Angela Riviera - Poesie e Racconti

Difficile ritrovare

Difficile ritrovare
quel Filo d’Arianna
tra le rovine
che si sgretolano al sole cocente
di stani idoli
scuri e bui
e di alessandrine volute
che si nutrono di livide paure
ancestrali e nascoste.

Sembra cadere a pezzi il Sacro Tempio
che affondava solide radici
in un terreno, ora, nero e franoso
di un’umanità ora assente.
Strisciano pensieri nascosti dal velo
inconfessati grovigli
da dipanare…

Più non splende quel sole
che nutriva.
Dove è celato l’Olimpo
della perduta umanità?
Forse quel filo tenue d’Arianna
è appeso al fragile, inossidabile stelo
di un fiore a primavera.

 


 

Passi

Ho bussato
con mani di nebbia alla tua porta
mentre il peso dell’aria
schiacciava il mio petto.
Ho guardato il mio corpo
abbandonato, lì,
inutile cencio
di un’inutile esistenza.
Non mi hai guardato
con lo sguardo severo del giudice
ma con quello, addolorato, del Padre
impotente
di fronte al dolore del figlio.
Tortuoso è il sentiero che porta alla tua casa…
Ed io ho smarrito la strada.
Ti guardo da lontano
Irraggiungibile, ormai, ai miei passi.
Ma forse la tua mano pietosa
raggiungerà la mia
e coglierà il dolore dei miei occhi
e porterà lontano i miei brevi passi
ricordando il calore
di quell’unica carezza.

 


 

China e a testa bassa

China e a testa bassa
Stringo i lembi del mio mantello
nero come la notte
mentre vado per via.
Sento il peso della vergogna
di essere Uomo del mio Tempo
che non sa cancellare
l’indifferenza dal cuore degli uomini
e Il tetro sapore di sangue che si sparge sui sassi della vita…
Colpevole?
Si, anch’io colpevole
di provare solo pietà
per l’umanità vilipesa e derisa
mentre immagini di morte si dipingono
allucinate e come rapprese
sui volti dell’innocente…
Colpevole? Si, anch’io colpevole
per non gridare al vento il mio dolore di Uomo del Silenzio.
L’ignoranza, madre prolifera di bestialità artigliata
ghermisce l’uomo
e di lui si fa beffe
mentre scorrono
fluide come melma scura
orride immagini di violenza e di morte.

 


 

Tempo sospeso

E si è fermato il tempo
appeso tra quei rami fiammeggianti di autunno
mentre il cielo rosseggia e si scolora.
Da lontano
si diffonde soffusa
l’aura di tre croci sperdute tra le ombre di sfumate colline.
E ’sospeso questo tempo di angoscia e di dolore
che più non dipana la sua matassa grigia…
Nel silenzio assordante della notte urlano le sirene.
E poi silenzio.
Certo io non pensavo che a sopire i miei sogni
nati all’imbrunire di un’eterna tempesta,
si sarebbe abbattuta l’ala nera di un pipistrello…
l’impotenza mi avvolge e feroce mi risucchia tra le sue spire…
Ed è sospeso il tempo dei sogni e dei sorrisi
Trema la mia voce e trema la mia certezza di un sereno domani
Inonda, complice del silenzio, un infinito mare di amara solitudine.

 


 

Lettera ad una donna

Quello strano lume dalla forma ultramoderna e stilizzata di cigno grigio, che si accendeva non appena osavo avvicinare la mia mano, mi rimandava ad altre lampade, ad altri lumi e ad altri tempi…
Lo scrittoio campeggiava solenne nello studiolo, dove spesso mia madre, Matilde, si attardava a leggere o scrivere interminabili lettere, pensieri e riflessioni, elementi abbastanza rari per quel tempo, quando le donne si dedicavano, più che altro, a casa, cucina e cucito.
Quello scrittoio costituiva, per me, il simbolo della sua vita stessa e fu con timore quasi reverenziale che aprii, dopo tempo che era scomparsa (Perché non ho ancora il coraggio di pronunciare quella orribile parola?) il pacco delle lettere scritte e mai spedite.
Avevo trasferito quello scrittoio nella mia camera da letto, sostituendo solo l’elegante lampada con quel cigno quasi intelligente…
Fu la prima lettera che sembrò capitarmi tra le mani…A MATILDE
Come, mia madre scriveva a se stessa? Ma, conoscendola, non era improbabile…
16 gennaio 1960

Cara Matilde,
si, mi rivolgo proprio a te, giovane madre di due splendidi figli…Adesso ti stai guardando allo specchio, ormai hai versato e asciugato tutte le lacrime che potevi versare…Il tuo bambino, tanto desiderato e arrivato dopo anni di attesa, nato settimino e cresciuto, i primi mesi, tra due bottiglie di vetro, da tenere rigorosamente tiepide sempre, quel tuo figlio desiderato e amato e adorato ,all’età di tre mesi si era ammalato. Poliomielite. Lo avevi portato, su tua caparbia insistenza, a farlo visitare da un luminare di Catania…
Il bambino avrebbe dovuto subire parecchie operazioni per non rimanere…come dicevi, claudicante? Cioè zoppo, avrebbe detto la gente schietta e priva di sfumature del paese. No, tuo figlio no. Era impensabile.
Era cominciato così il tuo lungo percorso, tra speranza e dolore, che finalmente, stava per concludersi, dopo una notte di diluvio universale che si era portata via, per un tratto, anche la tua macchina, durante il viaggio in autostrada per raggiungere Catania… E il tuo fragile, prezioso figlio fu operato con successo, qualche settimana dopo.
Il cerchio si chiude. Hai lottato, con caparbietà, amore infinito e rabbia contro chi ti diceva che, si, tanto si possono avere altri figli sani, come se i figli fossero intercambiabili.
E nel frattempo è nata Chiara, solare, sembrava già da piccola baciata dalla fortuna, amatissima dal padre, che, anche se femmina, vedeva in lei il simbolo del successo e di un luminoso avvenire, forse per il suo sguardo curioso e l’atteggiamento intraprendente.
Questa strana lettera d’amore che adesso ti scrivo vuole solo dirti “Grazie” per la forza e la fede che hai avuto, perché il tuo amore ha spostato le montagne e sollevato macigni. E ti perdono, perché solo adesso riesci a guardare Chiara come la bambina che è, non come la donna che sarebbe potuta diventare, con l’amore infinito che ogni figlio merita per sé e che gli permetterà di camminare con le sue gambe…in ogni senso.
Forse l’hai amata solo a metà…ma il tuo cuore, allora andava in altra direzione.
Adesso renditi presentabile, perché ti hanno insegnato a non dare spettacolo di te, perché tanto la gente pensa solo a se stessa…Vero o non vero, non importa più…Ormai questo vestito fa parte del tuo guardaroba ed è un continuativo.
Ciao, Matilde.
Il foglio mi scivolò dalle mani, planando dolcemente e atterrando sul tappetino persiano.
Raccolsi le mani in grembo, mentre le lacrime scendevano lente e purificatrici. Svanita la mia gelosia per quell’amore così totale ed esclusivo che mi sembrava di percepire tra mia madre e mio fratello. Tutto era ritornato, ormai, a me pacificato.

 


 

L’angelo di cristallo

Graffia con artigli di cristallo
Questo dolore dolce ormai sbiadito.
Ma brillano bagliori di amaranto….

La risacca
all’imbrunire
accarezza e leviga conchiglie.

Vola in alto il cormorano
E ritaglia, nitida la figura,
pezzetti di ricordi frantumati
come foglie riarse accartocciate
che galleggiano nell’acqua.

Scivola silenziosa un’ombra
alle mie spalle…
Si è rappreso il dolore
In quel rosso vermiglio di una rosa
Che rampica solitaria nel giardino.

 


 

Sa di sale…

E come sa di sale
Il pane altrui
smozzicato ai bordi delle strade
quando il dare le scarpe
al proprio Andare
è solo frutto di eterno bisogno.
Manca la dignità alla tua vita
perché altri ti negano l’essenza
che sa di menta forte e di cedrina
che si confonde col profumo intenso
di zagara che soleggia nel mattino.

E non è la valigia con quei lacci
O il pianto dirompente dei tuoi figli
che negano le gioie le gioie alla tua vita.
E compagno invisibile e presente
è il rimpianto di odori e di profumi
è il sentirsi straniero in una terra
che mai ti accoglierà come suo figlio.

Forse la luna pallida e materna
che occhieggia tra le palme e i castagni
è la stessa che ti guarda tra i fumi
e le nebbie che opprimono la terra.
Ma il tuo essere figlio di due madri
Ti preclude la gioia del ritorno.

 


 

E sono vento

E sono vento
che aleggia tra le fronde
che vibrano leggere
al mio lento passare
mentre trema quel verde
che scolora.

E sono acqua che scivola leggera
levigando le pietre e il loro tempo.
E sono roccia
su cui frange
il suo perenne andare
caparbio il mare.
E sgretola le pietre.

E sono foglia che trema
quando al dolore del fratello amato
ingarbuglia le fila di matassa
e la maschera toglie dal suo volto.

E sono lava che scende sui tuoi fianchi
e sono canto e luce e danza antica
quando la mia passione si fa torcia
e sgretola quel muro di cristallo
che mi separa sempre dalla vita.

Certo che il tempo sta accartocciando
come foglia che fruscia sotto il sole.

 


 

Linee spezzate

Correvi appesa al filo
dei tuoi sorrisi
rapita dal vento
nudi i piedi
e braccia spalancate
verso il tuo destino
di rose e di ciliegie.

Ma l’ombra livida
venuta dal nulla
con passo felpato di iena
rivestita dal sudario
di perduta umanità
ha reciso quel filo
e i sogni sospesi
profumati di menta
sono volati via
dissolti in un cielo
diventato di pece
nero come una notte senza più speranza.

 


 

Per Elisa

Ruota attorno al grembo
di una madre
il sentiero di un figlio.
Vigile lo sguardo lo segue
il sorriso di madre.
Sorriso accucciato
lo sguardo di donna
sorriso felino di chi è avvezzo a difesa.
Ferita è la farfalla da eterne battaglie.
Eppure rinasce l’araba fenice
dalle sue stesse ceneri.
Filo d’Arianna riconduce al cerchio
scioglie i nodi
pacifica col mondo l’anima inquieta.
Cerco con la lanterna
quel filo sottile
Quell’ingarbugliato divenire
che dipana la matassa.
E’ l’apparente semplicità
di parola mai detta
che riconduce al fuoco
ai primordi del tempo.
Donna
granello di polvere
per un attimo tu
Immagine e somiglianza dell’infinita onnipotenza di Dio.

 


 

Israele

Uomo che vai
per i facili
sentieri dell’Inferno
calpestando
non senti
lo scricchiolio delle foglie
che secche
frantumano al contatto?
Non ti graffia il dolore
del volto sfigurato
di quel Povero Cristo
che appeso
sorride mesto
sotto il peso
del dolore degli uomini?
Inutilmente vorresti
sfuggire alla tua gogna.
Ma il dolore del male arrecato
è la macchia di sangue rappreso
che rosseggia nel vento di aprile.

 


 

Uomo

E sembra facile
stendere la mano
e strappare quel velo
indistruttibile ormai
che ti separa dallo specchio perfetto della vita.
Quale pianta coltivi
Nel tuo cuore di agave
arido ormai?
E i germogli?
Dove sono i germogli?
Vorresti forse camminare sulla terra
nudi i piedi
e sentire
sentirne il calore.
Ma la tua pietra rifiuta ormai il contatto.
Ti spingono gli sguardi altrui
per l’impervia salita.
Ma tu, tu, che vuoi?
Vuoi forse abbandonarti al dolce sogno
e sognare così, senza riserve…
ma ti spinge lo sguardo che allude
al groviglio che in te non si dipana.
Scegliere
potere scegliere il nuotare
nell’acqua di smeraldo del mio mare.
Ma nuotare non so.

 


 

Due vecchie signore

Il profumo di zagara inebriava, mescolato a quello delle rose gialle selvatiche che si inerpicavano rigogliose e violente lungo l’arco che immetteva in giardino. Laura respirava con voluttà quei profumi di Sicilia che esplodevano all’inizio di un’assolata estate. Finalmente da sua nonna, finalmente lontana da casa. Finalmente.

Con passo selvaggio e sicuro si inoltrò nel giardino, Trionfo di rose e piante grasse…”Strana accoppiata”, pensò, ”tipica di mia nonna”. I suoi capelli ricci e ribelli ondeggiavano liberi alla brezza. Libera anche lei, libera dal sentire rampogne, libera dal vedere sua madre sempre arrabbiata e scontrosa, sempre alla ricerca di una impossibile felicità con uomini sbagliati, troppo alti, troppo bassi, troppo violenti, troppo tutto…I suoi sedici anni reclamavano affetto, attenzioni, complicità. Ma il mondo la respingeva e la solitudine era alleggerita soltanto dai profumi di quel giardino e dal sorriso silenzioso, garbato e presente di nonna.

Ormai aveva deciso, avrebbe lasciato la scuola. Peccato, frequentare la Scuola d’Arte le piaceva, ma avrebbe cercato un lavoro qualunque e avrebbe guadagnato i soldi necessari per andare via, via da tutto e da tutti. Unico rimpianto, quel giardino e il sorriso dolce di nonna Maria.

Come evocata dal suo pensiero la nonna la chiamò. ”Laura, ti devo parlare”. ”Guai in vista?” pensò subito lei, dopo aver cercato di intuire, dal tono della voce, il tenore della futura conversazione. Ma nonna Maria esordì calma e pacata come sempre, dicendo che le chiedeva una cortesia, di essere gentile con una ragazza ospite della sua amica e vicina Francesca Rivoli, una ragazza straniera di pochi anni più grande di lei, ospite per qualche giorno a casa della sua amica. ”Ci mancava anche questa, devo fare l’assistente sociale a qualche ragazza viziata in cerca di emozioni che viene in vacanza dall’amica della nonna!” Il pensiero la innervosì fortemente e, alzando gli occhi che aveva tenuto caparbiamente abbassati per dimostrare, senza ombra di dubbio, il suo disappunto, intercettò il sorriso da Monna Lisa della sua incredibile nonna, che continuava, apparentemente, a potare le sue incredibili rose.

Linda, così si chiamava la ragazza, strano quel nome italiano, pensai in seguito, si presentò alla porta di casa il lunedì successivo. Era una ragazza filippina. Indossava un paio di jeans e un coloratissimo camicione verde smeraldo e i suoi capelli, lisci, lunghi, luminosi e neri, divisi in due ordinatissime bande da una scriminatura centrale, le ricadevano in parte sul viso, nascondendone l’espressione. Portava al collo, appeso a una sottile catenina d’argento, un piccolo angelo di cristallo iridescente e luminoso che catturava i riflessi del sole, mandando bagliori di luce. Rimase fulminata. Una filippina, l’ospite di Francesca Rivoli era una…badante! Si vergognò quasi subito di quel pensiero razzista e si sforzò di sorridere. Se la ragazza intuì il suo disagio non lo diede a vedere.

Si scambiarono un saluto timido e impacciato, quasi che entrambe sapessero bene di essere state costrette a quell’incontro non voluto.

Da lontano si sentiva la risacca del mare le cui onde, leggermente mosse dalla brezza, sprigionavano un intenso profumo di salsedine.

“Ti piace il mare?” chiese all’improvviso Laura, più per spezzare quell’assordante silenzio che per altro, ”Si, molto” ,rispose Linda.

S’incamminarono verso la spiaggia, era ormai pomeriggio inoltrato, per fare due passi. Lo sciabordio delle acque si infrangeva sulle gambe delle due ragazze, formando piccole, delicate conchiglie di schiuma.

“Mi dispiace che sei stata costretta a questo… forzato incontro con me. Ma le nostre…nonne ci tenevano così tanto! Del resto mi fermerò solo qualche settimana: spero di andar via presto”. Nel sentire quella strana frase Laura s’incuriosì e chiese di botto: ”Le nostre nonne? ”Sicuramente la sua espressione aveva un che di ridicolo, perché Linda scoppiò in una fragorosa risata che la contagiò e si ritrovarono entrambe a ridere senza fermarsi. Crollarono sulla spiaggia ormai quasi deserta, mentre il sole tramontava tranquillo, arrossando l’orizzonte.

“Francesca mi ha adottata a distanza dieci anni fa, circa. Io vivo…vivevo in una piccola comunità gestita da suore,la mia preferita era suor Cristina; è stata la madre che non ho mai avuta”. Abbassò la testa e i capelli a sipario, assecondando le sue intenzioni, e le nascosero il viso, ma poi, d’improv viso, rialzò la testa e guardò Laura negli occhi, e lei si accorse che erano grandi, profondi ,neri e tristi.”Io non ho mai conosciuto mia madre..,Tante volte ho chiesto a Cristina ,così la chiamavo, o “mamma”, quando mi scappava, le ho chiesto, ti dicevo,dei miei genitori ,ma lei è sempre stata evasiva, finchè un giorno, esasperata dalla mia insistenza mi disse che, a volte, è meglio non sapere, non conoscere la verità! ”Tua madre sono io, mi disse sorridendo, ti amo come se lo fossi. C’è chi ha molto meno, credimi. Non mi sono mai rassegnata e forse, un giorno, quando avrò soldi e tempo… Per adesso mi sta bene così. Non vuoi sapere di Francesca? ,continuò nel suo monologo interiore, ”Come l’ho conosciuta? Si presentò in comunità che avevo otto anni. Era in viaggio, non so chi o cosa cercasse, ma subito s’innamorò di me. Si, s’innamorò, mi amò per la mia storia che sicuramente lei conosce e io no. Mi adottò a distanza. Dopo poche settimane che andò via, mi comunicarono che mi aveva adottata e da allora mi ha mantenuta, fatta istruire e adesso pagherà i miei studi dopo il diploma, Voglio fare l’infermiera, il mio corso comincia tra qualche settimana, a Catania.” Laura ascoltava in religioso silenzio, mentre si vergognava profondamente delle sue impennate, dei i pregiudizi, delle considerazioni e delle scelte che aveva maturato .Ad un tratto gli errori di sua madre le parvero meno tragici, forse anche lei era malata di solitudine. E la signora Francesca, che lei aveva sempre guardato quasi con sufficienza, come fosse una donnetta da poco, una matura signora sessantenne senza storia, sempre con un libro in mano, da leggere con passione, le apparve sotto una luce nuova. Una donna con una storia.

“Cosa ha potuto spingerla a intraprendere un viaggio così lungo, da sola?”,si chiese Laura, curiosa come una bertuccia..

Ritornarono a casa in silenzio, ognuna avvolta nei suoi pensieri. Cenarono insieme, la signora Francesca, Nonna Maria, linda e Laura. Non parlarono molto, ma il clima era sereno e familiare, il silenzio era complice.

Quei quindici giorni trascorsero in un baleno, tra passeggiate silenziose, ma piene di significati nascosti, di parole non dette ma condivise, come spesso tra ragazzi che non hanno perso ancora il senso della vita.

Quel giorno Linda era particolarmente tesa e chiese di rimanere in giardino, piuttosto che fare la solita passeggiata al mare.

“Parto”disse senza tanti preamboli,”è arrivata la comunicazione. Il mio corso inizia Lunedì”. Quel giorno, lunedì, stava diventando fatale nella vita di Laura…Lunedì, l’unica amica che aveva veramente amata, capita e stimata andava via…E lei? Come aveva potuto affezionarsi per rivivere un altro abbandono? Suo padre era andato via che lei era bambina. Scacciò come insetto molesto quel pensiero. La guardava, affascinata dalla forza che emanava Linda, la guardava, muta.

“Non dici nulla?” chiese Linda, affranta quanto lei.

“Rimarrò sola, senza di te”, disse Laura, mentre torturava una ciocca dei suoi capelli ribelli, arrotolandola tra le dita affusolate. Ma ad un tratto, chissà perché, la sua vita le sembrò meno tremenda, avrebbe potuto continuare a studiare, prendere il diploma alla Scuola d’Arte, fare la restauratrice, come sognava da sempre, trasferirsi a Catania, magari, e ritrovare Linda…Avrà avuto la mente trasparente, perché lei avvicinò le mani al suo collo, sganciò la catenina col suo angelo di cristallo e la riagganciò a quello di Laura. ”mi ha portato fortuna”,disse,” sono sicura che il mio angelo custode aiuterà anche te. Ci rivedremo presto”. Il sole, basso all’orizzonte, catturava bagliori di luce dal piccolo angelo di cristallo. Alzarono gli occhi contemporaneamente e videro due anziane signore apparentemente occupate, una a leggere l’ennesimo libro, l’altra a potare rose selvatiche; ma, stranamente, sul viso di entrambe aleggiava il sorriso sibillino di Monna Lisa.

 


 

Cara Paola,

ti chiederai come mai, dopo anni di silenzio, sto scrivendoti questa assurda lettera che sa di confessione. E’ la coscienza, o i brandelli che ne rimangono, a spingermi a questo gesto che definirei… inconsulto? Non lo so, ma il bisogno di parlare, mi spinge a farlo. Ti spedirò questa lettera via email, un semplice “invia” e tutto si concluderà… Impedirò così a me stessa di pentirmene. Perché scrivere proprio a te? Forse perché tanti anni fa, quella sera, mentre guardavamo il mare, mi dicesti:” Guarda com’è bello e immenso e infinito… come la nostra amicizia.”

Sarà questo labile ricordo che ha la consistenza di un’ala spezzata di farfalla a spingermi a scriverti? Non so, ma so che tutto cominciò così.

Guardavo il computer tra il tedio, la noia e la solita voglia di scappare via. Il computer ricambiava il mio sguardo con l’indifferenza di sempre. Era acceso. Mi tentava. La mia vita scorreva ormai da mesi su due binari paralleli, complementari e indifferenti l’uno all’altro. Cosa strana per me, non riuscivo a provare nessun senso di orrore o di vergogna per quello che io, ingessata docente di matematica di liceo, temuta e riverita, tutta casa, chiesa e azione cattolica fino a qualche tempo prima, diventavo virtualmente nelle pause della mia strana, noiosa, strampalata vita.

Naufragio, il naufragio era la nota dominante della mia esistenza. Un marito traditore, un figlio non mio. Ti ricordi quante volte abbiamo fantasticato sulla nostra vita futura? Nessuna delle due voleva una vita normale, anonima e comune, tu volevi fare l’archeologa e io il medico di frontiera, avrei salvato vite umane e, non lo nascondo, mi sentivo già un piccolo dio minore.

Flash. Ripenso a come tutto è cominciato. Circa un mese fa mio marito, attento sempre alla sua privatissima vita, aveva lasciato acceso quel suo maledetto portatile. Messaggio inviato:” Ti ho pensata tanto. Mi manchi da morire. Aldo.” Risposta: “Viaggio di ritorno in treno in trance. Ti amo. Chiara”.

Frantumi di dolore, pezzi sparsi per la stanza, invisibili pezzi sparsi e conficcati dappertutto, nel cervello, nel cuore, nella carne. Anna, io, Anna, con la mia ordinatissima vita scandita dal suono della campanella, dall’attenzione costante per mio figlio, mio marito e, orribile a dirsi, per i miei disperati alunni, Anna, io, Anna, ero solamente una donnetta tradita, una donnetta di cristallo rotta. Avvilente. Non avevo avuto figli, o meglio, Aldo non ne aveva voluti, così diceva. In realtà non poteva averne. Lo scoprii quasi per caso, poiché nella mia lineare vita è il caso che comanda, incide e devia i percorsi.

Quando lo scoprii, parecchi anni prima, quasi quindici per l’esattezza, non seppi come urlare il mio dolore e la mia delusione. E scelsi il silenzio.

Durante l’ennesima visita dal ginecologo, lui mi accompagnava silenzioso, freddo e scostante, il professore mi assicurò che io non avevo problemi e che non si spiegava come mai non fossi rimasta ancora incinta; diceva di non volere figli, mio marito, di non sentirne la necessità e da lì discussioni… Durante quella maledetta visita, dicevo, il professore chiese, quasi per caso: ”E lei, avvocato, ha mai fatto qualche controllo?” Il viso di mio marito divenne rosso paonazzo e l’imbarazzo risultò così evidente che il dottore comprese al volo che qualcosa non andava per il suo verso. Insistette con tono professionale, come se non avesse capito nulla, di fare “un controllino”, disse proprio così,” un controllino”, giusto per tranquillità. Si sottopose agli esami di rito riluttante e scontroso, risultato: mio marito non poteva avere figli. ”Spermatozoi inetti”, disse il professore, proprio così. Pensai a Italo Svevo. Sorrisi, uno di quei sorrisi amari che ti si stampano nel cervello, nel cuore e nell’espressione, per cui gli altri pensano di te che sei fredda, distante e algida, che guardi con sufficienza, che vivi nel tuo mondo. Non è facile leggere la sofferenza. O non è importante. Il ritorno a casa fu silenzioso e nessuno dei due parlò, forse per non fare scoppiare l’uragano. Terribile errore, se ci fossimo graffiati e offesi, ingiuriati e odiati, forse avremmo salvato il nostro matrimonio.

Ma non lo abbiamo fatto, mio Dio no, non lo abbiamo fatto. E da quel giorno è iniziato il mio lento morire. Non sopportavo più di lui, Aldo, neppure la presenza fisica, la voce monocorde, cambiavo stanza appena lui entrava nel posto dov’ero io. Continuammo per settimane quell’assurdo siparietto, finchè un giorno, come per caso, mi propose di adottare un figlio. Un figlio, un figlio tutto nostro! E se quello fosse un segno del destino? Chissà… i miei problemi, i suoi… un figlio e avremmo ricominciato a vivere, avremmo ricostruito una famiglia. Un figlio, si.

Assurdamente fu Luca che scelse noi. Nell’istituto in cui andammo per conoscerlo, nello stanzone con otto lettini in cui si trovava, entrammo impauriti e imbarazzati.

Le sue manine piccole e affusolate erano aggrappate al box dove era rinchiuso; ma fu il suo sguardo a commuoverci e prenderci l’anima… Ci guardava e i suoi occhi azzurri, bellissimi e disperati, ci raccontarono storie di dolore e di solitudine. Quel bambino aveva bisogno di me. Di noi.

Sentii l’anima graffiata da quel sorriso impotente e spento, disperato e struggente come una nebbiosa mattina d’autunno. Lo guardai e tutto l’amore che non riuscivo più a provare per nessuno esplose. Quel bambino mi avrebbe ridato la vita.

lo chiamai Luca. Quante volte, nei momenti cupi della disperazione, ho pensato di lui che era stato un investimento a perdere. Lo guardavo e con parole mute gli gridavo il mio dolore e la mia delusione e lui, quel linguaggio, lo sapeva leggere perfettamente. Era un inetto, inetto come gli emo, inetto come la vitalità di mio marito.

Fu così che approdai a internet, una sera, quasi per caso; incappai in un sito e feci nuove conoscenze. Che campionario di personaggi che incontravo, dalla casalinga delusa che si prostituiva al miglior offerente al dirigente in cerca di avventure, dallo scrittore in cerca di materiale umano all’avvocato colto e incapace di perdere tempo per cercare una compagna nella vita reale. La mia vita cominciò a essere scandita dal mio collegarmi al computer, dalle mie quattro chiacchiere leggere con gente sconosciuta che non pretendeva eroismi, rinunce e sacrifici da me. E perfezione. Ed efficienza ad ogni costo. Finchè non inciampai in Alfredo.

Alfredo era un informatore scientifico, colto, raffinato, quel tipo di uomo che avrei voluto avere accanto e non quell’anaffettivo di Aldo che credeva che io avessi la vitalità di una medusa. Colpa sua, colpa mia, non so, e ormai, non aveva più nessuna importanza. Le nostre lunghe conversazioni, prima via computer e poi al telefono, erano attese da me come da un’adolescente invaghita, alla sua prima cotta: non mi sentivo più secca come un ramo rinsecchito. Quando passavo nel corridoio di casa mia, davanti a quello specchio imponente, severo e inutile come la mia vita, quasi non mi riconoscevo più. Ero ridiventata bella, finalmente, dopo tanti anni di sconforto e amara solitudine, ero ritornata bella e i miei occhi risplendevano nuovamente e si illuminavano per nulla. Non mi bastava più fare la madre, volevo essere anche una donna.

“Mamma, esco” La voce di Luca, figlio quindicenne problematico come tutti i quindicenni, mi annunciò duramente la sua uscita.

Usciva con Giacomo, un ragazzino insignificante dal muso volpino e di pelo rosso e sgradevole nell’aspetto e soprattutto nell’odore. E nel carattere. Viscido e falso, con gli ormoni che andavano a mille, trascinava mio figlio in strade senza uscita, piastrellate di birre e videogiochi. All’allegra brigata si unì Sara, una ragazzetta di quindici anni che aveva abbandonato la scuola e che frequentava a singhiozzo, giusto per non avere guai con la legge e l’assistente sociale. Padre assente e madre che faceva quadrare i conti come poteva… Quell’insulso di Giacomo aveva messo gli occhi su Sara e, chi lo sa, magari per rendere più pepata la cosa, cercava di coinvolgere mio figlio in qualche assurda, insulsa e sordida storia. Io glielo dissi, una sera che rientrò più tardi del solito, glielo ripetei a muso duro, senza ritegno, senza riserve e senza rispetto per lui, Luca, per lui che non si stimava, per lui che mi ripeteva spesso “A me tanto nessuno mi piglia sul serio, nessuno mi vuole, solo Giacomo mi vuole veramente bene, dove lo trovo un altro amico che mi vuole bene come lui?”. Ascoltavo quei discorsi strampalati e mi rifiutavo di ricordare che mio figlio era stata adottato, che le cicatrici dei primi tre anni della sua vita nell’istituto avevano lasciato un solco incancellabile. Ma io dovevo vivere la mia vita, dovevo vivere la mia vita. L’incontro con Alfredo risvegliò il mio desiderio dormiente da anni, no, da secoli. E Luca se ne accorse e cominciò ad uscire sempre più spesso ed io a vivere la mia vita, finalmente. Quella maledetta telefonata arrivò durante uno dei miei fugaci incontri con il mio amante (detto così sembra tutto sordido, ma non è così, ti giuro che non è così). Il cellulare aveva squillato con insistenza mentre io, a casa sua, consumavo uno dei miei incontri con quell’uomo che mi aveva ridato un poco di felicità. Mio figlio singhiozzava disperatamente e un suono strano e sincopato sembrava coprire quei singhiozzi. Il senso di colpa questa volta arrivò rapido, lancinante e preciso. Conclusi in tutta fretta quell’incontro rubato, quell’illusione di felicità che carpivo alla vita avara e amara e mi recai precipitosa a casa. Luca era in camera sua, rannicchiato sul suo letto, sembrava un feto, un piccolo, vulnerabile feto. Mi sentii di ghiaccio. Il famoso Giacomo l’aveva picchiato con forza, quasi con disperazione, perché lui aveva detto di no, si era rifiutato di fare del male a Sara, di rovinarla per sempre. Si erano isolati, mio figlio, Giacomo e Sara, in una stradina di campagna e il folle incitava Luca ad approfittare della situazione… Terrorizzato, mio figlio aveva cercato di difendere Sara che era riuscita a fuggire, e lui si era sfogato a pugni e a calci sul mio bambino e io non c’ero. Io non c’ero. Appena lo toccai cominciò a urlare. Riuscii a farlo girare e ad abbracciarlo. Piangemmo insieme per un tempo che mi sembrò interminabile. Dopo che si addormentò con un blando sedativo, uscii di casa. Il numero di telefonino di quel ragazzo io l’avevo di già e lo chiamai, mi rispose con un tono sarcastico, da cui non trapelava nessuna forma di disagio.”Ah, la prof. che chiama il ragazzo del bar! Stronza, che vuoi? Se vuoi il resto dimmelo, che io sono pronto per questo e per altro…” Cominciai a vomitargli addosso tutta la mia rabbia, il mio dolore e la mia impotenza e poi chiusi con una minaccia esplicita, che se avesse ancora cercato mio figlio l’avrebbe pagata cara.”Ti denuncio o ti ammazzo,dipende”. Fui certo convincente perché ammutolì e io non gli diedi certo il tempo di replicare. Il peso della pistola nella mia borsetta era rassicurante, pistola regolarmente denunciata alla polizia, perché Aldo, il mio granitico marito, quando eravamo in villa voleva dormire tranquillo, niente porto d’armi ma in quel momento era l’ultimo dei miei pensieri. Dopo una camminata veloce rallentai il passo. Si era fatto tardi e il mare rumoreggiava tra gli scogli. Respirai profondamente e il mare mi entrò dentro, con il suo senso della vita e della morte. Ritornai a casa a passi lenti, convinta che Luca stesse ancora dormendo, invece era sveglio e mi aspettava. Chiese inaspettatamente:”Lascerai papà?” Il mio sguardo si incupì di botto. Mi ritornò un moto di rabbia, perché con il “papà non dormivamo più insieme da parecchi anni, ormai. Eppure era il papà, quella famiglia esile e sgangherata era ancora il suo punto di forza. Mi sentii in prigione, non potevo uscire dalla mia galera perché mio figlio aveva bisogno ancora di quella esile certezza che era la mia prigione. Mi guardava con aria implorante e lo rividi in flash con suoi occhi azzurri, bellissimi e disperati che raccontarono storie di dolore e di solitudine. Quel bambino aveva bisogno di me. Di noi. A torto o a ragione. Gli diedi un bacio e mi allontanai in silenzio, mi chiusi in camera mia, dormivo ormai da sola da tempo e accesi il mio portatile, mi collegai, Alfredo mi aspettava in sito.”Quando ci rivedremo?”, insisteva, ”Molla tutto e vieni via con me”.

Il cigolio della porta mi fece girare la testa e Luca era lì, che mi guardava. Guardai il nome con cui mi ero registrata nel sito, Claudia. Premetti”cancella” e spensi il computer. ”Andiamo a letto, Luca, questa sera ti farò compagnia finchè non prenderai sonno”. Mi sorrise e si accucciò tra le mie braccia.

Non mi chiesi se la mia scelta fosse giusta o sbagliata, ma di una cosa ero certa, che la mia libertà poteva attendere.

Paola,perché ti ho scritto questa lettera?Non so,ma ripercorrere il mio personale inferno hqa dato un senso alle mie scelte. Non aspetto risposta e,forse,non vorrei neppure riceverla,ma sapere che sai mi fa sentire sicuramente meno sola.

Ti bacio con immutato affetto.

Anna

 


 

Hadiya

“Mamma, mamma, tu sei la mia mamma di cuore! ”Hadiya saltellava felice attorno al tavolo della spaziosa ed elegante cucina ultramoderna, in acciaio e bordeaux, sotto il mio sguardo adorante. Quella figlia era stata veramente voluta, amata ed accolta, anche se non partorita dalle mie viscere. Mentre la mia bambina continuava a saltellare allegramente, ne scrutavo i lineamenti dolci ma decisi, la pelle leggermente ambrata, perfetta, come di chi vive all’aria aperta o di chi trascorre molto tempo al mare. La somiglianza con il padre, Karim, era impressionante,anche se i lineamenti di Jane, la madre morta di parto, si intravedevano e si materializzavano nella fronte ampia e spaziosa, negli occhi nocciola screziati di verde e nei capelli tendenti stranamente più al castano chiaro che al nero corvino. L’avevo conosciuta solamente in una fotografia che la ritraeva accanto a Karim, nei tempi felici del primo anno di matrimonio. Lo sguardo giocoso e intelligente,
curioso e quasi enigmatico, rendevano Hadiya una bambina veramente speciale. La mia bambina. Mentre guardavo mia figlia, il ricordo di come tutto era cominciato mi avvolse come una calda coperta…
Quel giorno di metà aprile, a Londra di due anni prima, l’università dove insegnavo era in fermento…
Aspettavamo Karim Ahmad docente universitario di chiara fama e, a dire di chi aveva già visionato il suo profilo su internet, oltre che il suo curriculum, un uomo di sostenuta bellezza e di grande carisma. Era egiziano. Negli ultimi tempi le notizie degli attentati degli integralisti islamici avevano reso il mio, come dire, slancio umanitario molto più tiepido. Troppe morti, troppe lapidazioni rimaste impunite, troppe
giustificazioni ufficiali di eventi ingiustificabili… Mi sentivo sulla pelle il dolore delle donne martoriate e uccise. Nonostante le mie origini siciliane, luogo in cui mille culture si erano fuse nel crogiolo del tempo, per cui l’inclusione era un modo di vivere e di pensare più che una scelta ideologica, nonostante questo, dicevo, mi era rimasto poco spazio per la vera tolleranza o accoglienza o inclusione come dir si voglia. Anche per un egiziano plurilaureato. Il mio compito era quello di mediatrice negli interventi dei relatori, quello di definire e ricordarne i tempi e di passare la parola ai mille giornalisti intervenuti.
Quel giorno avevo raccolto i miei capelli, splendidi in verità, in un severo chignon,avevo indossato tacchi di media altezza e un tilleur grigio… metallizzato come la mia Lancia Ypsilon, fedele compagna di estenuanti, liberatorie e interminabili corse. Quella macchina mi dava sicurezza e il fatto che fosse stato un regalo di mio padre me la rendeva estremamente cara… Quel colore mi avrebbe portato fortuna. Il ruolo mio era
impegnativo e lo sapevo. Quando quello che io,in mente mia, chiamavo “l’egiziano” arrivò, certo non mi aspettavo quel genere di uomo. Sguardo mobile e curioso, aria vagamente ironica, come se avesse indossato una giacca pirandelliana per difendersi dalle opinioni e dai pregiudizi degli occidentali. Quindi anche dai miei.
Argomentò le proprie opinioni in modo appassionato e coerente e la sua posizione che definii “moderata” riuscì a suscitare parecchi consensi tra i presenti, che condivisero o quantomeno rispettarono le sue opinioni. Ci innamorammo. Mi ricordai della storia di Ruggiero e Bradamante… forse speravo follemente un’inversione di rotta verso la mia religione… Mi resi conto ben presto che era impossibile evento. La prima volta che scendemmo in Sicilia a trovare i miei, mi sentii come la protagonista di “Indovina chi viene a cena”.
Non eravamo ancora sposati, allora, ma portammo Hadiya ugualmente con noi. Aveva già i cinque anni.
Hadiya, il suo nome in arabo significa “dono”. Solo più tardi, parecchio più tardi, mi resi conto di quanto quel nome fosse appropriato. Durante le nostre lunghe, interminabili passeggiate in macchina, inghiottiti dall’eterna nebbia londinese che io, figlia del sole, non ero ancora riuscita ad accettare, parlammo di tutto e le differenze tra noi erano evidenti.

Cominciai a pensare che la nostra era una relazione “a tempo” e che non poteva avere nessun futuro. Un giorno mi disse: ”Vieni, voglio farti conoscere Hadiya”. Quel dolcissimo nome di donna mi accarezzò come una musica e anche se, sconvolta, non riuscivo a capire, mi guidò verso casa sua. Una donna tipicamente inglese aprì la porta e non ebbe il tempo di salutare che un batuffolo di tre anni circa si precipitò tra le
braccia del padre, che la strinse forte, come qualsiasi padre fa. Quella scena di vita familiare mi sconvolse perché mi sembrò così naturale, così umana, così… normale! Cosa mi aspettavo? ”Mo”, così lo chiamavo ormai, indossò quel suo sorriso da occidentale a quella mia reazione. Pensavo forse che la bambina avrebbe accolto il padre con un ingessato inchino e che indossasse il burka? Se intuì la mia mortificazione non lo fece trapelare. Hadiya mi conquistò immediatamente, era una bambina vivace e allegra e sembrava non risentire troppo della mancanza della madre.
Quando decidemmo di scendere in Sicilia perché desideravo fargli conoscere i miei,portammo anche la nostra bambina. Fu lei il nostro passaporto. Passò quasi inosservato lo sguardo nervoso di ”Mo” e la mia faccia da impunita, perché la protagonista indiscussa della scena divenne subito lei. Abbracciò mia madre che si sciolse in lacrime di gioia, cosa strana per una guardinga docente di lettere classiche e conquistò mio padre chiamandolo “nonno”. Arrivarono una marea di regali, tra cui moltissimi peluche. Quando zio Eligio, che tutti
amavamo smodatamente ma di cui tutti conoscevamo la distrazione, sfiorò l’incidente diplomatico. Dopo aver abbracciato la bambina con sincero calore, scartò insieme a lei e con uguale entusiasmo il suo regalo: un bellissimo braccialetto d’oro e ametista, al collo di un maialino rosa. Il silenzio divenne tangibile e tranne mio zio ed Hadiya, che non sembravano essersi accorti di nulla, tutti restammo in un frastornato silenzio, pronti a chi sa quale reazione da parte di Mo. Egli rimase apparentemente impassibile, mentre Nora, mia madre, viola come il suo vestito, toglieva dalle mani di mia figlia, garbatamente, il piccolo animale e mentre si complimentava per la bellezza del prezioso braccialetto, fece sparire sotto il divano l’infausto animale. La serata scivolò via senza altri incidenti,ma quando fummo da soli Mo, serio, disse: ”Lo sai che i miei figli saranno educati alla religione musulmana,vero?” Sembrava parlare quasi con sofferenza. Continuò. ”Tu puoi professare liberamente la tua religione, che io, come sai, apprezzo. Ma i nostri figli saranno musulmani ”Pronunciò queste parole con determinazione ma senza aggressività e a me non suonarono come una condanna. Completò, quasi a volere smorzare il tono quasi duro della sua sentenza ”Da grande farà le sue scelte”. La voce della nostra bambina che ci chiamava ci scosse da quel momento di incomprensione.
Andammo alla finestra. La mia piccola era salita in macchina e fingeva di guidare. Aveva lo sguardo che puntava lontano e si era avvolta il foulard di mia madre attorno al capo, come fosse un burka.
”Mamma, mamma, da grande farò il pilota e vincerò le gare”esclamò felice. Ci guardammo. Tutta la nostra storia sarebbe stata una bella sfida. Ma ne sarebbe sicuramente valsa la pena.

 


 

Aguzze conchiglie

Cammino…
accidentati i miei passi.
Su aguzze conchiglie
s’infrange
schiumosa di fumo
la risacca.
E cielo e mare
macigni di grigio…
Mozzo il respiro.

Dove, dove si è frantumata la Speranza?
Forse ascoltando
inutili canti di Sirene
emersi dal gorgoglio del tempo…
Forse ignorando straziati pianti
di voci abbandonate…
Sorda allo scricchiolio di chi pesta
esili fili d’erba
con calzari d’acciaio.
Mute le grida di innocenti
si alzano al cielo.

Ma lacrime di cristallo
cadono…
E feriscono ancora.
Rinasce, tenue, il Glicine
dalla Terra riarsa.
Non più muto quel grido.

 


 

Dies irae

Lento all’ira
Dio accoglie anime innocenti
del vilipendio umano.
Pencola dalla forca dondolando
un ramo arrugginito.
Non è quello il suo posto

dove s’infrangono
aggrovigliati sogni.
Tragico fato si nasconde
nelle umane sventure…
o è umana incuria?
S’intrecciano come maglie d’acciaio
rossi anelli di dolore.

Irato è il Dio dell’amore e del rispetto
vilipesi e infranti…
Piange il Dio della sapienza al dolore del creato
quando l’uomo disattende al suo talento
e diviene lupo per altri uomini.
E la creatura offende il Creatore…
Temo il giorno dell’ira quando
Raggiunti i colmi
alzandosi nel tempio
Egli travolgerà le anfore
traboccanti di squamati serpenti.

 


 

Ragnatele

Ragnatele di pensieri
s’intessono
al chiarore di una complice luna.
Leggera l’aria…come ala di farfalla.
Libero vaga il mio pensiero
impalpabile nella dolce armonia
di mondi che fluttuano
nel pensiero infinito di Dio…

E se l’Amore potesse avere un volto
Avrebbe il tuo viso, figlio mio,
che cammini per inesplorati sentieri
con passo fermo e la bisaccia colma.
Ti strattonano i venti
nel gorgo grigio e incessante…
Ti graffiano spesso i rovi e gli sterpi.
Ma il canto soave di infiniti mondi
ti porge la mano e sorregge il tuo passo.
L’ incessante ritorno ai profumi
che volano leggeri nell’aria della notte infinita
stellata e chiara
disegnano
improbabili arabeschi di menta e di cedrina
leniscono il tuo dolore
riaccendono vivido e forte
quel Fuoco.

 


 

Silenzio di donna

Su impalpabili sentieri ho camminato
per non calpestare il silenzio.
Per anse tortuose
tra rocce e dirupi
in intricati verdi di adamanto
si è addentrato il mio passo…

Passo di donna è passo si volpe
è indicibile canto di sirena
che nuota tra eterni flutti che s’infrangono
sfiorando gli abissi
tra iridescenti stelle mattutine.

Donna…
Sorta dal mare
generi nell’acqua…
e quando, come l’acqua
mille forme diverse tu assumi
la tua non è fragilità.

Forte il tuo canto esplode
e salva chi ha forza per sentire
e distrugge chi non lo sa ascoltare.

 


 

Tempo

Come riempire i vuoti che la vita
inesorabile
scarta nel tuo Tempo
che implacabile scorre?

E’ il dolore
che lancina nel vento
nella notte incredibile d’agosto
tra stelle antiche e profili di tetti
mentre l’acqua inesorabilmente
lava le pietre scorrendo giù
in aperta vallata…

E la divina indifferenza
non lenisce, non cura
e lascia senza forze e senza fiato.
Senza più foglie
e senza più un sussulto
è la vita che ti scorre nelle vene.

Ma che colore ha l’enorme Assenza
che graffia più dell’acuto dolore
e che distrugge ogni palpito di vita?
Come un vecchio canuto e claudicante,
lento pede, procedo verso quella fiammella
accucciata e trasparente
che danza ancora in fondo…

 


 

Silenzio

Non mi sfiorano più
I tuoi sorrisi
in schegge frantumate dal livore.
Quando il respiro lieve del mio Mare
si è fermato sui miei capelli, attonito?
Quando si è spento quel barlune
che, tenue filo, ci teneva uniti?
E inebriava ancora il gelsomino
lungo il viale alberato.
E stordivano i papaveri al passare..
Non un sussurro più alle mie orecchie.
Silenzio.
Ho inaridito il cuore mio
Perché il dolore non lo trafiggesse.
E infine ho consegnato al Nulla la mia Vita.
Ma come lampo
negli spazi concavi del Tempo
lambisce il fuoco di antiche fiamme
annichiliti pensieri.

 


 

Luna chiara

Limpida,chiara
e bella
è la notte.
Screzia di nero
l’albero
il cobalto del cielo.

Appesa al sottile filo
del ragno
sta la luna.
E’ la stessa che vide
me bambina
quando cercavo i sogni
che leggeri
scivolavano dolci tra le dita
ignorando il ghiaccio dei cristalli.

Dopo tempo ancora sopravvive
Alla musica dura del tamburo
un brandello di seta sfilacciato.

Eppure ancora quel tuo chiaro lume
come la madreperla di conchiglia
mi regala un miele distillato
da assaporare piano
nettare dolce tra le labbra arse.

 


 

Lo sguardo di Giulio

Guardavo il computer tra il tedio, la noia e la solita voglia di scappare via.Il computer ricambiava lo sguardo con l’indifferenza di sempre. Era acceso. Mi tentava.La mia vita scorreva ormai da mesi su due binari paralleli, complementari e indifferenti l’uno all’altro. Cosa strana per me, non riuscivo a provare nessun senso di orrore o di vergogna per quello che io, ingessata docente di matematica di liceo, temuta e riverita, tutta casa, chiesa e azione cattolica fino a qualche tempo prima, diventavo virtualmente nelle pause della mia strana,noiosa,strampalata vita.

Naufragio, il naufragio era la nota dominante della mia esistenza. Un marito traditore, una figlia non mia.

Flash. Ripenso a come tutto è cominciato. Mio marito, attento sempre alla sua privatissima vita, aveva lasciato acceso quel suo maledetto portatile. Messaggio inviato:” Ti ho pensata tanto. Mi manchi da morire. Aldo”. Risposta: “Viaggio di ritorno in treno in trance. Ti amo. Chiara”.

Frantumi di dolore, pezzi sparsi per la stanza, invisibili pezzi sparsi e conficcati dappertutto, nel cervello, nel cuore, nella carne. Anna, io, Anna, con la mia ordinatissima vita scandita dal suono della campanella, dalla passione per mia figlia, mio marito e, orribile a dirsi, per i miei disperati alunni, Anna, io, Anna, ero solamente una donnetta tradita, una donnetta di cristallo rotta. Avvilente. Non avevo avuto figli, o meglio, Aldo non ne aveva voluti, così diceva. In realtà non poteva averne. Lo scoprii quasi per caso, poiché nella mia lineare vita è il caso che comanda, incide e devia i percorsi.

Quando lo scoprii, parecchi anni prima, quattordici per l’esattezza, non seppi come urlare il mio dolore e la mia delusione. E scelsi il silenzio.

Durante l’ennesima visita dal ginecologo,lui mi accompagnava silenzioso,freddo e scostante, il professore mi assicurò che io non avevo più problemi e che non si spiegava come mai non fossi ancora incinta; diceva di non volere figli,mio marito,di non sentirne la necessità e da lì discussioni….durante quella maledetta visita, dicevo, il professore chiese, quasi per caso: ”E lei, avvocato, ha mai fatto qualche

controllo?”Il viso di mio marito divenne rosso paonazzo e l’imbarazzo risultò così evidente che il dottore comprese al volo che qualcosa non andava per il suo verso.

Insistette con tono professionale, come se non avesse capito nulla, di fare “un controllino” ,disse proprio così,” un controllino”,giusto per tranquillità:mio marito non poteva avere figli.”Spermatozoi inetti”,disse il professore,proprio così. Pensai a Italo Svevo. Sorrisi, uno di quei sorrisi amari che ti si stampano nel cervello, nel cuore e nell’espressione, per cui gli altri pensano di te che sei fredda,distante e algida, che guardi con sufficienza,che vivi nel tuo mondo. Non è facile leggere la sofferenza. O non è importante.Il ritorno a casa fu silenzioso e nessuno dei due parlò, forse per non fare scoppiare l’uragano. Terribile errore, se ci fossimo graffiati e offesi, ingiuriati e odiati, forse avremmo salvato il nostro matrimonio.

Ma non lo abbiamo fatto, mio Dio no, non lo abbiamo fatto. E da quel giorno è iniziato il mio lento morire. Non sopportavo più di lui,Aldo,neppure la presenza fisica,cambiavo stanza appena lui entrava nel posto dov’ero io.Continuammo per settimane quell’assurdo siparietto, finchè un giorno, come per caso, mi propose di adottare un figlio. Un figlio, un figlio tutto nostro! E se quello fosse un segno del destino? Chissà…. i miei problemi, i suoi…un figlio e avremmo ricominciato a vivere,avremmo ricostruito una famiglia. Un figlio, si.

Assurdamente fu Giulio che scelse noi. Nell’istituto in cui andammo per conoscerlo, nello stanzone con otto lettini in cui si trovava, entrammo impauriti e imbarazzati.

Le sue manine piccole e paffute erano aggrappate al box dove era rinchiuso; ma fu il suo sguardo a commuoverci e prenderci l’anima…Ci guardava e i suoi occhi azzurri, bellissimi e disperati, ci raccontarono storie di dolore e di solitudine. Quel bambino aveva bisogno di me. Di noi.

Sentii l’anima graffiata da quel sorriso impotente e spento, disperato e struggente come una nebbiosa mattina d’autunno. Lo guardai e tutto l’amore che non riuscivo più a provare per nessuno esplose.Quel bambino mi avrebbe ridato la vita.

lo chiamai Giulio. Quante volte, nei momenti cupi della disperazione, ho pensato di lui che era stato un investimento a perdere. Lo guardavo e con parole mute gli gridavo il mio dolore e la mia delusione e lui, quel linguaggio, lo sapeva leggere. Era un ragazzo problematico, con elementi autistici. A volte inetto come gli emo, inetto come la vitalità di mio marito.

Fu così che approdai a internet, una sera, quasi per caso; incappai in un sito e feci nuove conoscenze.Che campionario di personaggi che incontravo, dalla casalinga delusa che si prostituiva al miglior offerente al dirigente in cerca di avventure, dallo scrittore in cerca di materiale umano all’avvocato colto e incapace di perdere tempo per cercare una compagna nella vita reale. La mia vita cominciò a essere scandita dal mio collegarmi al computer, dalle mie quattro chiacchiere leggere con gente sconosciuta che non pretendeva eroismi, rinunce e sacrifici da me. E perfezione. Ed efficienza ad ogni costo. Finchè non inciampai in Ugo.

Ugo era un informatore scientifico,colto,raffinato,quel tipo di uomo che avrei voluto avere accanto e non quell’anaffettivo di Aldo che credeva che io avessi la vitalità di una medusa. Colpa sua, colpa mia, non so e, ormai, non aveva più nessuna importanza. Le nostre lunghe conversazioni, prima via computer e poi al telefono, erano attese da me come da un’adolescente invaghita, alla sua prima cotta: non mi sentivo più secca come un ramo rinsecchito. Quando passavo nel corridoio di casa mia, davanti a quello specchio imponente, severo e inutile come la mia vita quasi non mi riconoscevo. Ero ridiventata bella, finalmente, dopo tanti anni di sconforto e amara solitudine, ero ritornata bella e i miei occhi risplendevano nuovamente e si illuminavano per nulla. Non mi bastava più fare la madre, volevo essere anche una donna.

“Mamma , esco” La voce di Giulio, figlio quindicenne problematico come tutti i quindicenni, mi annunciò duramente la sua uscita.

Usciva con Giacomo, un ragazzino insignificante dal muso volpigno e di pelo rosso e sgradevole nell’aspetto e soprattutto nell’odore. E nel carattere. Viscido e falso, con gli ormoni che andavano a mille, voleva portare mio figlio a spacciare , solo quello voleva fare e io glielo dissi,una sera che rientrò più tardi del solito,glielo ripetei a muso duro,senza ritegno,senza riserve e senza rispetto per lui, Giulio, per lui che non si stimava,per lui che mi ripeteva spesso “A me tanto nessuno mi cerca, nessuno mi vuole, solo Giacomo mi vuole bene, dove lo trovo un altro che mi vuole bene come lui?”. Ascoltavo quei discorsi strampalati e mi rifiutavo di ricordare che mio figlio era stato adottato, che le cicatrici dei primi tre anni della sua vita nell’istituto avevano lasciato un solco incancellabile. Dovevo vivere la mia vita, dovevo vivere la mia vita. L’incontro con Ugo risvegliò il mio desiderio dormiente da anni, no, da secoli. Giulio cominciò ad uscire sempre più spesso ed io a vivere la mia vita, finalmente. Quella maledetta telefonata arrivò durante uno dei miei fugaci incontri con lui. Il cellulare aveva squillato con insistenza mentre io, in un albergo discreto e fuori mano, consumavo uno dei miei incontri con quell’uomo che mi aveva ridato un poco di felicità. Mio figlio singhiozzava disperatamente e un suono strano e sincopato sembrava coprire quei singhiozzi. Il senso di colpa questa volta arrivò rapido, lancinante e preciso. Conclusi in tutta fretta quell’incontro rubato, quell’illusione di felicità che carpivo alla vita avara e amara e mi recai precipitosa a casa. Giulio era in camera sua, rannicchiato sul suo letto sembrava un feto, un piccolo, vulnerabile feto. Mi sentii di ghiaccio. Il famoso Giacomo l’aveva picchiato con forza, quasi con disperazione, perché lui aveva detto di no, che non voleva ”farsi” E lui si era sfogato a pugni e a calci sul mio bambino e io non c’ero. Appena lo toccai cominciò a urlare. Riuscii a farlo girare e ad abbracciarlo. Piangemmo insieme per un tempo che mi sembrò interminabile. Dopo che si addormentò con un blando sedativo, uscii di casa. Il numero di telefonino di quel ragazzo io l’avevo di già e lo chiamai, mi rispose con un tono sarcastico, da cui non trapelava nessuna forma di disagio. ”Ah, a prof. Che chiama il ragazzo del bar! Stronza, che vuoi? Se vuoi il resto dimmelo, che io sono pronto per questo e per altro… ”Cominciai a vomitargli addosso tutta la mia rabbia,il mio dolore e la mia impotenza e poi chiusi con una minaccia esplicita,che se avesse ancora cercato mio figlio l’avrebbe pagata cara. ”Ti denuncio o ti

ammazzo,dipende”. Fui certo convincente perché ammutolì e io non gli diedi certo il tempo di replicare. Il peso della pistola nella mia borsetta era rassicurante, pistola regolarmente denunciata alla polizia, perché Aldo, il mio granitico marito, quando eravamo in villa voleva dormire tranquillo. Dopo una camminata veloce rallentai il passo.Si era fatto tardi e il mare rumoreggiava tra gli scogli. Respirai profondamente e il mare mi entrò dentro, con il suo senso della vita e della morte. Ritornai a casa a passi lenti, convinta che Giulio stesse ancora dormendo, invece era sveglio e mi aspettava. Chiese inaspettatamente: ”Lascerai papà?” Il mio sguardo si incupì di botto. Mi ritornò un moto di rabbia, perché con il “papà non dormivamo più insieme da parecchi anni, ormai. Eppure era il papà, quella famiglia esile e sgangherata era ancora il suo punto di forza. Mi sentii in prigione, non potevo uscire dalla mia galera perché mio figlio aveva bisogno ancora di quella esile certezza che era la mia prigione. Mi guardava con aria implorante e lo rividi in flash con suoi occhi azzurri, bellissimi e disperati che raccontarono storie di dolore e di solitudine. Quel bambino aveva bisogno di me. Di noi. A torto o a ragione. Gli diedi un bacio e mi allontanai in silenzio, mi chiusi in camera mia,dormivo ormai da sola da tempo e accesi il mio portatile, mi collegai, Ugo mi aspettava in sito.”quando ci rivedremo?”,insisteva,”Molla tutto e vieni via con me”.

Il cigolio della porta mi fece girare la testa e Sara era lì, che mi guardava. Guardai il nome con cui mi ero registrata nel sito,Claudia. Premetti ”cancella” e spensi il computer.”Andiamo a letto,Giulio,questa sera dormiremo insieme”. Mi sorrise e si accucciò tra le mie braccia.

Non mi chiesi se la mia scelta fosse giusta o sbagliata, ma di una cosa ero certa, che la mia libertà poteva attendere.

 


 

L’angelo di cristallo

Il profumo di zagara inebriava, mescolato a quello delle rose gialle selvatiche che si inerpicavano rigogliose e violente lungo l’arco che immetteva in giardino. Laura respirava con voluttà quei profumi di Sicilia che esplodevano all’inizio di un’assolata estate. Finalmente da sua nonna, finalmente lontana da casa. Finalmente.

Con passo selvaggio e sicuro si inoltrò nel giardino, Trionfo di rose e piante grasse…”Strana accoppiata”, pensò, ”tipica di mia nonna”. I suoi capelli ricci e ribelli ondeggiavano liberi alla brezza. Libera anche lei, libera dal sentire rampogne, libera dal vedere sua madre sempre arrabbiata e scontrosa, sempre alla ricerca di una impossibile felicità con uomini sbagliati, troppo alti, troppo bassi, troppo violenti, troppo tutto…I suoi sedici anni reclamavano affetto, attenzioni,complicità. Ma il mondo la respingeva e la solitudine era alleggerita soltanto dai profumi di quel giardino e dal sorriso silenzioso, garbato e presente di nonna.

Ormai aveva deciso, avrebbe lasciato la scuola. Peccato, frequentare la Scuola d’Arte le piaceva, ma avrebbe cercato un lavoro qualunque e avrebbe guadagnato i soldi necessari per andare via, via da tutto e da tutti. Unico rimpianto, quel giardino e il sorriso dolce di nonna Maria.

Come evocata dal suo pensiero la nonna la chiamò. ”Laura, ti devo parlare”. ”Guai in vista?” si chiese subito lei,dopo aver cercato di intuire,dal tono della voce,il tenore della futura conversazione. Ma nonna Maria esordì, calma e pacata come sempre,dicendo che le chiedeva una cortesia,di essere gentile con una ragazza ospite della sua amica e vicina Francesca Rivoli,una ragazza straniera di pochi anni più grande di lei;per per qualche giorno si sarebbe trattenuta a casa della sua amica.”Ci mancava anche questa,devo fare l’assistente sociale a qualche ragazza viziata in cerca di emozioni che viene in vacanza dall’amica della nonna!”Il pensiero la innervosì fortemente e, alzando gli occhi che aveva tenuto caparbiamente abbassati per dimostrare ,senza ombra di dubbio,il suo disappunto,intercettò il sorriso da Monna Lisa della sua imperturbabile nonna,che continuava,apparentemente,a potare le sue incredibili rose.

Linda, così si chiamava la ragazza, si presentò alla porta di casa il lunedì successivo. Era una ragazza filippina. Indossava un paio di jeans e un coloratissimo camicione verde smeraldo e i suoi capelli, lisci, lunghi, luminosi e neri, divisi in due ordinatissime bande da una scriminatura centrale, le ricadevano in parte sul viso, nascondendone l’espressione. Portava al collo, appeso a una sottile catenina d’argento, un piccolo angelo di cristallo iridescente e luminoso che catturava i riflessi del sole, mandando bagliori di luce. Rimase fulminata. Una filippina, l’ospite di Francesca Rivoli, una…badante! Si vergognò quasi subito di quel pensiero razzista e si sforzò di sorridere. Se la ragazza intuì il suo disagio non lo diede a vedere.

Si scambiarono un saluto timido e impacciato, quasi che entrambe sapessero bene di essere state costrette a quell’incontro non voluto.

Da lontano si sentiva la risacca del mare le cui onde, leggermente mosse dalla brezza, sprigionavano un intenso profumo di salsedine.

“Ti piace il mare?” chiese all’improvviso Laura, più per spezzare quell’assordante silenzio che per altro ”Si, molto” rispose Linda.

S’incamminarono verso la spiaggia, era ormai pomeriggio inoltrato, per fare due passi.

“Mi dispiace che sei stata costretta a questo… forzato incontro con me. Ma le nostre…nonne ci tenevano così tanto! Del resto mi fermerò solo qualche settimana: spero di andar via presto. Nel sentire quella strana frase Laura s’incuriosì e chiese di botto: ”Le nostre nonne?” Sicuramente la sua espressione aveva un che di ridicolo, perché Linda scoppiò in una fragorosa risata che la contagiò e si ritrovarono entrambe a ridere senza fermarsi. Crollarono sulla spiaggia ormai quasi deserta, mentre il sole tramontava tranquillo.

“Francesca mi ha adottata a distanza quindici anni fa, circa. Io vivo…vivevo in una piccola comunità gestita da suore, la mia preferita era suor Cristina; è stata la madre che non ho mai avuta”. Abbassò la testa nel parlare e i suoi capelli a sipario,assecondando le sue intenzioni, le nascosero il viso,ma poi,d’improvviso,rialzò la testa e guardò Laura negli occhi:e lei si accorse che erano grandi,profondi ,neri e tristi.”Io non ho mai conosciuto mia madre..”,disse.,”tante volte ho chiesto a Cristina,così la chiamavo, o “mamma”,quando mi scappava,le ho chiesto,ti dicevo,dei miei genitori,ma lei è sempre stata evasiva, finchè un giorno, esasperata dalla mia insistenza, mi disse che,a volte,è meglio non sapere,non conoscere la verità!”

“Tua madre sono io”, mi disse sorridendo,”ti amo come se lo fossi. C’è chi ha molto meno di te, credimi”. “Non mi sono mai rassegnata e forse, un giorno, quando avrò soldi e tempo…cercherò di scoprire chi sono i miei, se vivono ancora… per adesso mi sta bene così”. Dopo un breve silenzio riprese: “Non vuoi sapere di Francesca , come l’ho conosciuta? …Si presentò in comunità che avevo otto anni. Era in viaggio, non so con chi o cosa cercasse, ma subito s’innamorò di me. Si, s’innamorò, mi amò per la mia storia che sicuramente lei conosce e io no. Mi adottò a distanza. Dopo poche settimane che andò via,mi comunicarono che mi aveva adottata e da allora mi ha mantenuta,fatta istruire e adesso pagherà i miei studi dopo il diploma,Voglio fare l’infermiera,il mio corso comincia tra qualche settimana,a Catania.”Laura ascoltava in religioso silenzio,mentre si vergognava profondamente delle sue impennate,dei suoi pregiudizi, delle considerazioni e delle scelte che aveva maturato .Ad un tratto gli errori di sua madre le parvero meno tragici,forse anche lei era malata di solitudine. E la signora Francesca, che lei aveva sempre guardato quasi con sufficienza, come fosse una donnetta da poco, una matura signora sessantacinquenne senza storia, sempre con un libro in mano,da leggere con passione,le apparve sotto una luce nuova. Una donna con una storia.

Si chiese cosa avesse potuto spingerla a fare un viaggio così lungo, da sola, mentre ritornavano a casa in silenzio, ognuna avvolta nei propri pensieri. Cenarono insieme, la signora Francesca, Nonna Maria, linda e Laura. Non parlarono molto, ma il clima era sereno e familiare, il silenzio era complice.

Quei quindici giorni trascorsero in un baleno, tra passeggiate silenziose, ma piene di significati nascosti, di parole non dette ma condivise, come spesso tra ragazzi che non hanno perso ancora il senso della vita. Ma arrivò il giorno.

Quando si incontrarono Linda era particolarmente tesa e chiese di rimanere in giardino, piuttosto che fare la solita passeggiata al mare.

“Parto”,disse senza tanti preamboli,” è arrivata la comunicazione. Il mio corso inizia Lunedì”. Quel giorno, lunedì, stava diventando fatale nella vita di Laura…Lunedì, l’unica amica che aveva veramente amata, capita e stimata andava via…E lei? Come aveva potuto affezionarsi per rivivere un altro abbandono? Suo padre era andato via che lei era bambina. Scacciò come insetto molesto quel pensiero. La guardava, affascinata dalla forza che emanava Linda la guardava, muta.

“Non dici nulla?” chiese Linda, affranta quanto lei.

“Rimarrò sola, senza di te”, disse Laura, mentre torturava una ciocca dei suoi capelli ribelli, arrotolandola tra le dita affusolate. Ma ad un tratto, chissà perché, la sua vita le sembrò meno tremenda, avrebbe potuto continuare a studiare, prendere il diploma alla Scuola d’Arte, fare la restauratrice, come sognava da sempre, trasferirsi a Catania, magari, e ritrovare Linda…Avrà avuto la mente trasparente, perché lei avvicinò le mani al suo collo, sganciò la catenina col suo angelo di

cristallo e la riagganciò a quello di Laura.” mi ha portato fortuna”,disse,”sono sicura che il mio angelo custode aiuterà anche te. Ci rivedremo presto”. Il sole, basso all’orizzonte, catturava bagliori di luce dal piccolo angelo di cristallo.

Da lontano la signora Francesca osservava Linda, poi la sua mente volò via e ricordò, ricordò il suo Luigi, fotografo entusiasta del suo lavoro, che l’aggiornava sui suoi spostamenti, sul viaggio alle Filippine, sulla visita a quella piccola comunità dove aveva conosciuto Linda, la bellissima bambina dagli occhi grandi e tristi. Ricordò le sue precise parole: ”Sarebbe bello se fosse nostra figlia”. Poi, più nulla. Il suo viaggio era continuato per alcuni giorni, ma di lui si erano perse le tracce per sempre. Ritornò ad abbassare gli occhi sul libro. Le ragazze videro da lontano due anziane signore apparentemente occupate, una a leggere l’ennesimo libro, l’altra a potare rose selvatiche; ma, stranamente, sul viso di entrambe aleggiava il sorriso sibillino di Monna Lisa.

 


 

Strana signora

Ero a Roma. Da sola. Non so per quale strano scherzo del destino o per quale anomalia nella mia ordinatissima vita di ragazza mi ritrovai, con un “si” detto quasi per sfida, a vivere tre giorni nella città più anomala del mondo, dove riuscivo a respirare aria di casa.

Ero sola. Contrariamente al solito, sempre scortata da padre prima e da marito poi, giravo per la città come un topolino in un percorso precostituito: prendere la metropolitana a Piazza della Repubblica, fermarsi alla terza fermata … Provavo un senso di libertà incredibile, mentre camminavo col passo certo e deciso di chi conquista nuove certezze. Razionalizzare quella visita a Roma era stata una grande sfida… L’avevo accettata emotivamente e “di testa”, sperando che nessun cataclisma si abbattesse su di me.

Ma i1 cataclisma, puntualmente, arrivò. Black- out. Il black-out arrivò all’improvviso mentre ero in metropolitana.

Era sera ed io dovevo ritornare in albergo; lo scomparto non era particolarmente affollato, all’inizio, ma ben presto diventò pieno fino a scoppiare e cominciai ad avvertire un senso di angoscia che cominciò a lievitare sempre di più, che divenne marea travolgente che bloccava ogni possibile capacità di razionalizzare e gestire tutta quella umanità accaldata, sudata,stanca, indifferente e ambigua che mi premeva contro ad ogni accelerazione. Finalmente la metropolitana si arrestò, ancora due fermate e sarei stata in albergo, al sicuro, avrei fatto un bagno caldo, mi sarei messa comoda e finalmente sarei stata al sicuro.

Uscì un fiotto di gente che svuotò lo scompartimento quasi improvvisamente… Respirai, sollevata. Mi sedetti e alzai gli occhi. L’uomo poteva avere circa quarant’anni, era stempiato, ingrugnito e aveva un ributtante sguardo porcino. Cominciò a scrutarmi sfacciatamente, con insistenza cominciò a fissare l’anello di ametista che troneggiava al mio anulare destro. Cominciai a sudare leggermente, mentre una vampata di calore mi coloriva le guance già accaldate dalla temperatura dello scompartimento. Accorgendosi subito del mio imbarazzo, accentuò la sua aria strafottente che mi mise subito a disagio; cominciò a fissarmi con l’aria di chi sa offendere con lo sguardo insinuante e lascivo.

Mi agitai sul sedile, a disagio. Ancora una fermata e sarei scesa. Lentamente la metropolitana cominciò a svuotarsi; proporzionalmente la mia angoscia cominciò a crescere.

Alzai lo sguardo oltre la faccia ributtante di quell’uomo.

Fu allora che la vidi. Stava seduta, con aria assorta, sulla panchina di fronte al metrò. Era vera? Forse no. Era una donna inquietante e senza tempo. Indossava un lungo abito di macramè beige, leggermente svasato ai fianchi, i capelli, compostamente acconciati come vivesse in pieno ottocento, incorniciavano un viso gradevole e sereno, decisamente d’altri tempi, tamburellava aritmicamente con l’indice della mano destra e con aria assorta su un bastone da passeggio. La guardai rapita. Aveva quell’aria vagamente trasognata di chi vive al di fuori dalla realtà… felicemente. Alzò lo sguardo ed i nostri occhi si incrociarono. Lesse nei miei il panico che lentamente si stava impossessando di me.. Mi sorrise. I1 suo era un sorriso che partiva dall’anima, che modellava gli angoli della bocca e poi illuminava lo sguardo di una luce dolce e ferma, come a dire: Sei forte, sei forte, coraggio. Afferra la vita per la gola, afferrala e stringi forte, se la vita tende a soffocarti, a distruggerti. Combatti, che la vita è eterna battaglia, si vince e si perde e quando si perde ricorda di stringere i denti ed andare avanti, perché nessuno, mia cara, può rubarti 1’anima.

Alzai gli occhi su quell’essere viscido che mi stava davanti, cominciai ad osservarlo lentamente. Aveva il labbro camuso e gli occhi porcini, i capelli rossastri, ispidi e tesi che sbucavano da una testa anomala, leggermente deforme.

Era decisamente brutto… Cominciò a lievitare dentro di me un sorriso leggero e quasi cristallino, un sorriso che si trasformò in aperta risata, in risata scrosciante, irriverente, aperta ed irridente.

Egli mi guardò prima meravigliato, poi confuso… qualunque movimento azzardato della sua persona si bloccò… Entrò una donna di mezza età e si venne a sedere di fronte a me, accanto al mostro; questi si alzò, mi fissò, scese precipitosamente. Guardai di nuovo fuori dal finestrino per rivedere la mia signora: era scomparsa.

Stranamente, non c’era più neanche la panchina su cui, qualche attimo prima, stava seduta.

Certamente, pensai, la tensione mi ha giocato un brutto scherzo, mi ha fatto immaginare cose che non ci sono, ha proiettato fuori di me ciò che avrei voluto vedere, ma che, in effetti, non esiste. Eppure, a pensarci bene, io quella donna l’avevo proprio vista, ne avevo quasi sentito il profumo, profumo di lavanda.

Scesi dalla metropolitana, pensierosa, ed ecco, da lontano, un fruscio, un svolazzare discreto di gonna alla caviglia, un sorriso che scompare dietro l’angolo… Mi diressi in albergo, decisa a dimenticare quello strano incidente che, secondo me, era solo frutto di forte suggestione da stress.

L’albergo che avevo prenotato era nel cuore di Roma; come sempre, la mia passione per le antiche dimore mi aveva condotta a scegliere un piccolo albergo ricavato in un vecchio palazzo baronale che richiamava casa mia. Certamente era molto meno comodo di un albergo moderno, tuttavia era centrale e non troppo esoso: faceva al caso mio.

Salii in fretta le scale ricoperte da un tappeto rosso, leggermente liso, che sicuramente aveva conosciuto tempi migliori. Non vedevo l’ora di arrivare in camera, fare una doccia che mi avrebbe riportata tra i viventi e cambiarmi. Mi accorsi, ad un tratto, che avevo fame.

Scesi le scale, seguendo con gli occhi le volute della ringhiera in ghisa, di colore brunito.

La proprietaria era un’affabile signora di circa cinquant’anni, dall’aspetto gradevole ma austero, che certamente era stata una bella donna.

Portava i capelli corti, di un garbato castano scuro e degli occhiali anonimi, non troppo spessi. Tuttavia i miei occhi furono subito attratti da un imponente anello che portava all’anulare destro. Era d’argento, finemente cesellato e sulla monumentale montatura troneggiava un cuore di corallo rosso. Impossibile non notarlo… Sapeva di chiesa e di alcova, sapeva di misteri nascosti nella notte.

Notò subito il mio interesse per quello strano anello che portava al dito e cominciammo a conversare gradevolmente, come se fossimo due amiche di lunga data, con una complicità nata dal gusto per le stesse cose.

Gli ospiti dell’albergo eravamo pochi e l’atmosfera era serena e rilassante. Si allontanò per salutare una coppia che, intuii, doveva essere di casa.

Fu allora che alzai gli occhi e lo vidi. Il quadro troneggiava su un antico comò, seminascosto da una spessa tenda blu a ricami cremisi, situato nella stanza accanto. Il boccone mi andò quasi di traverso.

La cornice, dorata e imponente, racchiudeva il quadro della mia “Signora”. Stesso vestito, stessa espressione, resa con la tecnica dello sguardo che segue, stesso sorriso allusivo, evanescente eppure forte.

Mi alzai ipnotizzata e mi avvicinai a quella donna, rassicurata di non avere le allucinazioni e turbata, anzi sconvolta dalle nuove e tutte improbabili ipotesi che si affacciarono alla mia mente.

Certo rimasi imbambolata davanti a quel quadro per parecchio tempo, perché, ad un certo punto, sentii una voce dietro le spalle che disse: ”Non si è ancora stancata di guardare La mia prozia Matilde?”

Mi girai a guardare, mentre la proprietaria dell’albergo mi osservava con un sorriso sibillino dipinto sulle labbra.

“Era proprio bella”,continuò, ”bella, coraggiosa e ribelle, nonostante il suo aspetto quasi irreale. E’ morta nei primi del novecento, in età avanzata, aveva circa settantadue anni.

Continuammo a chiacchierare per un po’. Una strana curiosità mi spingeva a chiedere più notizie della prozia Matilde Rinaldi di Montevecchio e cercavo con malcelata tensione di ottenere quante più informazioni possibili.

La signora Emilia, così si chiamava la proprietaria dell’albergo,intuì senza grande sforzo il mio nervosismo e raccontò….

“Ha vissuto esperienze terribili”, disse,” esperienze tragiche. Tuttavia non si è mai scoraggiata, sa, non si è mai piegata”.

Rivolsi di nuovo lo sguardo verso il quadro e osservai ancora gli occhi della mia signora, occhi chiari, limpidi e cristallini, occhi che infondevano forza e fiducia, occhi che accarezzavano, che esorcizzavano la solitudine e l’indifferenza. Eppure….

Il silenzio della mia ospite mi permise di riflettere per qualche attimo e di chiedermi quali “tragiche esperienze” avesse vissuto quella donna.

Come a seguire il filo logico dei miei pensieri, Emilia continuò: ”Vorrei potergliene parlare, sa, ma credo che certe porte debbano essere mantenute chiuse,la puzza dei cadaveri ammorba. Le dico semplicemente che per tre anni,dopo la sua terribile esperienza,si rifiutò di parlare,sembrava chiusa in un dolore distruttivo e incontenibile.

Poi tornò a vivere.

Mentre parlava mi guardava affettuosamente, percependo la mia pietà e il coinvolgimento totale della mia persona;io mi sentivo torcere le viscere…Sprazzi di assurde violenze familiari esplodevano come lampi sinistri nella mia mente. Cosa, cosa poteva aver vissuto di così tremendo e irripetibile e come ne era uscita fuori così, rinata dalle sue stesse ceneri?

Forse si, era meglio non sapere. Lo pensai, ma senza molta convinzione. Il silenzio che scese tra noi non ci imbarazzava, ma, ad un certo punto, mi scosse leggermente toccando il mio braccio con una mano. Fu a quel punto che il mio sguardo scivolò nuovamente sull’anello che portava al dito.

“Le piace così tanto?” mi chiese,”noto che non può fare a meno di guardarlo”. Lo sfilò delicatamente e me lo porse.

“Tenga”, mi disse, ”lo prenda pure. Non si preoccupi, il suo valore è più simbolico che reale e nessuno dei miei lontani parenti lo reclamerà. Si tufferanno su altro”.

Lo disse con aria lieve lieve, come se le brutture del mondo non riuscissero, ormai,a scuoterla più di tanto. Infilai l’anello. Mi stava perfettamente.

Lo accarezzavo, sull’aereo, seguendo la superficie liscia di quel cuore di corallo rosso;mi comunicava un senso di grande sicurezza e anche il rombo compatto e attutito dell’aereo mi sembrò rassicurante.

Angela Riviera