La casa dal tetto rosso

“…10Sei tu che mi hai tratto dal grembo,

mi hai fatto riposare sul petto di mia madre.

11Al mio nascere tu mi hai raccolto,

dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.

12Da me non stare lontano,

poiché l’angoscia è vicina

e nessuno mi aiuta. …”

 

(Salmi 22 (21), 10-14)

 

Dopo il bosco di more, nella casa dal tetto rosso, viveva un orco spaventoso, così spaventoso che le tagliole per orsi, disseminate dai bracconieri, sembravano tutte la sua dentiera. Rapiva una donna alla settimana e quel giorno fu il turno di Miriam, la ragazza del fiume: la agguantò per una treccia e mentre lei lo implorava di lasciarla andare, lui, sordo alle suppliche, la trascinava nella sua casa dal tetto rosso:

«Non mangiarmi! Te ne prego, abbi pietà! Non tanto di me, ma del bambino che sto aspettando!»

«Ma io non voglio mangiarti» le rispose l’orco, mentre la stava accuratamente legando.

«Vedi quel forno? Ora farò scaldare per bene la pietra, poi, una volta che avrà raggiunto la giusta temperatura, dopo averti addormentata col fumo di una sterpaglia, ti cremerò… e non avercela troppo con me, mi occorre cenere di prima qualità, mi serve per sbiancare il lenzuolo del fantasma, quello che un giorno sarò, in un’altra fiaba».

Ma il fuoco non voleva saperne di impennarsi, fu per un attimo vago, come una coda di volpe che sparisce nella macchia, poi, quell’unica fiammella si ritirò nella sua bocca di buio, come una lingua restia al bacio.

«Dev’essere il camino che non tira» brontolò l’orco…

Prese allora una scala molto robusta, di legno di quercia, e salì per controllare sul tetto, ma non andò oltre, il suo peso e la sua mole non gliel’avrebbero permesso, e restò, con i piedi ancora sui pioli, dove di solito stanno le rondini, ma con un effetto decorativo, mi capirete, del tutto diverso.

«Una stupida cicogna ha nidificato nella mia canna fumaria!» tuonò e mentre con una manona tastava gli appigli, con l’altra, a fatica, sporgendosi con il busto verso il nido, provava a spazzarlo via, ma senza successo; diede un goffo sberlone al vento, le tegole traballarono e in quel punto parte del tetto venne giù, desquamandosi come una carpa rossa, sotto il coltello del cuoco.

Il tonfo fece sembrare l’intero pianeta cavo, come un mappamondo in scala uno a uno e nell’impatto si sbottonò dalle sue vertebre un suono di tuberi essiccati: l’orco era precipitato rompendosi l’osso del collo.

Miriam, nel frattempo, era riuscita ad allentare il cordame di erbacce che le legava polsi e caviglie e veloce, quasi quanto le sue pulsazioni, si lanciò fuori dalla casa, corse a perdifiato e scappò senza guadare nulla… ma la coda dell’occhio, come un rosario di lacrime, restò per un attimo impigliata: riverso sul pietrisco, paralizzato dalla testa in giù, c’era l’orco… e i suoi rantoli ribollivano ancora in un lago di sangue, una pozza di vino rosso che quelle bolle sembravano voler riportare indietro, alla sua forma originaria di grappolo d’uva.

Tre mesi più tardi, la lavanda, come a segnare un lieto fine, riorganizzava in fioriture spruzzi di ecchimosi e Miriam partoriva due gemelli:

«Se quel giorno un nido di cicogne non avesse intasato il camino…» pensava. «Voi non sareste qui. A modo suo, su questo mondo, vi ha portati una cicogna».


Il Quadrifoglio (Parabola)

A chi suona il violino con la lima

A chi lima le sbarre con l’ archetto (o almeno ci prova)

E a chi suonò il violino -prima che qualunque violino- fosse scavato dall’albero

 

“… Vidi il Signore seduto su di un trono, ed il suo seguito riempiva l’Hekhal. Sotto di lui stavano i Serafini, ognuno con sei ali, e due di queste ricoprivano il loro viso e due i loro piedi, mentre con le ultime due volavano…”

(Libro di Isaia, 6, 1-3)

 

Lucifero vagava per i boschi, quando la sua attenzione si fermò su un fanciullo esultante: scalpitava di gioia per aver da poco trovato un quadrifoglio… Al che il Signore dei diavoli pose una mano sul capo del piccolo e disse: «Eccomi, sono io, l’oggetto della tua fortuna… e qui con me ho qualcosa da raccontarti…»; e così iniziò a parlare…

Il grillo nacque muto, ma molto abile nel volo. La Verità racconta che per raggiungere l’amata il grillo si servisse di tutte e quattro le sue ali. Valeva a poco esplodere i suoi salti leggendari, perché lei -sempre- lo aspettava nei luoghi meno accessibili: sul parapetto di pietra, sul pomo più in luce, sull’altra riva del fiume, tra i candelabri del giglio… E allora come arrivare fino a lei, se non aprendo le ali? E questo, per il grillo, significava trovare il quadrifoglio di cristallo, che la Fortuna gli aveva appuntato sulla schiena. Ma non bastava il volo, una volta di fronte, per farla sua, avrebbe dovuto dirle qualcosa… Ma c’era il cuore, e gli era salito su su fino in gola e barricava ogni varco alla voce, perché il grillo -nacque muto- ma molto abile nel volo.

La Verità, a questo punto, racconta che un diavolo boschivo, col fine di interrompergli la fase espiatoria, propose al grillo uno scambio (credendolo la reincarnazione di un poeta superbo): «Dunque, se un Serafino perdesse un paio di ali, quale danno sarebbe? Rischierebbe solo di non poter più celare il suo viso di radiosa bellezza (o l’avorio dei suoi piedi) e ciò senza compromettere la sua abilità nel volo. Cedimi, quindi, un paio delle tue quattro ali e in cambio ti donerò la voce e, con questa, potrai cantarle finalmente il tuo Amore… E, con le ali che ti saranno rimaste, potrai comunque raggiungerla, ovunque essa sarà…»

Il grillo, come è giusto, accettò.

Le ali si indurirono, divennero pesanti come le piastre di un’armatura in tempo di pace e allora ci provò… a concentrare il sentimento e a spingerlo fuori -ci provò- ma, subito, si accorse dell’inganno: le mandibole non vibrarono di un solo suono; con un paio di ali in meno e un carico di nuova zavorra, librarsi, scavarsi un cunicolo nel vento, richiedeva -ora- uno sforzo insostenibile.

Adesso, ogni tre fili d’erba, trovi il grillo: le ali sclerotizzate, inefficaci al volo, le apre solo per poi sfregarle l’una contro l’altra, furiosamente, perché si consumino in fretta nell’attrito, perché tornino polline nella reciproca lima, liberandolo così da un inutile fardello. Si aprono e si chiudono, le sue ali, come una forbice sbilenca che intenda tagliare se stessa… E io lo sento, dal limite scuro del prato, lo sento, e vorrei dirglielo, farglielo presente -ma non posso- perché… c’è il cuore e mi è salito su su fino in gola e barrica ogni varco alla voce. Ah, se solo passasse un diavolo boschivo, contratterei, pur di comunicare col grillo, contratterei, e a quel punto potrei dirglielo: «Il tuo strazio, la nostalgia del volo, il tentativo disperato di amputarti queste appendici morte… altro non sono… che il tuo canto d’amore!»