ALGERI

Quel giorno tutte le donne gridavano, ad Algeri.
Quando cadde l’ultima paratia che celava l’onestà nella dimenticanza,
Parete di fango e di odio per commercianti vili,
Quando allora trasparì il più onesto principio di forza e di violenza,
Tutte le donne, ad Algeri, cominciarono a gridare.
Forza e violenza.
Forza del terrore, del piombo, delle lame e della miseria.
Forza dell’oro e di strapazzi epicurei tra profumi nauseabondi.
Egemonia erotica, perversione, violenza d’uomo.
Nausea di sangue e di vomito,
Sguardi attenti al muro più alto della rocca più alta,
sussulti e bagliori di una casba più vera, di fratelli più amici.
Così, quando non rimase che l’odore del cemento
e i montoni liberi tornarono sull’erba,
molti ricordarono che quel giorno tutte le donne gridarono, ad Algeri.
Quel giorno, ad Algeri, gridarono anche i bimbi.


TRILOGIA

Che splendida trilogia,
la vita, l’amore e tu.
Le automobili per la strada
Si rincorrono come cavalli impazziti
E due di esse, le più piccole, si divorano
Penetrando nei loro ventri di chimo umano.
Castoro innamorato
Devasto la mia diga di dignità
E così calcando
Ti raggiungo
Ti bacio
E ti uccido.


 IN UN SOLO MINUTO

(100 battute per 100 righe)

Mi sembrava impossibile, forse aspettavo questo momento da più di vent’anni e in un solo minuto
ho deciso di rinunciarvi.
Le avevo regalato due anni della mia vita e per i successivi venticinque ho amato i clamori dei suoi
successi, forse ogni mattina, cancellando dalla mente tutti gli amori, le avventure, le passioni e gli
amplessi che, dopo di lei, avevano segnato periodi più o meno lunghi, convivenze più o meno felici.
Io a Milano, lei in un’altra città, distante, nella quale spesso andavo per lavoro, a volte sentendola
così vicino. Nessuna possibilità di incontro casuale e, quanto a volerlo, lasciavo fare al destino,
come d’altronde poi è realmente accaduto, in modo del tutto casuale. E adesso, dopo venticinque
anni, eccola di fronte a me, in uno stadio di calcio: io sul banco dei giornalisti, lei che mi passa
davanti per una intervista ad un collega. Dietro di lei il clamore dello stadio, dopo anni di silenzi.
Mi sfila di fronte fissandomi una prima volta, dieci metri di gradinata a passo lento. Poi, quando
ripercorre lo stesso tragitto in senso contrario, si ferma, due banchi più in là, e mi butta addosso lo
sguardo, credo intesamente. Immobili entrambi, occhi negli occhi con le parole della mente, quelle
che non emettono suoni, ma che ti possono stordire. Lei con un lieve imbarazzo, che ho letto da un
impercettibile movimento del collo. Io con le cellule cerebrali a ricalcolare tutti i dati
immagazzinati negli anni, una rielaborazione immediata che a me parve infinita. Ogni energia
concentrata in quel solo minuto per un incontro che non poteva risolversi banalmente i un “ciao
come stai” e per il quale non avremmo mai speso parole comuni. Nessuno dei due. Eppure un paio
di mesi prima, dopo tanto tempo, le avevo scritto una lettera, alla quale non chiesi risposta. Avevo
letto sui giornali che era diventata mamma e che la sua bambina era bellissima. Ne fui felice, anche
perché quel figlio al quale avevamo rinunciato era stato il tema delle ultime parole che lei mi aveva
scritto e di cui ho sempre tenuto gelosamente cura, nel massimo riserbo. Mentre le scrivevo mi
domandavo se lei avrebbe percepito questa concomitanza e se avrebbe intuito il perdurare di un
sentimento d’ amore diverso dal precedente, adulto, maturato negli anni dentro di me.
Ci eravamo conosciuti ad un concorso di bellezza. Come capita anche a tante ragazze di oggi, lei
voleva scalare le vie del successo, mentre io ero già un affermato giornalista con tante conoscenze
nel mondo dello spettacolo. Potevo aiutarla e, come è natura di molti uomini, mi sentivo fiero di
potere diventare il suo Pigmalione. Ne fui sospinto. La cosa doveva restare lì. Professionalmente
ero capo-servizio di un giornale e di una televisione che si sarebbero giovate della sua immagine.
Fu così che lavorammo spalla a spalla e che mi innamorai di lei. Fu un incontro che segnò la mia
vita e la segna tuttora. Non volevo avere una amante, per rispetto verso me stesso e verso tutti
coloro che erano stati travolti da me e dalla mia vita. Lasciai la mia casa, lasciai mia moglie e mio
figlio, che allora aveva due anni. E quando mi si piegarono le ginocchia e restai solo, lasciai anche
il mio lavoro per ricostruire tutto daccapo. Non rimpiango nulla, doveva andare così e così è andata.
E’ comprensibile che una svolta così radicale ti resti dentro per tutta la vita, così come la donna che
ne è stata la causa, soprattutto se ci pensano giornali e televisione ad informarti di ciò che fa e di ciò
che dice; sono le dure regole dello show-business, che troppo spesso non ti concedono neppure per
una volta di guardare indietro. E in questo caso una sola volta sarebbe stato più che sufficiente. E’
altrettanto comprensibile che sia forte il desiderio di parlare ancora, di condividere la gioia dei
successi, senza acrimonia, senza retrospettive, senza se e senza ma. Forse è meno comprensibile che
nel momento in cui hai la possibilità di esaudire il desiderio, tu decida di non cogliere il sussurro
dell’attimo che fugge e che, inevitabilmente, non tornerà mai più. Non sei tu a segnare la vita, anche
se spesso la vita ti lascia addosso cicatrici profonde. La vita segna anche le tue emozioni e spesso ti
chiede di tacere.
Non fu la bellezza a farmi innamorare di lei. Amore e stima non possono fondarsi su una esteriorità
che prima o poi sfiorisce. Il tempo marca le persone ed io ne sono un’evidenza più che trasparente.
Un giorno le dissi che doveva immaginarsi con la cellulite e i fianchi meno modellati, con qualche
ruga sul collo e il seno a pera: se avesse voluto davvero diventare una brava attrice, come poi lo
diventò, avrebbe dovuto considerarsi così fin dal primo giorno. La bellezza, che oggi favorisce
stelline meteorizzate, era per me il suo handicap. Ho sempre temuto che i venditori di gloria
vendessero anche lei. Il mondo dello spettacolo è affollato di questa gente, anche molto famosa; ti
invitano nella città dei balocchi, popolata da reporters e uffici stampa. Se sei forte, forse, riesci a
resistere all’urto, ma troppe volte ho visto tanta sofferenza e il segno indelebile che questi
mascalzoni ti lasciano nel cuore. Non conto le volte, anche in tempi recenti, ove colleghi e fotografi
mi hanno richiesto materiale per i loro scoop: le sarebbero passati sopra con la delicatezza di un
caterpillar. Non volevo prenderla per mano, trascinarla verso il suo destino e abbandonarla nel
momento in cui necessitava solo che io ci fossi. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato e
quanto mi sarebbe costato. Bisognava studiare e lavorare, lavorare e studiare e, intanto, fare
emergere piano piano la sua immagine pubblica, nicchiando al gatto e alla volpe, ma rinviando al
mittente le lusinghe. Fu un lavoro duro, perché non sapeva fare nulla. Mentre imparava a cantare
presi contatti con i più grandi artisti italiani per concordare con loro una sua partecipazione in tour.
Ci voleva fantasia. Mentre studiava danza nelle aule della Scala di Milano, in via Filodrammatici,
presi contatti per la sua partecipazione ad una piece teatrale di successo. Mentre studiava
recitazione presi contatto con un grande produttore cinematografico, per avviarla là dove lei voleva
e dove avrebbe poi raggiunto il successo. Fece poi tutto da sola e lo fece anche bene. Come dirle
che di questo ero felice? “Ciao, come stai, sono davvero contento per te”. Quando sarebbe scaduto
quel minuto che stava scorrendo sotto i nostri sguardi?
Un giorno si infilò nel mio letto alle 5 del mattino. Era pieno inverno ed era ghiacciata dopo un’ora
di treno per venire da me. Alle nove avevamo entrambi degli impegni ed anche quella volta, come
sempre era stato per i nostri momentanei addii, ci fu molta tenerezza nel lasciarci. Abitavo in un
residence e sulla soglia della porta della mia stanza mi disse – sono incinta – poi girò le spalle e se
ne andò lungo il corridoio. Restai lì in slip, come un imbecille, felice e sconvolto nel contempo.
Stavo rivivendo la stessa sensazione in quel momento, poco prima che lei distogliesse il suo
sguardo e tornasse a sedersi nel suo posto numerato, tra 60.000 persone. Posticino intimo per questo
incontro: fortunatamente non ero più in slip. In una intervista, una volta, Vittorio Gassman mi disse
che riteneva la vita imperfetta perché contemplava la morte. Io gli risposi che la vita era imperfetta
perché non ti dà mai una seconda occasione. Feci un errore imperdonabile, benchè lei fosse
consenziente, e fu un errore delle cui conseguenze mai potrò liberarmi. Era quello un periodo in cui
l’aborto fu terreno per battaglie più ideologiche che coscienti, in cui la propaganda era mirata a
presentarlo principalmente come una conquista sociale. Io considero l’aborto una sconfitta
dell’uomo e della donna, perché prima di cancellarne istituzionalmente il reato, cosa peraltro
necessaria, si doveva ragionare sui distinguo e parlare alle coscienze della gente. L’aborto non può
essere una diatriba di parte tra laici e cattolici; così è una sconfitta per entrambi. Lo è soprattutto per
chi lo subisce irreparabilmente, per la donna ma anche per l’uomo, che in questi casi difficilmente
viene citato. L’aborto è qualcosa che ti rimane come una ferita insanabile, soprattutto se conosci
qual è la gioia di vedere crescere un figlio, di averlo vicino in ogni attimo della tua giornata, di
sapere che c’è. Così è stato ed è per me. Oggi al mio fianco avrei una creatura adulta che non ho
voluto. E non c’è rimedio. Guardo mio figlio, una gioia come per tanti padri, e mi domando: e se
non avessi voluto neanche lui? Come ho potuto sbagliare in questo modo.
E noi due eravamo lì, in uno stadio, con gente urlante intorno, che nulla sapevano di quanto stava
succedendo dentro di me, dei miei pensieri. Certamente neanche lei lo sapeva. Mi domando quante
altre vite abbiano vissuto quella partita in modo così diverso dalle patetiche ansie di un tifoso. Cosa
stava accadendo in quel momento mentre quattro ragazzotti ben pagati prendevano a calci una
palla? Quali parole avrei potuto usare per esaudire il mio desiderio di parlare, di accettare e di
essere accettato? Non ne uscì neanche una. Anzi, non mi alzai nemmeno dal mio posto. Lasciai
rivivere dentro tutto, in un solo minuto, fino a quando lei distolse il suo sguardo e riprese a
camminare sul sentiero della sua storia.

Lorenzo Lo Vecchio