Gianicolo

Ed oggi scrivo di Roma,
ammirando in altura,
la maestà di una città
non ancora sconfitta dal tempo.

Ed è mia e di ognuno,
Nostra.
Dei posteri del tempo antico
di noi antichi del tempo futuro.
Città che nel fango o in gloria
permarrà sempre in memoria
di chi la respira infondo,
non quelle anime di superficie,
che non colgono con occhio colpito
il mutar dei colori
umori di un urlo umido
di un fiume sporco come il ricordo
umiliante, incalzante, impaziente
di fumi, un passato illusorio.
Ma qui nel caos
non c’è vittoria
ne sconfitta sollecita,
solo il rumore del tempo indelebile
ci porta via con lei,
patria perita di arte purpurea
figura retorica di ciò che io amo
unico volto che io vedo allo specchio.

Ed è odore di Roma
non la capisce, è misero
l’uomo di fronte la malvagità di queste pietre
che urlano Roma!

Ed io impotente imperterrita
ammiro la meticolosità del disordine,
la follia, povera condizione dell’essere
è umano
sussurra di Roma,
dolce dolore
aspro benessere
un cadere di foglie sottili
sul respiro di anime alla deriva nel Tevere.

Ed io oggi parlo di Roma
guardando me stessa..


Eri tu.

Senz’altre ali
In altri sogni
Perdermi
Essenza in un tutto
Annullata
E nomi di nomi
Si disperdono
Esplosioni paraboliche
Emozioni psichedeliche
Dolce morte
Dipendenza estrema
Aliti di infinito
Polvere bianca
Cade candida
Un po’ neve
Un po’ droga
La pace cosmica
Nuvole sfrecciano
E nulla è vero
Tutto lo è
In un vuoto semantico
Mi ritrovo
E niente esiste
E tutto c’è
Nel nulla
E nell’esistenza
Senz’altre ali
Nei miei sogni
Poi mi sveglio
Comprendendo
E mi accorgo
Tutto il tempo
Eri tu
E questo mi succede
Nell’assenza
È questo ciò che accade
Contemplando
E questo solo avviene
Guardandoti negli occhi
E questo avviene solo
Se guardo nei tuoi occhi.


Quando ancora la magia.

Un tempo lontano, quando ancora la magia dimorava nel mondo; esisteva una creatura di unica bellezza. Essa viveva felice nella sua terra, tra foreste incantate e creature fatate. Ma un giorno remoto le accadde qualcosa di cui nessuno ha memoria, quel giorno cominciò la sua corsa; scappando implacabile. Nulla poteva fermare il suo fuggire struggente: essa era come un’apparizione, arrivava correndo, la si scorgeva in viso, e così come era venuta, correndo, se ne andava. Lasciando dietro di sé sgomento, frustrazione e, dove aveva rallentato di più la sua fuga, il caos nelle menti di tutti gli esseri che abitavano questa terra fatta di incanti.
Era una magia potente la sua: entrare nel cuore con uno sguardo, un gesto, per poi riprendere solerte il suo scappare da un anonimo nemico.
Così un giorno durante la sua corsa capitò in una foresta, che come molte altre di quell’epoca era incantata; perciò vedendola correre a perdifiato, gli alberi (che ancora avevano la facoltà della parola) turbati le chiesero “da cos’è che scappi, splendida creatura?” ed ella, senza fermarsi, rispose loro: “senz’altro dal più pericoloso mostro mai esistito” ed essi, soddisfatti, la lasciarono alla sua fuga.
Dopo poco aumentò il ritmo di corsa, così da scappare ancor più veloce del vento, ed esso stupito da cotanta celerità le domandò: “O incantevole dama, com’è così solerte il tuo fuggire?” e lei ancor più rapidamente rispose: “il mio correre è veloce quanto lo è ciò da cui sto scappando!” ed il vento chiese ancora: “e chi può essere costui che ti costringe a correre più veloce del vento?” ella sbrigativamente rispose: “il demone più malvagio dei tempi passati, di quelli odierni e dei suddetti che ancora devono venire!” e detto ciò superò il vento, riprendendo la fuga; e d’un tratto mentre correva, inciampò in una pietra che, infastidita, le disse: “Ehi tu!!! Scostumata!!! Com’è che m’hai calpestato? Da chi scappi così impetuosamente da non poter portare rispetto a colei che è qui da molto prima che tu esistessi, dall’inizio stesso del tempo?” la creatura, in tono di scusa, le disse: “perdonatemi, sorella pietra, ma purtroppo fuggo dal più temibile nemico che ha mai respirato e mai respirerà l’aria di questo mondo” allora la pietra ribatté: “ah! in questo caso…” ma non fece in tempo a terminare la frase che ella, già ripresa la corsa, era ormai lontana.
La corsa, così, durò anni, secoli, millenni, senza mai potersi fermare veramente, vivere veramente. Poi avvenne che, stremata, la creatura, al limite delle forze, stanca di scappare, si fermò in una radura; e dopo qualche attimo sentì i passi del suo inseguitore, e decise di fare l’unica cosa saggia, già rimandata per troppo tempo: quel gioco maligno per infiniti anni l’aveva costernata. Allora decise di voltarsi e di affrontare il più temibile dei suoi nemici, il più malvagio dei suoi demoni, e senz’altro il più pericoloso dei suoi mostri, colui che solo, aveva potuto indurre alla fuga una tale meravigliosa e orgogliosa creatura, da tutto ciò che amava e conosceva; si voltò per guardarlo in faccia, e quasi non credette a ciò su cui si posò il suo sguardo. Nel momento in cui gli occhi delle creature si incrociarono, ella capì, prim’ancora che il nemico calasse il cappuccio e togliesse la maschera lei seppe. I suoi stessi occhi rimandavano lo sguardo, le sue stesse labbra si piegavano in un sorriso beffardo. Quegli anni, secoli, millenni… inimmaginabile lo sgomento, nello scoprire che, per tutto quel tempo, era scappata da sé stessa!