una statua classica.

Dovevo trovarmi alle Maldive pensavo, non le nostre ma quelle che stanno lassù e che esistevano già nei racconti fantasiosi di Matt….”ci sono pianeti interamente come le Maldive, li girerò io poi vi manderò le foto”, scriveva.

E mentre riflettevo su tutto quel mondo che si era immaginato mio figlio, su tutto ciò che avrebbe realizzato se mai un giorno sarebbe riuscito ad arrivare lassù , sentivo la parte magica che c’era dentro di lui, ricordavo quei momenti in cui leggendo affannosamente le sue testimonianze irreali ero turbata, incredula, impaurita, confusa. Ora me le trovavo qui, dove ero caduta come una pera o trasferita in quelle astrofisiche Maldive.

Il ragazzo, improvvisamente, con uno scatto surreale che non avevo previsto, aveva lasciato la sua postura classica e si stava avvicinando verso di me, con uno slancio pieno di ansie e dolori repressi, da una distanza per me incalcolabile, una distanza che per lui ora era alla sua portata ed era sempre più vicino, tanto vicino che alla fine della corsa non ho avuto nemmeno il tempo di vedere chi mi stava stringendo con tanta forza tra le braccia, ma il calore di quelle braccia che avrei riconosciuto tra mille era il suo.

Sua la bocca sui miei capelli, suo l’odore di ragazzo dolce e tremendo, di uomo acerbo che non sarà mai uomo, suo lo sguardo bello senza ombre, come del frutto baciato dal sole che sembrava maturo ma fu colto prima per necessità.

“Sono venuta a trovarti” gli ho detto e poi “volevo dirti grazie e che ho imparato a pensare con il cuore” e lui ha detto “lo so mamma e ora non piango più, ma devi ancora crescere”. E io ho detto “se devo ancora crescere quando arriverà il mio momento sarò troppo vecchia e sembrerò tua nonna” e lui ha detto “ i nostri cuori e il nostro tempo si sono messi in stand by quando me ne sono andato”. Effettivamente lo osservavo mentre parlava e niente era cambiato in lui fisicamente, solo quella luce che lo avvolgeva, mi stordiva, inebriava e lo rendeva irraggiungibile, ma mi stava scivolando via piano piano e non riuscivo più a controllare a continuare quel gioco con Matt che aveva consolato la mia insonnia e mi aveva tenuta sveglia per ore, concedendomi quell’incontro desiderato. E ora stanca, con gli occhi in mano, non sapevo più fino a che punto fosse stato un salto nella mia fantasia o un salto dalla finestra! Così per non perdere il vizio ho finito per accedermi la sigaretta, quella del letto del mattino e l’abbiamo fumata insieme.


SUA MADRE

Continuavo a camminare, quando sentii la musichetta che Matt mi aveva impostato sul cellulare , il messaggio diceva “sono a casa mia, a mangiarmi due fichi, raggiungimi là”.

Quando arrivai vidi sua madre, era seduta davanti al pc, stava scrivendo quel romanzo che non finiva mai e restai a guardarla. Era bellissima, magrissima, senza età, le gambe sottili, abbronzate e nervose sotto il tavolo, erano unite e diritte, elegante e strana nel suo essere, così seduta sulla poltrona girevole, che faceva ruotare un po’ a destra e un po’ a sinistra con i fianchi stretti e il ventre piatto. Le braccia asciutte erano percorse da vene che si intravedevano attraverso la pelle sottile, dorata da quel sole che aveva preso e che ormai stava svanendo. Stava diritta davanti al display e le mani piccole e magre, segnate dagli anni, viaggiavano con le unghie lunghe e laccate perfettamente di rosa sui tasti e scrivevano tutto quello che le frullava in testa. I capelli mossi naturali, formavano delle lunghe onde a spirale, onde bionde che le cadevano innocenti sulle spalle, facevano da contorno a quel viso da bambina ribelle che non moriva mai, che resisteva nonostante le rughe che segnavano quel profilo perfetto. All’improvviso si girò e vidi che i capelli erano discretamente divisi in mezzo e ora potevo guardarla negli occhi neri un po’ all’insù, come il naso, piccolo, grazioso, occhi di ragazza che ha visto tutto e di donna che continua a vedere.

Viso da copertina e fisico da top, pensai, ma cervello di chi queste cose le lascia alle altre.

Doveva essere stata splendida negli anni passati, curioso la rividi con la mente e mi impressionai.

Aveva caldo, il caldo di quel settembre ancora estivo, che arriva all’improvviso e lei mentre leggeva quello che aveva scritto, si portò le mani dietro i capelli e iniziò nervosamente ad intrecciarli per far respirare il collo. Era bella anche così, con quella treccia fatta in casa, disordinatamente, distrattamente, automaticamente, di fretta senza nemmeno pensarci.

Non aveva trucco sul viso di chi non ha paura dell’età, “tanto sono stata bella e non me ne è mai fregato niente”, solo le unghie erano perfettamente lunghe e laccate.

Non era ancora giorno e già scriveva, Matt era appena entrato nei suoi pensieri, occupandole la mente, protagonista di quel film che vedeva solo lei, lui e io.

Decisi di continuare a leggere quello che scriveva.

Sono le sei e trenta o forse le sette, non lo so, non mi interessa, non ho voglia di sapere l’ora e ho già fumato due siga. L’odore della focaccia di cipolle del fornaio mi da la nausea e sono sicura che anche la mia casa non ne può più di quella puzza schifosa. Mi alzo senza far rumore, lui mio marito dorme ancora un po’, vado di là nel salone e apro la finestra. Fuori il vento è rumoroso, scuote le palme selvaggiamente, la pioggia cade imprevedibile e non si sa mai come va a finire, il mare è nervoso come me.

Ieri sera ha iniziato a piovere alle dieci, ieri sera eri nato tu e c’era la tempesta, ma erano ventiquattro anni fa.

Anche oggi forse ci sarà più movimento del solito con quel cielo scuro. La casa è ormai impregnata da quell’odore che ho detto prima, mescolato a quello dei funghi secchi che ieri ho tolto dal sole del poggiolo con i buchi.

Domenica di settembre, ieri è passato e da oggi ricomincia l’attesa.

“Stupida, perchè ti aspetto sempre quel giorno?” Aspetto come la ragazzina che fa le nottate sotto l’Hotel della sua rock star, sperando anche solo di vederla per un’istante.

E dire che lo so che non puoi farti vedere, che per te il tempo non conta più, che non è il tuo tempo, quello è solo per gli imbecilli che stanno ancora sul bel pianeta.

Per questo non guardo più l’ora, spesso arriva l’ora e nemmeno me ne accorgo!

Non guardo più la gente indifferente, mi salutano e io non li riconosco e poi “oh scusa ciao”.

“Ma chi è?” mi domando.

Avevi ragione Matt a dire che ti avevano visto abbastanza. Nessuno si ricorda più di te. Hanno parlato, oh se hanno parlato per un bel po’ e ora non sanno più chi sei. Ieri c’eravamo solo noi e tu lo sai chi. Gli altri ormai hanno preso strade diverse, le strade della terra. Nessuno ti porta un fiore, avevi ragione a dire che l’apparenza non conta! Ma a volte è una scusa e nasconde la più triste indifferenza. Ma è questo che ci fa crescere figlio mio, che esalta il nostro spirito: liberarci dal desiderio di essere esaltati, lodati, stimati, ricercati, preferiti agli altri, dal timore di essere umiliati, disprezzati, rifiutati, dimenticati e scherniti!

Desiderare che gli altri siano più stimati di noi, che gli altri possano crescere e noi diminuire, gli altri prescelti e noi messi in disparte!

Io una rosa bianca te l’ho portata, forse non l’hai vista, oppure l’hai presa e te la sei messa in bocca.

Tu Matt, con un fiore in bocca e quello sguardo strano, così ti vedo stamattina, mentre fuori tutto si sta rivelando, il mare si confonde con il cielo e la pioggia batte sempre più forte sui vetri che avevo pulito ieri. La tua tempesta c’è e io mi ci butto dentro, dove c’è lei ci sei anche tu.

Vorrei uscire e prendermela tutta, correre sulla spiaggia, bagnata fradicia fino al pontile, per vedere se sei li, salire fin sugli scogli e urlare insieme all’onda che ci sbatte contro, aspettando quella giusta, che li supera e mi prende chiusa come un’ostrica e mi porta via.

Mi trascina la in quegli spazi infiniti, dove tu sei già e io non ti vedo, murata viva come sto su questo pianeta.

Chissà con chi sei, spesso me lo domando e sento che c’è qualcuno con te, che vi muovete su e giù, che riesci a venirmi vicino vicino. Ti sento sai? Per te non c’è più il vetro che ci separava, l’hai rotto, c’è solo per me. Ma attraverso quel vetro ti vedo lo stesso quando voglio io o quando lo vuoi tu: “ i miei occhi ormai stanno dentro”.

Tra qualche giorno finirà questa stupida estate terrestre, la seconda che tu ti sei risparmiato!

La più breve di tutta la mia vita, quella in cui ho guardato il mare più intensamente di quanto avessi mai fatto, l’estate del mare desiderato e mai toccato, mai tuffato, abbandonato.

Quella dei pomeriggi trascorsi sul balcone, sulla mia piccola sdraio verde, al sole cocente, con i miei mille bikini alla moda che nessuno guarda più. Ora il sole di settembre si appoggia tiepido sulla mia pelle un po’ grinzosa, non l’aggredisce, la tocca appena e mi scorre un brivido di gelo, che mi sbatte già sulla faccia il prossimo Natale, quel Natale sfacciato e violento che mi prende a calci, a pugni e sputi in faccia.

E allora accendo un’altra sigaretta, schiaccio play su Battisti. E ripenso alle lamentele di chi parla tanto per farlo, di come mi stancano, loro che stanno bene e non lo sanno, loro che mi dicono che ho il muso, che devo sorridere che la vita continua……”fatevi il bagno nei ruscelli di Marte”, io che mi violento, per soffocare i miei sentimenti e i miei risentimenti.

Troppi insetti velenosi che mi attaccano appena esco di casa, corazzata di occhiali scuri, con i capelli disordinati sul viso e vestiti così messi a caso per non farmi riconoscere…”non può essere lei era sempre così sobria!” Gli insetti prolificano e ti succhiano il sangue, ti riconoscono, per quanti sforzi che fai per camuffarti ti desiderano, ti puntano il dito addosso e sul cervello.

Acqua, acqua di sorgente, ruscelli di Marte, devo lavarmi se no mi faccio schifo anch’io!

L’incubo che incombe “ma sono stata così, come loro?” Io ero come questi prima che il mondo mi sbattesse addosso tutta la sua rabbia covata per anni e ridurmi a quella bestiolina rara, oggetto di scherno e commiserazione che si confondono in quel “ciao come va?”

Dietro il paravento della perversione ti giudicano, ti feriscono, ti sputano addosso come i cammelli quella verità da tribunale, falsa verità, che si sentono forti di proclamare solo perchè noi abbiamo taciuto.

Matt mi direbbe un bel “chisenefrega” scritto “tuttoattaccato”, come sparare il colpo in canna e far subito centro, sorridendo dolcemente e abbassando la testa al cospetto degli empi. E io voglia di dargli baci, tutti quelli che non gli ho dato prima che partisse.

“ Baci, baci e poi ancora uno, l’ultimo, quello che non passò mai da quella porta stretta, quello dell’amore di mamma ,che restò sospeso nel vento freddo d’inverno, nel giorno in cui tutti facevano festa e che sta lì ancora, in balia della tempesta di tutti i Natali che furono e che saranno.

Quel bacio che non gli è mai arrivato e che tengo vivo, cullandolo ogni sera, con la sua ninna nanna. Quel bacio che scrivo con la penna rossa. Lacrime di sangue, no mi ha punto una zanzara, l’ultima di settembre, quella che non vuole mai andarsene, secca secca, non ha più ossigeno, ha l’ago moscio, ma non molla, è la sola che ha resistito alle mie bombolette spray, alle tavolette elettriche, la osservo come eroicamente cerca di sopravvivere, fino all’ultima goccia del mio ab positivo, che distrattamente le ho concesso di prelevare.

Ma si, tanto tra qualche giorno diventerai leggera leggera, fino a cadere a terra, seccherai da sola, con il primo freddo “non lo sai?”

Vado in cucina, lo so Matt che sei lì, ti ho sentito passare e ora stai aprendo il frigo.

Sei vestito terribilmente bene, mi sembri quasi tuo fratello! Come mai giacca e cravatta nera, camicia blu…e poi gli occhi mi scendono giù fino ai piedi…camperos!

Non rispondi, lo so che non approvi queste mie battute e allora ti dico “mi piaci vestito così, solo tu puoi indossare stivaletti americani con vestito made in Italy”.

Ora ti giri verso di me, sento che mi guardi e mi sorridi senza mostrare i denti.

“Cosa cerchi?” e tu mi hai detto “cerco i fichi” e io ti ho detto “ti piacciono i fichi?” e poi ho pensato che stupida, so che è goloso di quel frutto, ma il fatto è che quando c’è lui la sorpresa e l’emozione è così intensa, che tiro fuori delle frasi fuori luogo, come chi incontra per la prima volta l’amore della sua vita e non sa cosa dire e finisce per ingripparsi.

E tu mi hai detto “ma ci sei?”con la bocca piena del frutto preferito, poi scuoti la testa sorridendo dolcemente “eh poveri noi! Qui si perde la memoria! Ok dimmi perchè scrivi con penna rossa”.

E io gli ho detto “scrivo l’ultimo bacio, quello che non ti ho dato e non so dov’è”.

E tu hai detto “e lo scrivi con la penna rossa?” e io ho detto “mi ha punto una zanzara sul dito”.

E tu hai detto “L’ultimo bacio non c’è mamma… deve ancora venire. Me ne sono solo andato, pensavo l’avessi capito”.