Alessandra Agnoletti - Poesie

CHE GUSTO HA LA LIBERTA’?

 

Che gusto ha la libertà?

Lo leggi negli occhi di un bambino

che pazientemente

per quasi due mesi

l’ha aspettata ogni mattino

Finalmente un assaggio:

già con la fantasia è in viaggio…

Rivedere la nonna,

seppur con la mascherina

è più emozionante

di una gita in collina.

Un nuovo mondo

di file e di distanza

ci aspetta fuori

Ma in casa e in famiglia

è tutto come era ieri

No, più atteso e profondo

Tutto si riempie di sostanza

come un abbraccio vietato

che con lo sguardo

hai già consegnato.


PASSEGGIATA NOTTURNA

 

E’ l’aria della notte

che profuma di mistero

Il silenzio delle strade

sotto la pioggia.

Avvolto dal buio

vedi ciò che

non appare

alla fretta quotidiana

Dalle finestre esce

la vita delle case.

E mesto e invisibile

come un gatto nero

randagio

ti intrufoli in quell’intimità

ma poi scappi di nuovo

scegliendo la libertà.


AMORE AI TEMPI DEL CORONA VIRUS

 

Se mi mancasse il respiro
al vederti,
non pensare male:
all’emozione non si può comandare!

All’incontrarti non potrò abbracciarti
né baciarti
Non porto la mascherina
ma non vorrei contagiarti.

Se sapessi che anche tu mi ami
la mia quarantena passerebbe domani.


E ora che non posso uscire
i miei progetti dove vanno a finire?

Sconfitta la peste, riprenderò la mia vita
ti raggiungerò all’altro capo dell’universo,
consapevole di aver scelto un finale diverso.


AVREI VOLUTO

 

Avrei voluto

danzare con le aquile

sulle vette delle montagne

Scuotere le nuvole

per innaffiare il deserto

Correre in motocicletta

per sfidare il vento

Avvistare un’isola

in mezzo al mare incerto

Cantare l’amore tormentato

destando un cuore indaffarato


OTIUM

 

Svegliarsi senza sveglia

all’ora che ci pare

nei giorni di festa

senza collegamenti

da presenziare.

Passare il pomeriggio 

in giardino

a inventare giochi nuovi

con il vicino

Neanche la rete

ci può fermare

anzi, a pallavolo

possiamo giocare.

Noi tutti insieme 

anche oggi

senza fretta 

né di pranzare

né di andare

al sole a leggere

o a sonnecchiare 

Un po’ di musica 

che esce dalle sbarre.

Un obbligo che 

si trasforma 

nell’opportunità 

di pensare e sognare

una vita più semplice

senza scappare 


AMATA

 

Un tempo

mi sono sentita amata

al sicuro

avvolta da un benessere

totale, come dell’infanzia perduta.

Ero accanto a te

non m’importava del tempo

che passava

Le sei, le dodici, le diciotto…

in fretta scorrevano le ore

privilegio accordatomi dagli angeli

o forse da Dio stesso.

Accanto a te

non provavo fame

né sonno,

l’energia mi riempiva

di un tepore silenzioso

senza tormento.

Assente l’ansia di fare

vuota la mia mente:

tutto è qui e ora.

Un sospiro dolce

allontanava il pensiero dell’addio…

separarsi di fretta

al binario della stazione.

Chissà se nella vita

rivedrò l’amore!


QUARANTENA

 

In quarantena
ho smarrito l’amore
sull’isola che non c’è
senza vele per navigar verso di te.


Neppure il vento spinge la mia imbarcazione
fluttua il legno seduto sull’acqua


immobile il pensiero
si autodistrugge.


 

UN ANNO A SALAMANCA

L’arrivo


L’interminabile tragitto in autobus, dalle 14.00 alle 16.30, con il Madrid-Salamanca Express, sotto il sole cocente di Spagna mi ha dato la possibilità di riflettere sugli ultimi frenetici giorni di preparativi, saluti, impegni. Giorni riempiti di tutto purché niente e nessuno mi facesse desistere dalla mia partenza. Neppure un istante ero rimasta sola con me stessa a pensare. Troppo rischioso: avrei valutato razionalmente la cosa, avrei ceduto ai sensi di colpa, alla richiesta di mia madre, di mia nonna di restare accanto a loro. Ogni sera ero più stanca della precedente cosicché mi addormentavo senza prendere coscienza della mia incoscienza.

Ed eccomi qua! Era una Spagna sconosciuta quella che appariva al mio sguardo attraverso i vetri dell’autobus, così spoglia, desertica, senza città, né case… Di quel giallo settembrino dei campi di grano mietuto, delle radure castigliane, pascolo dei tori de lidia[1].

Ben diversi erano i ricordi catalani di Barcellona, dove ero stata ospite sei mesi prima di mia cugina che studiava lì: il porto, le ardite architetture della Sagrada FamiliaParc Guell, Casa Batlò, così avanguardiste da far dimenticare il carattere nazionale.

Riconobbi la Cattedrale di Salamanca in lontananza: era proprio come nel libro che mi ero procurata: così maestosa e imponente, dominava dall’alto i tetti del casco antiguo[2].

Prima di partire, nel nostro ultimo incontro a Bologna, Anabel mi consegnò con fiducia le chiavi dell’appartamento salmantino in calle Alfonso de Castro che condivideva con altre due studentesse canarie, dove sarebbe dovuta tornare a ottobre e dove per mia fortuna si era liberata una stanza. La via non era nota al tassista, che subito sbagliò strada.

Arrivata alla porta, mi prese un gran batticuore. Al citofono dissi solo:

<Soy la chica italiana[3]>, animata di buona volontà salii. Non mi era stato possibile avvertire le future coinquiline del mio arrivo, visto che in casa loro non c’era il telefono. Mi guardarono come fossi un fantasma con tanto di zaino.

Grazie a Dio ce l’avevo fatta, ma il magone mi saliva in gola. Non potevo comunicare! Non capivo niente… ma cosa avevo fatto a partire?

Consolante era il fatto che Eva, Maria e Javier, il suo ragazzo, erano proprio come me li aveva descritti Anabel. Erano loro i miei nuovi compagni di avventura.

Maria e Eva erano canarie dunque il loro castigliano presentava un accento più soave e ogni parola che pronunciavano era aspirata e troncata dalla loro pronuncia. La loro carnagione era olivastra e i capelli e gli occhi neri. Eva era un po’ robusta e con un naso a patatina, studiava giurisprudenza, ma ad ogni esame era mal di pancia e dissenteria per giorni. La sua sensibilità andava di pari passo con un atteggiamento inizialmente introverso e timido.

Maria era più esuberante, rumorosa, chiacchierona: amava essere al centro dell’attenzione e fare il clown. Si comportava in modo talvolta prepotente e da maschiaccio anche con il fidanzato Javier, più accomodante e quasi sottomesso. Lui, studente di ingegneria, era castigliano puro di Leon anche se, contrariamente a tutti gli stereotipi del maschio spagnolo, era biondo con pelle e occhi chiari. Comunque si presentarono tutti disponibili e simpatici nei miei confronti, con una certa curiosità per la novità di avere una coinquilina italiana.

Dopo una buona nottata di sonno, mi alzai decisa a esplorare la città che avrei abitato per alcuni mesi. Come mio solito, preferii il mio senso di orientamento all’aiuto della mappa. Così girovagai senza fretta fino a Gran Via e per la calle San Pablo giunsi alla chiesa convento di San Esteban. La facciata era scolpita a sbalzo nella pietra rosata salmantina, come un libro miniato, come gli argenti giudei, trasmetteva all’occhio pur distratto tutta la drammaticità del messaggio cristiano nella maestosità dell’opera. Annesso alla chiesa vi era un chiostro, un museo e il convento.

Ritrovai poi la cattedrale e, proprio di fronte a essa, scorsi per la prima volta la Plaza de Anaya con il palazzo napoleonico sede della facoltà di Filologia. Ricordando le parole di Anabel riconobbi la scalinata della facoltà, sempre gremita di studenti che leggevano, suonavano, cantavano o semplicemente approfittavano dei favori del sole.

Tornai all’appartamento. Non avevo visto la Plaza Mayor, vanto nazionale e Patrimonio de la humanidad[4]. I miei compagni si burlarono di me non poco, in quanto ero riuscita a percorrere chilometri in senso circolare senza mai attraversare la plaza, centro della città e della vita sociale dei salmantini. In serata Maria e Javier, che in quei giorni viveva da noi, mi accompagnarono in centro mostrandomi anche la vecchia università voluta dal re Alfonso IX nel lontano 1218. Davanti all’elegante facciata scolpita a sbalzo in stile plateresco, come cesellata, visitatori occasionali e studenti con il naso in su cercavano la rana portafortuna, nascosta tra i particolari. Il detto diceva che chi fosse riuscito a vederla sicuramente avrebbe superato gli esami in programma per l’anno.

Al ritorno ci fermammo al bar sotto casa a bere qualcosa e provai il mio primo pincho[5]. Era uno stuzzichino di una pietanza a base di carne, pesce o altro che accompagnava l’ordinazione di una qualsiasi bevanda. Ancora non sapevo che sarebbe diventata una delle cose alle quali avrei legato per sempre il mio ricordo di Salamanca.

Tutto aveva avuto inizio quel 28 settembre 1996, con il volo Milano Linate-Madrid Barajas delle 10.00. Per anni avevo pensato a come rendere possibile quel viaggio, anche se non ne conoscevo la destinazione, né la vera motivazione. Volevo andare, per me, per il mio orgoglio, che aveva già sepolto un amore in cambio della libertà di questo sogno.

Si chiamava Davide, eravamo stati fidanzati per anni, ma al bivio del matrimonio a 22 anni o proseguire gli studi e la speranza di realizzarmi professionalmente io avevo scelto quest’ultima e lui, alla prima occasione, mi aveva lasciata.

Sull’aereo avevo conosciuto una studentessa Erasmus come me che però si fermava a Madrid per sei mesi. L’incontro era stato provvidenziale: visto la mia capacità di espressione in spagnolo non sarei mai riuscita ad arrivare così rapidamente a Salamanca se Cristina, così si chiamava, e un suo amico non mi avessero accompagnato in auto fino alla stazione dei bus di Conde Casal. Non ci siamo mai più rincontrate e purtroppo ben poco so di lei se non che avrebbe studiato a Madrid.

Sono sempre state le coincidenze fortuite a mostrarmi il cammino, quando non conoscevo il sentiero.

Così era accaduto tre mesi prima con Anabel: avevo appena saputo di aver vinto una borsa Erasmus dell’Unione Europea e incredula, dopo aver scrutato più volte il tabellone con i nominativi dei vincitori, mi ero precipitata dal professore che coordinava il progetto. Fu lui a presentarmi Anabel, borsista Erasmus a Bologna, proveniente dall’Università di Salamanca. Io neppure sapevo dove fosse Salamanca, anche perché inizialmente avevo richiesto la borsa per Siviglia.

Che male c’era nel sognare un po’! Ero stata ridicola la mattina dell’esame di ammissione. Glielo avevo detto io al professore che non sapevo nulla di latino, ma ugualmente mi fece leggere Cicerone e improvvisai una traduzione con la sua gentile collaborazione. Per quanto riguardava lo spagnolo, altro requisito per ottenere quella borsa, poche nozioni imparate dal libro di un’amica il giorno prima, mi bastarono per dare l’impressione di cavarmela.

Anabel fu la mia ancora di salvezza: si rivelò subito disponibile e mi diede tutte le informazioni di cui avevo bisogno sulla città, l’università, la facoltà di Filologia, a cui anche lei era iscritta, ma soprattutto mi aiutò a non cedere alla paura. Di che cosa? Paura di non essere felice per un sogno che si sta per realizzare, di scoprire che le novità spaventano, scuotono.

Davanti a un caffè parlammo per ore e mi raccontò un po’ della sua storia:

appena arrivata a Bologna visse in uno studentato dove conobbe il suo ragazzo, Antonio. Era molto dispiaciuta di dover ritornare in Spagna, ma prima avrebbe trascorso le vacanze in Abruzzo, al paese del fidanzato. Era più giovane di me di un paio d’anni, ma molto più determinata, sicura di sé e delle proprie scelte, indipendente. Il suo aspetto ricordava una ballerina di flamenco: lunghi capelli neri portati raccolti dietro con uno spillone, occhi verdi e profondi, pelle olivastra e orecchini di argento lavorato che le pendevano alle orecchie e con un effetto a metà fra una danzatrice araba del ventre e una veggente che legge la sfera di cristallo.

Era necessario essere forti per porre davanti alla realtà la mia famiglia o quel che ne era rimasto: sarei andata a studiare a Salamanca, per l’intera durata del nuovo anno accademico, separandomi da mia madre e mia nonna, entrambe vedove e sole, lasciandomi alle spalle i miei doveri nei loro confronti, ma anche le delusioni d’amore e la frustrazione di non essere riuscita a coltivare un rapporto migliore con mio fratello, ormai distante e inavvicinabile, arroccato sulle sue posizioni.

Sì, io ero la sorella maggiore e dunque avevo sempre percepito il ruolo di responsabilità nei suoi confronti che mi ero sobbarcata da quando era nato, ma da qualche anno il nostro rapporto era irrimediabilmente cambiato: io avevo vissuto una relazione totalizzante che lo aveva messo da parte nel momento della sua adolescenza, proprio quando dopo la morte di nostro padre, avrebbe avuto bisogno di una guida più stabile. D’altra parte lui aveva preso a escludermi, a voler essere più adulto di quel che era, spingendosi alla ribellione su tutti i fronti: nel seguire altre compagnie, fumando, forse anche impasticcandosi, e tornando all’alba dalle discoteche della Riviera. Poi si chiudeva in camera con la musica tecno a tutto volume per evitare il dialogo. Perse anche due anni di studio alle superiori, forse perché si era messo con una donna più grande di lui che viveva per giunta molto distante.

Sì, avrei abbandonato la mia famiglia e tutto il mio mondo per il desiderio egoistico di scoprire cosa c’era al di là del mio paese, per trovare me stessa e per dimenticare e allontanarmi dai problemi familiari che non riuscivo a risolvere e da quell’opprimente realtà provinciale che non mi dava più stimoli.

Dopo aver rotto il fidanzamento, il mio ex si era subito messo con un’altra e, in un paesino di provincia dove tutti conoscono tutti, mi sentivo tradita dalle stesse amiche e vittima di sguardi compassionevoli. La spinta a dar prova di trasgressione, a diventare diversa dopo essere stata respinta mi aveva portato, nell’ultimo anno, giorno dopo giorno, sempre più lontano da quel che ero e volevo veramente.

Dovevo ricostruire la mia persona acquistando consapevolezza della mia interiorità ferita, ma anche del mio valore, prima di autodistruggermi rimanendo ancorata al passato e deprimendomi per la perdita del mio primo importante amore.

Per questo ero venuta a Salamanca!

[1]Tori di razza

[2] Del centro storico.

[3] <Sono la ragazza italiana>.

[4] Monumento protetto dall’Unesco come patrimonio artistico mondiale.

[5] Stuzzichino di piatti tipici col quale si accompagna la bevanda, nel Sud, chiamato “tapa”.


UN POSTO AL SOLE

 

Era maggio quando mi svegliai dal torpore col sole in faccia. Un altro giorno mi attendeva all’ombra del passato. Ero solo una donna, ormai priva di fantasia, forse, ma con una preziosa memoria. Chi l’avrebbe mai detto che uscita dal tunnel del lavoro nero mi sarei conquistata un posto al sole proprio come volevo io? Cinque anni prima, a 25 anni, fresca di laurea, ero anch’io una giovine speranzosa alla ricerca di un lavoro vero, una di quelle che le statistiche danno per felicemente occupate nel giro di soli due anni.

Fu allora che approfittando della borsa Leonardo Da Vinci presi il volo con destinazione Madrid. Olé! Rifiutai almeno un paio di proposte interessanti vicino a casa per farmi esperienza nel campo dell’editoria in Spagna. E così mi sembrava non ci fosse nient’altro di meglio che un tirocinio in una brillante casa editrice spagnola che nemmeno conoscevo. Quel giorno di inizio febbraio del ‘99, forbita e ben vestita, mi presentai all’indirizzo indicato nella lettera di accettazione: Calle Sevilla 29.

Ero giunta da appena qualche giorno a Madrid, città per me sconosciuta, ma molto rumorosa e caotica con i suoi quattro milioni e mezzo di abitanti. Ero ospite dell’amico Javier, spagnolo ma di Leon, anch’egli a Madrid per lavoro. Vivevo nella saletta del suo appartamento in calle Montera, traversa della mitica e affollatissima Gran Via.

Una sensazione di vertigini mi colse prontamente dopo appena pochi passi col naso all’insù, in mezzo ai frettolosi passanti, incredula e curiosa di fronte a quegli alti palazzi stile liberty che schiacciavano ai lati la via. Faceva freddo, specialmente di sera: i “senza tetto” si rifugiavano negli androni dei negozi coperti da cartoni che non potevano evitargli i gelidi spifferi di vento. Nel piso di Montera non c’era riscaldamento, ma una piccola stufa elettrica che consumava molto e scaldava poco, come mi faceva sempre notare Javier.

Il mio giaciglio era in un angolo a fianco della tv, accanto al divano. La stanza dove dormivo serviva anche da sala da pranzo, sala tv e lettura, ingresso e passaggio per il bagno. La cucina invece era in uno sgabuzzino due metri per uno, accessoriata con ben due piastre elettriche, un micro frigobar ed un lavello. Calcolando bene i tempi (e con soli due tegami a disposizione), riuscivo perfino a cuocervi per cena pasta al sugo e un secondo piatto. Il bagno era grande poco più della cucina e senza finestre. Le uniche aperture erano in sala, ma non servivano a granché, poiché davano sul cortile interno. Quindi, le lasciavamo quasi sempre chiuse. Insomma, era un appartamento studiato appositamente per il manager che vive solo, non cucina mai pasti in casa e che rientra tardi perciò non fa caso al fatto che non ci sia mai luce e che disgraziatamente la temperatura interna sia glaciale d’inverno e soffocante d’estate. Da poco era passata la disinfestazione per gli scarafaggi così per non rischiare l’avvelenamento, Javier, estremamente scrupoloso, mi aveva vivamente sconsigliato di utilizzare la pila di stoviglie ammonticchiate sul parquet a fianco dell’entrata. Sicuramente erano state contaminate dal veleno. La mia valigia rimase quasi intatta, sempre pronta al trasloco, a fianco dello stendi-panni, utilizzato anche come appendiabiti, per circa un mese, fin quando non trovammo una dimora più accogliente per entrambi.

Dunque, dicevo, quello era il mio primo giorno di lavoro, o meglio di tirocinio, nella prestigiosa libreria. Giunto davanti alla vetrina la trovai un po’ piccolina, ma deliziosa, un po’ retrò, col mobilio in legno scuro e gli scaffali pieni di vecchi libri. Insomma, più che una moderna casa editrice mi sembrava un paradiso per bibliofili che avrebbero potuto scovarci chissà quali prime edizioni in lingua castigliana. Era stata fondata una settantina di anni prima da Don Leon, un intellettuale, ex studente della Residencia Universitaria, amico di Lorca, Dalì, Jimenez e Salinas, che era, inoltre, suo cognato. La sua libreria era divenuta un cenacolo di studi e incontri per intellettuali spagnoli ed europei alla fine degli anni Venti e inizio Trenta. Don Leon aveva persino aperto una succursale a Parigi. Poi, in seguito alla guerra civile, le cose cambiarono e la Libreria dovette chiudere per un po’.

Sembrava molto piccola, eppure smistava e reperiva testi stranieri, soprattutto latinoamericani, per le università e biblioteche di Spagna e, viceversa, inviava libri spagnoli alle più prestigiose università d’Europa e d’America.

Mi presentai non appena vidi giungere un signore alto, sulla cinquantina, corporatura medio robusta, barba e occhiali spessi. Ma non era il direttore della libreria: Juan, così mi si presentò, da anni lavorava alla “Leon Sanchez Cuesta” occupandosi dei reclami e dei contatti con editori spagnoli per ordini e restituzioni. Il direttore dell’antica libreria, giunse una ventina di minuti dopo. Era un omino secco e barbuto, incallito fumatore e un poco sordo, come ebbi modo di verificare a più riprese. Antonio, così si chiamava, era temuto da tutti i dipendenti, ma non era un uomo cattivo. Aveva due figli e forse essendo io giovane e straniera e, oltretutto, non gravando sul bilancio aziendale poiché borsista dell’Unione Europea, credo che mi avesse preso abbastanza in simpatia. Presto arrivò anche ad avere stima di me, soprattutto per il fatto che riuscivo a comprendere quelle lingue anglofone tanto ostiche per il suo orecchio. Mi chiamava ogni volta che doveva telefonare negli States. Ancora non mi spiego come riuscisse ad interpretare le mail che numerose gli giungevano da tutto il mondo ogni giorno e che puntualmente stampava tutte insieme prima di scollegare il computer dalla rete.

Mi ero laureata da soli due mesi ed ero fiera di avere già un’occupazione. Stavo imparando l’amministrazione dei libri: la registrazione degli arrivi, gli elenchi degli invii, le restituzioni e infine le fatturazioni. Scrivevo, inoltre, i reclami e contattavo gli editori stranieri per informarmi sullo stato dell’ordine. Non era affatto quello che mi aspettavo e, nei primi tempi, ciò mi angosciava parecchio: otto ore nel retro di una libreria senza finestre né riscaldamento a inserire dati nel computer. Non era certo la mia idea di casa editrice! E per giunta mi trovavo a circa duemila chilometri da casa e con pochi soldi in tasca. Presto però feci amicizia con le colleghe Juana e Marisol e fra una chiacchiera e l’altra e la grande curiosità per i libri che ci faceva sbirciare fra gli arrivi commentandoli, le giornate trascorrevano piene. Ma di sera, mentre andavo a visitare appartamenti girando in lungo e in largo la capitale per trovare quello giusto da affittare, guardavo con estrema invidia quella gente nei bar che prendeva tapas e faceva festa. Javier tornava sempre tardi: come collaboratore di un’agenzia pubblicitaria, lavorava a tutte le ore e non era mai a casa. Trascorrevamo insieme poche ore davanti alla tv, parlavamo poco, e poi di nuovo a dormire carichi di speranze per il giorno dopo. Ma non mancava il vicino rumoroso che, all’una di notte circa, puntualmente accendeva la musica a tutto volume al piano di sopra, incurante dei problemi altrui.

Finalmente, in marzo trovammo un appartamento più grande, con ben due stanze da letto, una sala luminosa, una cucina ben attrezzata, seppur piccola, ed un bagno quasi nuovo. I padroni, una coppia di giovani sposi, si erano appena comprati una casetta in campagna e così avevano deciso di affittare quel loro nido d’amore che avevano allestito con cura nei dettagli. Ci avevano colpito i colori vivaci delle pareti di casa: dalla sala gialla si procedeva nel corridoio fino alla camera matrimoniale azzurra e alla cameretta verde. Dopo aver sgominato la concorrenza di due giapponesi che l’avevano visto prima di noi, ma che avevano comunicato meno fiducia ai padroni, vi entrammo il giorno stesso che essi lo lasciarono. Si può dire che era ancora caldo del loro respiro quando al ritorno dalla libreria ne varcai la soglia e mi misi a ripulirlo.

Finalmente avevo una stanza tutta mia dove leggere, dormire o scrivere, anche se la mia finestra dava su di un buio cortile interno al centro del quale si muoveva su e giù un rumoroso ascensore. Ma di questo mi resi conto solo dopo, in estate, quando a vetri aperti sembrava di dormire in campeggio, mentre i vicini di fronte lavavano i piatti a tarda ora e quelli a fianco accompagnavano il cane a passeggio di buonora al mattino passando accanto alla mia finestra fischiettando. Una cosa buona in tutto ciò era che finalmente mi sentivo a casa mia: potevo cucinare in relax, sedere sul divano col sole in faccia, invitare amici e preparare loro cene all’italiana. Feci arrivare dei soldi dall’Italia, poiché il denaro che avevo per le prime necessità non era bastato a coprire quel mese e l’affitto era più esoso del previsto.

Maria, la ragazza di Javier, studiava Filologia francese alla prestigiosa università di Salamanca, 250 chilometri a Nord-Ovest di Madrid. C’eravamo conosciuti tutti e tre proprio là, qualche anno prima. Ero studentessa Erasmus e, per una serie di eventi fortuiti, mi ritrovai a vivere con Maria ed altre tre ragazze nel mitico piso di Calle Alfonso De Castro. Javier era già all’epoca il suo ragazzo.

Maria veniva a farci visita quasi tutti i fine settimana e, nonostante tentassi di lasciarli soli, essi mi coinvolgevano nelle passeggiate di shopping o, più spesso, nelle scorpacciate di pop corn davanti al film che avevano noleggiato. In effetti, non avevo molti amici a Madrid a parte Jorge, una mia vecchia conoscenza di Bologna, Sara, la sua ragazza, ai quali ero molto legata, e le colleghe. Con loro si andava di sera al cinema, o in giro per locali tipici nella zona di Bilbao o Huertas, dove passavamo dal Matador, all’España Cañi, al Viva Madrid, fra pareti di azulejos, cimeli di corride, vino tinto e flamenco. Di frequente, il fine settimana uscivo sola a passeggiare. Amavo perdermi per le vie della città. Le mie mete preferite erano dapprima la Puerta del Sol, col suo brulicare continuo di volti e passi, il Palacio Real, il respiro aristocratico di Madrid, i giardini di Rosales e la terrazza del tempio egizio di Debod, da dove potevo osservare il tramonto sulla Casa de Campo e sui tetti madrileni. Poi mi spinsi fino agli ombreggiati Paseo del Recoleto e Castellana, alle strade commerciali di Serrano, Goya e Velasquez, dietro le quali sorgevano i quartieri residenziali. Mi piaceva sempre scoprire angoli nuovi, ricordare a mente le strade e come comunicavano fra loro. In ogni zona, poi, riuscivo a scovare un negozietto economico dove comprare stoviglie e casalinghi per dare al piso quel tocco di casa italiana che gli mancava.

Passeggiavo guardando a destra e a sinistra, ubriacandomi di flash di palazzi, monumenti e vetrine. Lo sguardo esitava curioso su taluni passanti che dal viso apparivano familiari e quasi mi immaginavo la loro storia, quel che facevano, costruivo con loro dialoghi inesistenti. Avevo preso a salutare il venditore di giornali di strada al semaforo, un ragazzo rumeno dagli occhi ridenti e la pelle cotta dal sole. Lo incrociavo tutti i giorni al ritorno dal lavoro, davanti a El Corte Ingles di Calle Princesa e quando non lo vedevo quasi mi preoccupavo. Così anche il ragazzo sulla sedia a rotelle, che stava all’angolo con l’edicola chiedendo qualche spicciolo, era entrato nel mio mondo segreto, nel quale si comunicava solo tramite reciproci sguardi e sorrisi di saluto. I suoi occhi azzurri penetravano come ghiaccio nei miei, come per analizzarmi nel profondo, poi ci sorridevamo. Pensavo come il linguaggio della gente semplice fosse universale e non avesse bisogno di esprimersi attraverso i suoni.

Il mondo dei libri mi piaceva, ma desideravo ardentemente fare pratica presso un vero editore, vedere come le bozze scritte da un autore più o meno sconosciuto acquistavano dignità divenendo testi in mostra sugli scaffali delle librerie, avvolti in invitanti copertine. Cercai per mesi e dopo più di cinquanta tentativi trovai qualcuno che mi disse “ni” anziché “no”. Insistetti su questo.

Mancava appena un mese al termine del mio tirocinio e al mio ritorno in Italia quando ricevetti una telefonata. <<Ketty ti vuole.>> Era la segretaria della direttrice di una conosciutissima rivista femminile spagnola. Benedissi quella prima possibilità che mi si offriva nel campo dell’editoria giornalistica. Finalmente un’esperienza in redazione ai piani alti di un imponente edificio in una zona signorile della città, proprio dove erano situati i negozi e i bar alla moda! La prima volta che vi entrai, mi sentii Cenerentola al ballo e, dopo che la guardia ebbe verificato i miei dati, salii al sesto piano. Inizialmente le nuove colleghe mi videro come una rivale, poi capirono che ero solo una ragazza piena di curiosità, con volontà sì, ma senza esperienza nel settore.

La rivista trattava temi di attualità, moda, bellezza, casa e cucina. Io mi occupavo di redigere i consigli pratici delle lettrici, sintetizzavo pezzi degli esperti delle varie rubriche e proponevo qualche idea. Troppo bello lavorare con veri professionisti, conosciuti e rispettati. A Natale uscì il mio primo pezzo firmato e, come promesso, le colleghe mi spedirono la rivista poiché io ero già rientrata in Italia. Lo stage infatti si era concluso e carica di aspettative mi accingevo a sbattere il muso con il muro delle non opportunità che s’incontra se non si hanno notevole esperienza, raccomandazioni o conoscenze e soprattutto quando si vive in una piccola città. Trovai praticamente impossibile la strada delle collaborazioni con le riviste italiane femminili e mi ero quasi arresa anche sul locale quando, dopo qualche mese come impiegata sotto pagata di una compagnia di voli charter, finalmente un’altra donna, la capo redattrice del quotidiano locale, mi offrì una possibilità e iniziai a scrivere alcuni pezzi.

Ero contenta, anche se non raccontavo quasi a nessuno del mio nuovo lavoro, perché non lo potevo certo considerare tale, vista la retribuzione e l’occasionalità… Rispetto a Madrid però, mi sembrava di aver compiuto non un passo, ma una ventina di salti indietro, passando da una grande e prestigiosa redazione di una rivista nazionale, per giunta di un paese straniero, a una redazione locale, occupandomi di temi con scadenza imminente e riferendo ciò che veniva detto in conferenza stampa. Ero l’ultima ruota del carro. Eppure collaboravo col più diffuso e conosciuto giornale locale. La disillusione è la cosa peggiore che possa accaderti quando sei disoccupata. <<Ho nuove ed interessanti prospettive per il futuro>> ripetevo a me stessa, rispondendo ironicamente a chi mi domandava che stavo facendo.

E così trascorsero quei tre lunghi anni nei quali sperimentai occupazioni più o meno stimolanti, spesso stressanti e mal pagate, ma non volevo arrendermi e abbandonare dopo molti sacrifici quel sentiero che mi ero scavata fuori dalle righe. Provai anche ad abbinare qualche mese come impiegata tuttofare e consulente marketing, alle mie collaborazioni di cronista e telereporter, scapicollandomi fra un impegno e l’altro, senza alcuna possibilità di crescita ma con molte gatte da pelare. Non ricordo più quando, ma fra un lavoro e l’altro, io, la non-violenza fatta persona, mi cimentai anche nella sorveglianza anti-taccheggio all’interno di un supermercato. Cosa mi mancava? Un colpo di fortuna? Un’opportunità? Non so. Poi mi venne un’idea.

Stavo decidendo di lasciare la mia cittadina di provincia per emigrare nuovamente con una borsa europea, un tirocinio, una di quelle stimolanti esperienze che arricchiscono la cultura e la personalità e che dovrebbero aprire nuove strade. Pensavo alla qualità della mia vita ed alla mia famiglia, dalla quale avrei dovuto separarmi. Fu allora che mi venne in mente di condividere con altri un sogno nato dal mio amore per i libri. Contattai tutte le case editrici più importanti proponendomi come talent scout, di scoprire cioè nuovi talenti, forse in attesa che qualcuno scoprisse il mio. Non durai a lungo perché capii che “da grande” volevo fare l’editore.

Con alcuni amici fidati aprì il mio piccolo studio in centro, ma il vero quartiere generale era nel mio “castello” in collina, l’antica casa di famiglia immersa nel verde dei cipressi, dove le idee fluivano ariose e le più pesanti preoccupazioni si dissolvevano mescolandosi alla brezza serale. Stavo progettando di pubblicare il mio primo libro, “Angelica è in viaggio”, una serie di racconti di avventure picaresche di una studentessa squattrinata ma molto curiosa.

Finalmente accettai serenamente il fatto che non fossi portata per un lavoro dipendente, con grande rammarico per mia madre che mi avrebbe visto bene seduta alla scrivania di un ufficio pubblico a contare i piccioni che si levavano da Saffi. Ero consapevole che non c’erano certezze per un imprenditore e che non tutti i progetti sarebbero comunque andati in porto.

Anche quel giorno, come tutti i giorni lavorativi, la sveglia suonò alle 7.30, mi stropicciai gli occhi e mi alzai per andare al lavoro. Il sole del mattino mi sollecitava gli zigomi nel trapasso dal mondo evanescente dei sogni alla vita reale che, infine, non era poi così male. Inforcai la bici e corsi verso il mio studio, fucina di giovani talenti e di grandi opportunità per chi, come me, sembrava non averne. Era questo il mio, seppur flessibile, posto al sole. E avrei lottato con tenacia per mantenerlo.


LA FILASTROCCA DEL BOSCO IN COLLINA

 

C’era una volta, su di una collina,

un boschetto e una casina

di sasso bianco e calcina,

con piccole verdi finestrelle

il tetto rosso e le mattonelle.

Fra la vegetazione

quasi non la si vedeva,

nascosta com’era,

ma un piccolo sentiero

di terra battuta,

là vi conduceva

e una corona di cipressi

tutta la avvolgeva.

Vivevano lì sei simpaticissimi orsetti:

mamma, papà orso e quattro figlioletti.

La mattina si svegliavano presto

per sbrigare le faccende di casa:

Martina orsettina,

con grande dedizione,

aiutava mamma orsa

a preparare la colazione;

poi andava a riordinare la cucina,

a rifare i letti e a ripulire la cantina.

Papà orso e i tre orsetti

si occupavano del prato,

lo mantenevano tagliato,

coltivavano ortaggi

che del sole

sfruttavano i raggi.

Poi nutrivano i cinghialotti,

che di ghiande erano ghiotti,

e le caprette selvatiche,

che facevano le simpatiche

offrendo loro il latte.

.

Dovevano anche curare le arnie delle api,

ché producessero miele in abbondanza,

loro cibo preferito e pieno di sostanza.

Ognuno di loro aveva un compito:

Gigino orsettino, il più piccolino,

raccoglieva frutta e verdura

che in fretta era matura

e innaffiava le piante

che erano tante tante;

Pierino, il fratellino,

si occupava degli animali:

dava loro da mangiare,

mungeva le caprette

poco prima di rientrare;

Paoletto orsetto maggiore,

assieme a papà orso,

infine faceva l’apicoltore.

Un giorno, mentre tutti

erano intenti alle loro attività,

arrivarono notizie dalla città.

Il postino, che fin lassù

non andava quasi più,

portò una letterina

dalla città più vicina:

tutti gli abitanti del bosco in collina

dovevano lasciare la loro casina!

A causa del denaro e del progresso

avrebbero costruito lì un complesso,

con parchi gioco e villette

e degli alberi del bosco

avrebbero fatto polpette.

Papà orso allarmato indisse una riunione;

tutti gli abitanti del bosco

dovevano essere informati della situazione:

<<Questa è una vitale questione!>>

Il postino avvertì:

<<Non c’è tempo da perdere!

I bulldozer in tutta fretta arriveranno

e da casa orsi inizieranno.

Bisogna correre!>>

Mamma, papà orso e i piccoli orsetti

ad ogni angolo della collina erano diretti,

per chiamare a raccolta

scoiattoli, ghiri, falchi e gufetti

talpe, fagiani, e leprotti,

con caprette e cinghialotti.

Tutti erano accorsi

ora per la domanda

che bisognava porsi:

come fare per salvare

gli alberi del bosco

e la casa degli orsi?

<<Le ruspe non le possiamo fermare!>>

-affermò papà procione con parole amare.

Dopo una lunga discussione

presero una sofferta decisione:

<<Gli uomini ci dovranno ascoltare:

di qui non li faremo passare!

In una piccola delegazione,

incontreremo il sindaco Lupo

l’indomani a colazione.>>

L’indomani papà orso e Paoletto,

il procione, la talpa e il falchetto

scesero in città con fare circospetto.

A casa del sindaco Lupo

li ascoltarono con viso cupo,

ma poi Ferrante,

il lupo lattante,

scoppiò a piangere:

il bosco in collina non doveva essere distrutto,

per tutti sarebbe stato un gran lutto!

Anche Giorgina,

la sua sorellina,

chiese a papà

che per salvarlo facesse

tutto ciò che potesse

Seguirono applausi a iosa

per la delegazione che tornò fiduciosa.

Giunsero le ruspe il giorno seguente,

la distruzione dunque era imminente!

Ma il passaggio era bloccato:

con tronchi e sassi ammassati

i lavori furono infatti ostacolati:

<<Niente ruspe o nuove costruzioni,

se volete evitare grandi rivoluzioni!

Questa è una certezza!>> –

sentenziarono gli abitanti del bosco

con grande fermezza.

Il sindaco Lupo dovette convincere gli uomini

per difendere il bosco in collina:

<<Andateci pure per una visitina!

Non servono né ruspe né cemento:

lassù, infatti, è così bello che

non ci si annoia un momento!>>

Gli uomini si ritirarono, dicendo un po’ seccati:

<<I nostri propositi per ora sono solo rimandati!>>

Gli abitanti del bosco replicarono convincenti:

<<Provate a tornare e vi mostreremo i denti! >>.

Infine, i demolitori se ne andarono

un po’ spaventati e molto scontenti.

Gli animali poterono esultare:

il bosco erano riusciti a salvare.

Il sindaco Lupo e papà orso, ora,

in trionfo volevano portare.

Era tempo di festeggiare!

eccoli tutti a Casa Orsi a mangiare:

canti, balli, musica, dolci e frittelle

e un sacco di altre cose buone e belle.