IL VERO VOLTO DI DIO

 

Quando tutto è relativo sebbene unico

Capitolo 1

 

Pianeta Terra, anno 25.000.

 

Da quasi due secoli il sole, finalmente, era tornato a splendere sulla Terra.

La nube causata dal tragico cataclisma si era ormai del tutto dissolta.

I pochi essere che si erano salvati dalla fine del mondo avevano trovato rifugio giù nelle profondità.

Le sostanze che avevano invaso il pianeta non avevano lasciato scampo. Gli sconvolgimenti che avevano determinato la fine del genere umano avevano a loro volta generato delle strane e improbabili caverne in cui, giù nell’abisso, arrivava un’insperata fonte di calore che saliva da chissà dove.

Qualche fiume di lava aveva trovato delle nuove vie per scorrere da qui all’eternità o meglio finché non sarebbe stata bissata la tragedia che aveva oscurato il pianeta degli uomini.

Nel sottosuolo, a chilometri e chilometri di distanza dalla superficie, avevano trovato riparo quelli che sarebbero stati chiamati “I figli della Grande Madre”. Per secoli l’estinzione totale era stata sfiorata finché un po’ alla volta il ripopolamento di una specie in particolare aveva condotto alla costituzioni di nuove colonie disseminate un po’ in tutto il pianeta.

 

 

Capitolo 2

 

Pianeta Terra, anno 2012

 

 

 

 

 

Un’elite di uomini e donne, tenendo all’oscuro gran parte dell’umanità, da decenni si sta preparando al grande giorno. Quello che avrebbe segnato il punto del non ritorno, o quasi. Si tratta del giorno dell’evacuazione del pianeta Terra.

Molti anni prima un gruppo di scienziati aveva formulato un conteggio inconfutabile che dimostrava il prossimo impatto della Terra con la coda di una cometa. Un impatto dalle proporzioni drammatiche. Il pianeta, tra il 2015 e il 2025, sarebbe stato sconvolto da un avvenimento taciuto alle popolazioni. Del resto a cosa sarebbe servito rendere pubblica l’imminente fine del mondo?

Gli scienziati più ottimisti speravano che qualche lembo terrestre si sarebbe salvato, ma nessuno contestava il fatto che la luce del sole si sarebbe spenta per secoli.

Così un progetto speciale era nato dalla collaborazione di alcuni governi per creare una vera e propria migrazione dei terrestri verso lo spazio. Sarebbe cominciato per migliaia di uomini e donne un viaggio verso l’infinito alla ricerca di un pianeta che avrebbe potuto accogliere l’uomo e garantirgli un destino diverso.

L’11 luglio 2012 le prime cento navi spaziali furono lanciate con circa duemila persone a bordo, animali, attrezzi, semi e piante di ogni genere e specie. Ogni computer conteneva l’intera storia dell’umanità fino ad allora conosciuta.

Da quel giorno le partenze si susseguirono. Alla stampa il progetto era sempre stato banalizzato. Erano viaggi di nuovi ricconi alle prese con un modo di far turismo davvero dispendioso e di cattivo gusto…oppure scienziati visionari che partivano alla ricerca di pianeti abitati. Così quegli eccentrici  viaggi non attirarono mai la dovuta attenzione.

Il simbolo di quel nuovo ordine era l’oroboro, il serpente che si mangia la coda, a significare la perpetuazione del genere umano.

Era un serpente di speranze, con le ali del drago a significare il volo verso la luce.

Un simbolo che campeggiava la bandiera ben impressa sulle pareti delle navi che continuavano a partire dalla madre terra.

Capitolo 3

 

Pianeta Terra, anno 25.000

 

 

 

 

Questa generazioni di nuovi terrestri aveva conosciuto finalmente la luce del sole. Dall’alto si poteva scorgere come quella collettività, per secoli rintanata nelle viscere della terra, avesse ripreso a vivere sulla superficie del pianeta.

Una radura ospitava i raduni di quella comunità che veniva richiamata dal bisogno di ricevere il calore di quella palla di fuoco che aveva continuato ad irradiare il proprio sistema di pianeti. La sua luce però, per un tempo immemorabile, non poteva bagnare la superficie del pianeta Terra

La comunità di superstiti contava circa 5000 esemplari che in quella parte del pianeta avevano la responsabilità di ripopolarlo.

In quella radura tutti si aggrovigliavano attorno a quella che era considerata la statua della dea madre. Si trattava di una scultura consumata dal tempo e danneggiata probabilmente dagli sconvolgimenti terrestri di secoli prima. Era un simbolo, il simbolo.

La statua, realizzata in una lega di metallo, rappresentava un corpo femminile rotondeggiante. Quasi un Botero di ferro da dove emergevano i gradi seni ed una corona che abbelliva il capo.

Tutta la comunità si sentiva misticamente attratta da quella straordinaria opera d’arte che aveva anche la capacità di assorbire il calore del sole e trattenerlo anche nelle ore notturne.

Era la madre della Terra, la dea che regnava prima della fine del mondo. Era la linfa vitale del pianeta che aveva permesso la salvezza e che il ciclo della vita riprendesse. Era colei che riusciva a generare il perpetuarsi infinito del giorno e della notte, dialogando con la luna e con il sole, chiamando la pioggia, domando il vento e proteggendo la natura che tornava ad essere rigogliosa.

 

Capitolo 4

Pianeta Terra, anno 25000

 

“Il tempo è quasi giunto” disse Ofelia mentre il compagno si stava recando alla radura.

“Certo, e questo ci deve rallegrare. Festeggeremo la dea madre con la nuova muta. La fine porterà un nuovo inizio e così sarà per sempre” rispose Marcus, da anni sacerdote di quella comunità terrestre.

Marcus cercò di trovare nell’aria cosa preoccupasse Ofelia, da sempre consacrata alla dea della radura e custode della leggenda che di generazione in generazione veniva trasmessa oralmente.

“La prossima non sarà una festa della muta normale. La nostra storia è destinata a cambiare. Conosceremo il volto di Dio…” spiegò Ofelia con aria preoccupata.

“E’ quello che tutti vorremmo Ofelia – rispose Marcus con  fare quasi fraterno – perché non hai fiducia? So bene che la nostra leggenda individua il momento sacro dell’incontro proprio alla fine di questo ciclo. Aspettiamo con fede…la dea madre ci proteggerà”.

Marcus si avviò verso la radura. Erano giorni densi di attività. La comunità come sempre accadeva prima della festa della muta era irrequieta.

Intanto, Ofelia prolungò il proprio corpo verso Est e pronunciò la preghiera della creazione. La voce era tornata calma e in sintonia con lo scorrere dell’energia dell’universo:

“Madre nostra che sei tanto in terra che nel cielo che il tuo nome risuoni sacro nei cuori dei tuoi figli, che la tua saggezza sappia illuminarli e condurli nel ciclo delle vite. Che la tua volontà intervenga a supporto di chi ha avuto fede in te. Madre di tutti, creatrice di tutto, mostra la retta via ai tuoi figli e perdona loro i peccati perché ancora tanta strada devono compiere per glorificarti con le loro azioni ed i loro pensieri”.

 

 

 

Capitolo 5

 

Pianeta Oroboro, anno 25000

 

 

 

 

La nuova terra, il pianeta Oroboro, colonizzato migliaia di anni prima, viveva dei nuovi fermenti. Alcuni uomini e donne, che continuavano a studiare la storia del loro pianeta d’origine, volevano tentare il ritorno.

La nuova tecnologia degli umani avrebbe permesso il viaggio di ritorno in soli dieci anni. Un equipaggio di volontari aveva già programmato la nuova missione. Del resto erano stati vani numerosi tentativi per cercare di contattare la Terra con ogni tecnologia conosciuta. Non ci fu mai una riposta, un segno. Ogni scarica di energia veniva all’inizio interpretata come un segno della presenza di una qualche forma di vita in quella parte del sistema solare.  Dopo un po’ tutto veniva classificato come “nessun segno di comunicazione umana”.

La missione era ormai al conto alla rovescia. Il simbolo che campeggiava nel vessillo di quei pionieri di ritorno era proprio quello che migliaia di anni prima accompagnò l’uomo verso la sua nuova casa, l’Oroboro, il serpente che si mangia la coda, simbolo di rigenerazione e di nuova speranza per la razza umana che stava per tornare a casa. Simbolo che aveva dato il nome al nuovo pianeta degli umani.

 

 

 

 

Capitolo 6

 

Pianeta Terra, anno 25000

 

 

 

 

Quel giorno il sole sembrava brillasse ancora con maggior convinzione. I suoi raggi cercavano di infilarsi in ogni cunicolo che si affacciava su quella radura, una delle poche abitate del pianeta.

Quel sole scaldava al di là delle umane concezioni, penetrava l’essere infondendo la magica sensazione di essere in contatto con la Grande madre.

Era quasi mezzogiorno e la comunità, tutti i suoi componenti, di ogni grado ed età, era attorno a quella statua che veneravano con tutta la loro essenza. Erano lì immobili, sembravano persi in un’azione divina che doveva compiersi da lì a poco.

La festa della muta era iniziata e niente avrebbe potuto cambiare quel rito che puntuale si ripeteva con tutti i suoi significati sacri e vitali.

Tutto si svolgeva attorno a quella statua con il volto di una donna umana che probabilmente visse in quello stesso luogo più di venticinquemila anni prima. La statua rappresentava una donna possente come un guerriero ed allo stesso tempo con il cuore generose della madre. Sul capo era stata posta una corona dalla quale emergeva in tutto il suo splendore un cobra, un cobra reale.

Quello che stava avvenendo attorno a quel simbolo veniva percepito dall’inconscio collettivo di quella comunità che prendeva vigore ancora una volta dal principio vitale stesso che muoveva ciò che continuava ad essere e ciò che sarebbe stato. Ma era in quel preciso istante che si viveva in comunione con il tutto, con la dea della conoscenza, che rigenerava e guariva con il potere del fuoco, come era raccontato nel mito della creazione custodito da Ofelia. Lei stessa era in quella radura e si era lasciata andare a quella contemplazione. Niente avrebbe potuto cambiare quello che stava accadendo.

Marcus era stato l’ultimo a cedere a quel miracolo in cui la crescita del corpo coincideva con l’evoluzione dello spirito. In cuor suo sperava che la leggenda si avverasse e che il vero volto di Dio, quello della Grande Madre, apparisse a tutta la comunità, portando la conoscenza e la pace nei cuori di quella nuova popolazione terrestre.

Quella festa poteva essere l’ultima per Ofelia e Marcus che stavano avvicinandosi alla fine del loro ciclo vitale.

 

Capitolo 7

 

Nave stellare “Origine”, anno 25000

 

 

 

 

Dopo dieci anni di viaggio, la nave stellare “Origine” stava ormai per terminare la propria missione: riportare a casa circa cinquecento tra uomini e donne che intendevano scoprire cosa ne era stato della loro terra d’origine, il loro pianeta madre.

Era un ritorno a casa ricco di speranze e di attese. Il primo grande sogno di chi comandava quel vascello, che aveva navigato per milioni di chilometri, era quello di trovare i discendenti degli umani sopravvissuti alla fine del mondo.

Speravano di avere finalmente un contatto per sancire un ritorno a casa che grazie alle loro tecnologie avanzate avrebbe potuto portare conforto e nuove soluzioni alle comunità terrestri.

“Gli strumenti indicano che sul pianeta c’è vita, ma…non riesco bene a capire – sibilò l’addetto alla strumentazione di rilevazione della nave spaziale. Il capitano della nave interruppe il collega di viaggio: “Non diamo conclusioni affrettate. In questi millenni molto potrebbe essere mutato. La catastrofe potrebbe aver cambiato anche la fisiologia dei nostri  fratelli terrestri”.

Ormai il contatto era questione solo di ore. E tutto sarebbe stato svelato agli occhi di quei pionieri.

“Preparate la navicella per lo sbarco – comandò il capitano – che la squadra assegnata si prepari a scendere nel settore in cui si rilevano forme di vita”.

Il possente parlare dei motori attirò l’attenzione della comunità quando ormai la navicella stava atterrando ad Est della radura.

Non ci fu tempo nemmeno per reagire. Marcus, Ofelia e tutti gli esseri che erano da poco risorti dalla festa della muta si ritrovarono a guardare all’insù difronte ad uno spettacolo per loro miracoloso. Un essere gigante lì guardava dall’alto e una sua derivazione stava atterrando nel pianeta proprio in quel momento, vicino alla statua della dea.

Era il segno. La Grande Madre aveva deciso finalmente di far visita alla loro comunità come il mito di Ofelia aveva sempre raccontato.

La navicella si posò a terra. Sulla fiancata ancora una volta si poteva distinguere il simbolo di quegli umani che ormai erano tornati sulla Terra. L’oroboro, il serpente che si mangia la coda, era stata la prima impressionante verità che si stampò nella testa di Marcus e della sua comunità: cinquemila esseri con la lingua proiettata verso quella scatola da cui stavano uscendo dei marziani con il volto coperto da un caschetto protettivo con la visiera oscurata.

Erano in sette gli astronauti della nave Origine; camminavano tra la vegetazione, non troppo alta, preparandosi ad entrare nella radura. Non avrebbero mai lontanamente immaginato di assistere ad uno spettacolo simile. Non poteva nemmeno sospettare cosa o chi avrebbero trovato ad attenderli in adorazione.

Quei sette  esseri umani, ma non più terrestri da generazioni, comunicarono tra loro per assicurarsi che i caschetti potevano essere tolti. Alcuni di loro però chiedevano di attendere ancora affinché ulteriori analisi scongiurassero la presenza nell’aria di qualsiasi sostanza nociva che li potesse mettere in difficoltà.

Il gruppetto avanzava scrutando ogni porzione di quel terreno in preda a molteplici emozioni, ma sempre vigile e pronto ad ogni situazione. Pronti a tutto o quasi perché il contatto lasciò interdetti ed in silenzio quegli uomini.

Marcus, Ofelia e gli altri erano ormai faccia a faccia con i visitatori.

Davanti agli occhi degli extraterrestri, pur di origine umana, c’era la radura dove svettava la statua della Grande Madre. Attorno centinaia e centinaia di involucri vuoti, lasciati ad essiccare alla luce del sole. Era pelle…

Aggrovigliati alla statua, a quelle erbe non più alte di mezzo metro o incatenati volontariamente tra loro  c’erano migliaia di serpenti: la comunità terrestre dell’anno 25000.

“Contatto, contatto, ma non potreste credere…” un uomo della missione cercava di bisbigliare attraverso il comunicatore. Dalla nave regnava il silenzio. L’equipaggio stava a sua volta vedendo le immagini del contatto inviate da una telecamera attivata da uno dei componenti dell’avanguardia scesa sul pianeta Terra.

Il primo astronauta a togliersi il caschetto, per affrontare l’aria del suo pianeta madre, fu la dottoressa addetta ai servizi medici della missione Origine. I suoi capelli cominciarono a danzare sotto le folate di vento che arrivavano nella radura. Quel sorso d’aria terrestre fu la prova che la Terra poteva riprendersi il genere umano.

Marcus, estasiato e in preda ad un pianto liberatorio di gioia, urlò alla comunità:

“Ecco, guardate, il vero Volto di Dio”.