Annalisa Farinello - Racconti

Doppio inganno

Venerdì 10 Novembre ore 22

«Ti accompagno all’aeroporto?»
«No, preferisco saperti a casa, con queste gelate notturne mi sentirei in colpa se ti succedesse qualcosa. Ti amo piccola, lo sai!»
Afra restò a guardare la macchina che si allontanava pensando a come sarebbe stato diverso se Aldo, suo marito, avesse accettato di lavorare in banca come suo cognato.
La luna piena creava suggestive immagini tra i rami degli alberi, sui tetti delle case e Afra, appassionata di fotografia si disse:
«Al diavolo il freddo, voglio fotografare questo incredibile spettacolo.»
Clik, clik, non si fermava più, non sentiva il freddo e continuò fino a quando le mani furono così gelate da impedirle di premere lo scatto.
Infreddolita ma curiosa di vedere le immagini, mentre le faceva scorrere sul piccolo video, una foto accentuava alcuni dettagli che non aveva notato, e nemmeno avrebbe pensato di fotografare.
Una persona, rannicchiata all’angolo della siepe di cinta della villetta in fondo alla via.
Era stata due anni prima al centro di numerose indagini, quella casa e la vita dei coniugi De Santis, dopo che il marito Antonio non era rientrato dal lavoro. Scomparso nel nulla e da allora nessuna notizia.
Promotore finanziario in una banca, la fuga all’estero per truffa, prima ipotesi avanzata, era stata scartata; nessun ammanco era stato rilevato.
La moglie Emma, all’oscuro delle intenzioni del marito, non si dava ancora pace e non seppe fornire allora alcuna spiegazione.
In ufficio lo avevano descritto come un collega capace, molto impegnato nel lavoro ed estremamente riservato. Qualcuno disse che ultimamente tendeva a isolarsi più del solito, a qualcun’altro era sembrato depresso.
Ipotesi di suicidio?
Non si era mai ritrovato il corpo.

Sabato 11 Novembre ore 7.30
Afra aveva promesso a sua sorella Daniela di accompagnarla con i tre figli a Venezia.
La festa di S. Martino e un’antica usanza dove i bambini girano per le calli con pentoloni e campanacci cantando S.Martino campanaro, ricevendo caramelle e dolciumi e i famosi biscotti a forma di cavaliere.
Appena sveglia guardò fuori dalla finestra e telefonò subito alla sorella.
«Altro che estate di S. Martino, quest’anno c’è una gelata incredibile, sembra sia caduta la neve, ma dobbiamo proprio andare?»
«Non puoi tirarti indietro l’hai promesso ai bambini.»
Sospiro… «Va bene, mi imbacucco e parto.»
Il treno arrivò in orario e trovarono posto in uno scompartimento quasi vuoto. «Quando torna Aldo?» Chiese Daniela.
«Domani pomeriggio e se andrà a buon fine l’affare che sta trattando, cara la mia sorellina, ci scappa la vasca da idromassaggio e la pompeiana in legno.
Ho piantato un glicine vicino al garage, ora è piccolino, è perfetto per educare i suoi giovani rami e ricoprire la pompeiana.
Sarà bellissimo! Grappoli azzuro-viola profumatissimi in primavera e d’estate all’ombra delle sue grandi foglie, rilassarsi e leggere un libro, cenette romantiche al lume di candela…alla citronella, non mi scordo delle zanzare ! »
Arrivati a Venezia, i bambini felici si unirono a gruppi di ragazzini, maschi e femmine senza nessun timore, come se si conoscessero da sempre.
Uniti nell’euforia dello stare insieme, liberi di far baccano senza che gli adulti potessero protestare, più il fracasso diventava infernale, più grande era il loro divertimento.
Finalmente arrivò il momento della sosta prevista alla pasticceria da Rizzardini a due passi da Campo San Polo, famosa per i biscotti di S. Martino.
«Un peccato mangiarli» commentò Afra «si potrebbero incorniciare, sembrano più un mosaico che un dolce.»
Al ritorno, Afra guardava dal finestrino la stazione di S.Lucia allontanarsi lentamente, quando una figura familiare entrò nel suo campo visivo: Emma , anche lei a Venezia per S. Martino, pensò

Domenica 12 Novembre ore 10.00

Aldo telefonò, avvisando che sarebbe rientrato nel pomeriggio di lunedì, la perizia del residence richiedeva più tempo del previsto.
Afra, delusa, decise di sistemare lo schedario clienti del marito per occupare il tempo. Niente di interessante, solo nomi e cifre, molte di quelle pratiche erano solo proposte e la stupì una procura a vendere per la casa dei De Dantis, firmata da Emma, di cui Aldo non le aveva detto nulla.
Decise di far visita a Emma e di mostrarle la foto scattata la sera prima, e forse sapere qualcosa sugli accordi per la vendida della casa di cui Aldo l’aveva tenuta all’oscuro.
Quando Emma le aprì notò com’era bella anche nella semplice tuta azzurra, vestiva con classe anche le cose più semplici e per la prima volta Afra sentì una punta di invidia.
«Ciao Afra, entra, lo bevi un caffè? Accomodati, stavo sistemando alcune cose, torno subito» disse mentre si chiudeva la porta della cucina alle spalle.
«Non farti problemi, mi piace bere il caffè in cucina, è più intimo, meno formale.» «Oggi è domenica, niente caffè in cucina, aspettami qui, arrivo tra poco» rispose Sul tavolo un vassoio, “Pasticceria Risa Salva – Venezia” e dentro i biscotti di S. Martino. Era lei a Venezia, pensò Afra, ho visto bene!
Emma rientrò con il caffè e subito le chiese il motivo della visita.
«Una cosa curiosa, guarda cosa ho fotografato per caso ieri sera, una persona si stava nascondendo a ridosso della tua siepe.»
Emma guardo di sfuggita la foto e rispose: «Sicuramente qualche balordo.»
Le girò le spalle e aggiunse: «Mi sono ricordata solo ora di avere un appuntamento in città, ti va se ci vediamo domani? Prenditi quei biscotti sul tavolo, prendili ti prego, sono un regalo di una collega, non sto molto bene di stomaco ed è un peccato lasciarli invecchiare!» L’improvviso cambiamento sorprese Afra.
«Non fa niente Emma, grazie per i biscotti ma ne ho anch’io, ieri sono andata a Venezia con mia sorella e i miei nipoti.
Avrei giurato che a Venezia c’eri anche tu, ero convintissima di averti vista alla stazione di S. Lucia.»
«Non mi sono mossa da casa, avevo mal di gola e con la giornataccia di ieri… chissà se avrò mai l’occasione di andarci io a Venezia!»
Emma sembra molto seccata, ma che ho detto di così terribile si chiese Afra. Sta nascondendo qualcosa, ma cosa?

«Non ti faccio perdere altro tempo Emma, buona giornata e grazie per il caffè.» A casa, Afra accostò le tende dello studio per vedere se veramente Emma sarebbe uscita. Nessuna macchina passava, era stata una scusa, una scusa, perché?
Il suono del telefono la fece sobbalzare: era sua sorella.
«Ciao Afra, perchè non vieni a pranzo da noi?» Forse l’invito di Daniela era quello che le serviva, i bambini l’avrebbero distratta: giocava sempre volentieri con loro.
Erano le sei del pomeriggio quando rientrò e, lasciata la macchina in garage, decise di fare due passi. Si incamminò senza fretta, divertendosi ad osservare gli sbuffi bianchi del fiato caldo, simili a un fumetto privo di parole, spandersi nell’aria fredda. Poi l’improvviso odore di bruciato, accelerò il passo mentre l’odore diventava sempre più forte.
«Mio Dio, c’è un incendio lì dentro!» E si precipitò al cancello della villetta, la sua mano si incollò al campanello. Lo squillo era forte e fastidioso ma il cancello rimase chiuso. Non c’era nessuno per la strada, non aveva il telefonino con sé e così si mise a gridare con quanto fiato aveva in gola.
«Aiuto! Aiuto, al fuoco! Al fuoco!» Per la miseria, dov’erano gli abitanti della via? Minuti di terrore, poi finalmente Giacomo, il suo dirimpettaio aprì la porta.
«Signora Afra, che succede?»
«Chiami i pompieri Giacomo, chiami i pompieri! Sta andando a fuoco la casa dei De Santis, presto, presto chiami i pompieri!»
«La signora Emma non li ha già chiamati?»
«No, non c’è nessuno in casa, ho suonato il campanello come una disperata, non è in casa!» Giacomo urlò alla moglie:
«Teresa! Teresa chiama i pompieri, io vado a vedere cosa sta succedendo e se si può fare qualcosa!»
«Siamo sicuri che la signora Emma non ci sia?»
«Ho suonato ininterrottamente per quasi un minuto il campanello e non ha risposto nessuno. Le luci poi sono tutte spente, solo quelle del giardino sono accese.»
«E se si fosse sentita male e fosse intrappolata all’interno?»
«Mio Dio sarebbe orribile, come facciamo ad esserne certi?»
«In giardino ci deve essere il tubo di gomma per innaffiare, ricordo di averlo visto nel ricovero attrezzi, vada a prenderla Giacomo, l’attacco dell’acqua deve essere lì vicino.»
Afra era esausta, nonostante l’aria gelida grosse gocce di sudore le scendevano dalla fronte e miste all’acre del fumo le bruciavano terribilmente gli occhi, mentre Giacomo cercava il spegnere le fiamme.
Azione disperata, perché il getto quasi nulla poteva contro la furia del fuoco.
Uno sconforto indescrivibile per i due, cos’altro potevano fare?

«Dio ti ringrazio» disse Afra sentendo arrivare le autopompe dei pompieri.
Al suono delle sirene, come per incanto la strada, fino ad allora deserta, si animò. Non solo gli abitanti della via accorsero, ma anche gli avventori del bar da Edy della piazzetta vicina.
Per la miseria, dov’erano stati fino a quel momento?
Il dubbio che all’interno ci fosse la proprietaria venne fugato dall’arrivo di Emma. Prima incredula, poi disperata la donna girava a vuoto per la strada passandosi le mani tra i capelli:
«Perché proprio a me, non avevo lasciato niente di acceso, sono certa. Non ero già stata abbastanza sfortunata?»
Ci sarebbero volute parecchie ore per domare l’incendio e restare a guardare il dramma che si stava consumando senza poter far nulla, avrebbe sicuramente aumento l’angoscia della povera Emma e Afra si offrì di ospitarla.
Giunte a casa, Afra tentò inutilmente di mettersi in contatto con Aldo per riferirgli l’accaduto. Il telefono dell’utente può essere spento o non raggiungibile, ripeteva la voce registrata dell’operatore. Non fu possibile lasciare nemmeno un messaggio. Una doccia calda per lavare lo sporco e la tensione, poi una tazza di latte caldo per entrambe, e si sedettero l’una di fronte all’altra.
L’incontro del mattino era lontano anni luce; Emma era molto diversa dalla donna di classe che aveva invidiato poche ore prima, ora indossava una tuta di Afra.
Il colore grigio era un tutt’uno con il pallore del viso, un alone scuro sotto agli occhi ne accentuava la maschera di dolore. Afra non osava parlare, fare domande, rispettava il silenzio in cui Emma si era rifugiata.
«Potrai dormire nella stanza degli ospiti, il bagno è piccolino ma confortevole. La tua macchina può restare nel mio garage.»
Emma si ritirò nella cameretta degli ospiti e Afra, nella sua, si sentì terribilmente sola. Si sdraiò sul letto cercando di rilassarsi ma il suono del campanello la fece sussultare. Era un carabiniere che voleva avvisare Emma di presentarsi l’indomani in Caserma.
«Emma, non abbiamo mangiato niente, forse per questo non riusciamo a dormire. Potremmo prendere una cioccolata calda e dei biscotti, dicono che il cioccolato concili il sonno, e poi lo stomaco vuoto alimenta i cattivi pensieri. Fatti forza, ti prego, poi andremo a dormire. Domani sarà una lunga giornata.»
Aprì la dispensa, i biscotti di S. Martino erano lì, colorati e invitanti ma avevano assunto una valenza negativa per lei, un sospiro e scacciò le domande che avrebbe voluto fare ad Emma.
«I savoiardi si sposano bene con la cioccolata» disse mentre la versava fumante nelle tazze.

Lunedì 13 Novembre ore 8.00

Afra si offrì di accompagnare Emma in caserma.
«Grazie, non posso rifiutare la tua disponibilità, sei stata molto buona ad ospitarmi, non avrei saputo dove andare. Indosso i tuoi abiti anche stamani, grazie ancora.»
In caserma, Afra, seduta in corridoio, seguiva il colloquio pur non avendone intenzione, le pareti sottili non permettevano il rispetto della privaci.
«A che ora è uscita ieri pomeriggio e dove si è recata, signora De Santis?»
«Sono uscita intorno alle quattro per una visita al Santuario della Madonna di Monte Berico alla quale sono molto devota.
Non so dirle quanto tempo sono rimasta a pregare, in raccoglimento.
Quando sono arrivata nei pressi della via dove abito, ho visto del fumo e poi molta gente, non riuscivo a capire cosa stava succedendo… poi la scena terribile della mia casa che stava bruciando… i vigili del fuoco, i carabinieri… mi sembrava tutto irreale, un incubo, mi sono sentita morire.
Guardavo le fiamme come instupidita… era la mia casa che stava bruciando… Senza niente se non i vestiti che indossavo, pochi spiccioli nel portafoglio… mi sta ospitando la mia vicina, non avrei saputo dove andare.
Non ho avuto il coraggio di passare davanti a quello che resta della mia casa questa mattina…»
«Chi oltre a lei aveva le chiavi dell’abitazione?»
«Nessuno comandante, solo io, e l’unica copia la tengo sempre con me, qui nella borsetta.»
«È sicura signora De Santis? Me le fa vedere per cortesia?»
«Certo che ne sono sicura.»
Così dicendo Emma si mise a frugare nella borsa, poi in tutte le tasche, alla fine rovesciò il contenuto sulla scrivania e ricominciò la ricerca, in preda all’ansia.
«Signora De Santis, mi sembra che le chiavi non ci siano, è inutile che continui. Ora cerchi di ricordare a chi le ha date o dove possono essere.
Le chiedo questo perché l’incendio sembra essere doloso, nessun segno di effrazione è emerso fino ad ora.
Nei casi di possibile incendio doloso la domanda è d’obbligo: signora De Santis, la sua casa era assicurata contro gli incendi?»
«Ero assicurata per furto e incendio ma non ho rinnovato la polizza. Avevo intenzione di venderla, sono l’unica intestataria.»
«Chi aveva interesse a nuocerle, le viene in mente qualcuno che possa avere del rancore nei suoi confronti?» Continuò il Maresciallo.

«Ho solo rapporti superficiali qui a Vicenza, voglio ritornare dove risiede la mia famiglia d’origine. Il dolore per la scomparsa di mio marito e ora questo…»
«Mi lasci il suo recapito telefonico, la chiamerò quando avremo nuovi elementi. Non dimentichi di avvisarmi quando troverà le chiavi, o quando ricorderà chi poteva averle; è importante che resti a disposizione.»
Il Maresciallo fece leggere e firmare a Emma il verbale, gliene consegnò una copia, poi l’accompagnò all’uscita.
Afra era già in piedi, ansiosa di andarsene, salutarono il Maresciallo e raggiunsero in fretta il parcheggio.
«Grazie Afra, grazie della pazienza, tu sei fortunata, non hai cartellini da timbrare e se vuoi qualche giorno tutto per te non devi chiedere il permesso a nessun direttore.
Anche in queste situazioni io devo passare dall’ufficio e non puoi immaginare le domande che mi faranno.»
Afra non rispose. Che ne sapeva delle difficoltà e dei tempi stretti che molte traduzioni richiedevano quando le ditte per cui lavorava le mandavano all’ultimo momento preventivi da tradurre?
Come dipendente inoltre aveva lo stipendio fisso a fine mese, mentre lei si doveva accontentare di acconti e saldi portati avanti all’infinito…
«Arriva oggi tuo marito? Sono ansiosa di parlare con lui, di chiedergli consiglio. Non so proprio cosa fare dopo quello che mi è successo.»
Afra non aveva nessuna voglia di parlare e tanto meno di ascoltare, le parole di Emma l’avevano infastidita, erano un brusio fastidioso al quale voleva sottrarsi al più presto.
Dopo che Emma uscì per recarsi in ufficio a Vicenza per la richiesta del permesso di assentarsi e poi di ferie, finalmente sola, ad occhi chiusi, con le ginocchia strette tra le braccia, Afra scivolò in un sonno senza sogni, la stanchezza non solo fisica ebbe il sopravvento.
La svegliò un bacio sulla fronte, Aldo era tornato.
«Sei già arrivato! Sono successe cose terribili durante la tua assenza. Ti ho cercato inutilmente, non eri raggiungibile.»
«Ho letto la notizia sul giornale stamani. È terribe, terribile. Raccontami cosa è successo.
Il mio viaggio è stato inutile, si è concluso con un niente di fatto.»
Afra lo mise al corrente dell’accaduto e dell’ipotesi che si trattasse di un incendio doloso.
«Scusa Aldo, sono stanchissima, cercherò di dormire ancora un po’, quando arriva Emma chiamami.»

Restò così, con gli occhi chiusi, ben lontana dal sonno che aveva sperato, mentre arrivavano pensieri e immagini che si rincorrevano confusi nella sua mente, non sentì il campanello ma la voce di Aldo che salutava Emma.
Si alzò e li raggiunse in cucina, Emma l’abbraccio con sua somma sorpresa e rivolta ad Aldo disse:
«Afra è stata impagabile, quello che ha fatto e sta facendo per me non è da tutti, non so come potrò ricambiare, e ho bisogno anche del tuo aiuto Aldo.
Che possibilità posso avere per realizzare qualcosa?»
«Santo cielo, mi dispiace tantissimo Emma, la situazione è veramente complicata. Bisognerà aspettare la fine delle indagini.
Sei stata fortunata a non essere in casa, ho sentito alla radio che si sospetta sia stato doloso.»
«Ancora nessuna notizia, non doloso, opera di un piromane è l’ipotesi più probabile, purtroppo i piromani esistono non solo nei film, nulla può rimediare al danno non solo materiale che mi ha fatto; i ricordi… c’era gran parte la mia vita lì dentro. Chi o che cosa sia stato, il nome del responsabile che importanza può avere?»
Afra replicò: «Chiunque sia il responsabile vorrei guardarlo negli occhi e incenerirlo con il mio disprezzo.»
Martedì 14 Novembre ore 16.00

«Mio Dio, mio Dio! Mi sta dicendo, Maresciallo, che c’era una persona, un intruso dentro casa…» La voce di Emma tremava.
«Il piromane certamente, stava portando a termine l’opera nella taverna, il liquido infiammabile si deve essere rovesciato e le fiamme lo hanno avvolto in un attimo. Il crollo del soffitto del piano superiore ha sepolto il corpo, per questo è stato ritrovato solo stamani. La sua identità è un mistero, è completamente carbonizzato, difficilissima l’identificazione, non sappiamo se sarà possibile ricavarne il DNA. Abbiamo la conferma che ha usato le chiavi per entrare, erano accanto al corpo, la particolare lega con cui sono fatte le ha preservate dal fuoco; sono quelle dell’ingresso principale, della porta blindata.»
«Non ho più ritrovato la copia che sempre tenevo con me; devo averla smarrita ma non saprei quando e nemmeno dove. Ho sempre usato le mie di chiavi ed ero così sicura che le altre fossero ella mia borsetta che non ho mai controllato; non ne avevo motivo.»
«Essendoci stata una vittima ci vorrà molto più tempo del previsto per chiudere le indagini. Avremo ancora bisogno della sua testimonianza, e di qualsiasi cosa dovesse ricordare.»
«Sono sconvolta, mi creda, pensavo che aver perso tutto fosse la cosa peggiore, ma mi sbagliavo!»
«Le farò sapere se ci saranno sviluppi, è sempre ospite dei suoi vicini?»
«Sì, per il momento, ma dovrò trovarmi un’altra sistemazione, non posso approfittare della loro cortesia. Come lei mi ha detto, ci vorrà del tempo. Vorrei andare dai miei genitori per qualche giorno, li ho sentiti al telefono e sono molto preoccupati per me.»
«Quando conta di partire e quanto si fermerà da loro?»
«Partirei tra un paio di giorni e tra una settimana sarei di ritorno.»
«Vada pure, lasci però il recapito perchè dovrà essere sempre reperibile.»
«Grazie maresciallo, ho bisogno della mia famiglia in questo momento.»
Aldo e Afra furono scioccati nell’apprendere la notizia, chi poteva immaginare una cosa così terribile? Non vollero chiedere di più a Emma, anche lei era sconvolta mentre li metteva al corrente del ritrovamento del corpo carbonizzato.
«Rilassati mentre preparo la cena, non hai colpa, sei una vittima anche tu.»
Le disse Afra.
«Grazie, sono talmente confusa. Non so se riuscirò a mangiare, ho lo stomaco contratto anche se sono digiuna da ieri sera e mi gira la testa, devo essere in ipoglicemia. Hai un sonnifero Afra? Vorrei coricarmi presto e sperare in un sonno senza sogni. Partirò per la Spezia domani pomeriggio, mi tratterrò qualche giorno dai miei e al ritorno troverò una sistemazione in albergo, non posso abusare della vostra ospitalità.»
«Come preferisci, ti assicuro che per noi non c’è nessun problema se deciderai di fermarti da noi.» Aggiunse Aldo e Afra annuì per confermare la disponibilità di entrambi. Durante la cena parlarono di cose banali, del freddo che stava attanagliando tutto il nord-est, della bagarre politica, della crisi internazionale, di tutto quello che esulava dall’accaduto in via delle Vigne. Non fu sufficiente per alleggerire la tensione che come una cappa pesava sui tre commensali.
Emma mangiò pochissimo e chiedendo scusa si coricò subito dopo. Anche Aldo e Afra si coricarono dopo aver cercato di interessarsi a un programma televisivo che di interessante aveva solo il titolo. Mentre Aldo dormiva tranquillo, Afra, immobile per non svegliarlo, riviveva gli eventi di quei giorni, il suo giudizio su Emma e le emozioni così diverse che le aveva suscitato.
Dalla rabbia che le avesse mentito sulla sua presenza a Venezia alla compassione per quanto era poi successo. Si sentiva in colpa per aver giudicato Emma così severamente e per aver attribuito a una insignificante bugia quasi il valore di un complotto. Il cigolio del cancello la distolse dai suoi pensieri: era già successo altre volte di aver sentito lo scatto della serratura senza verificare che si fosse effettivamente chiuso.
«Accidenti devo uscire per chiuderlo, con questo freddo!» Si alzò si infilò il cappotto sopra il pigiama e con sorpresa vide era Emma che stava accostando il cancelletto. Nemmeno lei riesce a dormire e ora ha trovato il coraggio di andare a vedere quello che resta della sua casa, pensò. E decise di seguirla, poteva aver bisogno di essere confortata. Emma non si fermò nemmeno un attimo davanti alla casa bruciata, passò sotto alle transenne e si diresse sicura verso il ricovero attrezzi in fondo al giardino. Che vuole fare, cosa mai cercherà? Fu la domanda che le sorse spontanea. Incuriosita, spiò dalla finestra del piccolo locale.
Alla luce della torcia elettrica Emma, con una chiave inglese sbullonava un cassone fissato al pavimento e apparve una botola, prima nascosta dal mobile. Conteneva una valigetta, decisamente pesante, dedusse Afra dallo sforzo che costò ad Emma nel toglierla dal nascondiglio. È una sua proprietà e ha diritto di riprenderla, ma perché di notte e in modo così furtivo? Afra non sapeva spiegarselo, chiederlo a Emma e confessare che l’aveva seguita?
Avrebbe raccontato ad Aldo quanto aveva visto l’indomani mattina. Intirizzita dal freddo si affretto a rientrare accostando il cancelletto di casa come Emma lo aveva lasciato. Si addormentò tardissimo e al mattino quando si svegliò Aldo era già uscito per andare in agenzia e le aveva lasciato un biglietto sul tavolo in cucina.
Buon giorno amore, dormivi così bene che non ho avuto il coraggio di svegliarti. Emma è uscita con me, deve fare alcune compere, tornerà in tram, mi è sembrata più serena di ieri sera. Torno per pranzo. Aldo.

Prima ancora di prepararsi il caffè, Afra entrò nella stanza degli ospiti, era curiosa di vedere il contenuto della valigetta recuperata la notte prima da Emma ma non c’era nessuna valigetta nella stanza. Dov’era allora?
Un attimo di esitazione… nella macchina ancora nel garage, ecco dove poteva essere; ma le chiavi dove potevano essere? Era in preda a un’emozione intensa, percepiva qualcosa di oscuro, di pericoloso che la fece continuare nella ricerca nonostante si sentisse come una ladra nel frugare tra le cose non sue.
Trovò le chiavi nella tasca della tuta che aveva prestato a Emma. La valigetta era lì, nel portabagagli della macchina, la chiusura per fortuna non era a combinazione e la chiave era appesa con una cinghietta di cuoio al manico. Un lungo attimo di esitazione e poi l’aprì.
«Accidenti, ma questi sono lingotti d’oro!» Esclamò stupita e impaurita dalla scoperta. Calma, calma, si disse, ci sarà una spiegazione. Ma il cuore non sentiva ragione, sembrava essersi trasferito dal petto in gola, era agitatissima.
«Una sigaretta, dove accidenti ho messo le sigarette, quelle rimaste nel pacchetto dopo che ho smesso di fumare, ci devono essere» parlava da sola a voce alta mentre rientrava in casa e frugava nei cassetti senza un preciso ordine.
Alla fine trovò il pacchetto e ne accese una, il sapore del fumo era disgustoso, il tabacco sapeva di rancido, o era il sapore della paura che le riempiva la bocca?
Un senso di vuoto allo stomaco, come quando si scende in velocità dalle montagne russe, la costrinse a sedersi.
Odiava le montagne russe e ora quella spiacevole sensazione era lì, era dentro di lei. Almeno ci fosse stato suo marito, lui avrebbe saputo cosa fare ma non poteva certo dirgli della scoperta per telefono e attendere fino all’ora di pranzo le sembrava insopportabile.
«Non ne posso più, ora telefono ad Aldo e gli dico di venire subito, ho scoperto una cosa inquietante che riguarda Emma. Si precipiterà a casa e gli farò vedere i lingotti, poi decideremo cosa fare.»
«Stai tranquilla, vedrai che non è niente, è la tensione dei giorni scorsi che ti fa star male: arrivo tra poco» rispose Aldo.
Minuti lunghi come ore per Afra, poi finalmente la chiave che girava nella toppa, ma… mio Dio era Emma e Aldo dov’era? Perché aveva le chiavi?
Ancora quel vuoto allo stomaco, più doloroso di prima e un imbarazzo che Emma sembrò non notare.
«Buon giorno Afra, eccomi qui, sono uscita per comprarmi almeno un cambio di biancheria e qualcosa da vestire, hai fatto colazione? Sei pallida come un cencio, ho portato le brioche, un caffè e una spremuta anche per me.
Siediti, preparo io tutto, è il minimo che possa fare, sei sempre così premurosa!»
Afra fece un cenno di assenso, le mancavano le parole, Emma sembrava così tranquilla e sicura… tra poco arriverà Aldo, tra poco arriverà e allora…

«Grazie Emma, gradirei solo la spremuta, ho la gola secca, temo mi stia arrivando l’influenza, devo aver preso freddo in questi giorni e non ho fatto il vaccino quest’anno.»
«Le arance sono ricche di vitamina C, è quello che ci vuole un questi casi.»
Mentre Emma armeggiava con lo spremiagrumi Afra, più confusa che mai, si chiedeva cosa avrebbe detto ad Aldo, non poteva certo rivelargli della sua scoperta in presenza di Emma.
Che scusa poteva trovare per giustificare la telefonata fatta poco prima?
«Ecco la spremuta, niente zucchero, mi sembra già abbastanza dolce» disse Emma mentre le porgeva il bicchiere
«Non mi sembra affatto dolce, è piuttosto aspra» rispose storcendo la bocca mentre la beveva Afra.
Dopo pochi minuti sentì la testa farsi pesante, tutto le girava intorno come fosse ubriaca, le palpebre si chiudevano nonostante i suoi sforzi per tenere gli occhi aperti e la sgradevole sensazione di scivolare in una dimensione sconosciuta dove la coscienza si dissolveva e il suo corpo, come un burattino senza fili, si afflosciava senza rumore… poi il tempo non ebbe più valore.
Emerse con fatica da quel limbo, la bocca impastata, le palpebre incollate come tendine sugli occhi ostinatamente chiusi.
Dov’era, che cosa le era successo, chi stava parlando? Voci alterate, acute come pietre aguzze scagliate con forza le entravano nella mente dolorante, le martellavano il cervello.
Tentò di muoversi senza successo, i polsi stretti da una corda le dolevano, era legata, immobilizzata.
Le voci che sentiva erano di Aldo ed Emma.
«Che ne facciamo della la tua mogliettina? Ha ficcato il naso dove non doveva, ha curiosato nella mia macchina, ho trovato il portabagagli aperto, sa troppe cose, che ne facciamo?»
«Mi ero stancato di vendere case in un mercato asfittico e diventare un monsieur travet in banca, non lo avrei sopportato! Ti avrei raggiunto all’estero dopo aver lasciato Afra civilmente, ma questo non posso farlo. Non erano questi i patti, nessuno si doveva far male, tieniti pure tutto l’oro, io mi chiamo fuori, Emma.»
«Bello mio, eri in Sardegna e dovevo decidere in fretta, la mia parte l’ho fatta anche per te.
Non puoi tirarti indietro, è troppo tardi per ripensarci.
Ho già il compratore per una parte dei lingotti, ero a Venezia per concludere l’affare quando tua moglie mi ha vista.
La sparizione di mio marito, che nessuno ha saputo spiegare, faceva parte del piano che lui stesso aveva ideato, questo lo sai.
Nessuno sapeva dei lingotti, non ci sarebbe stata nessuna denuncia per quell’oro che aveva trafugato, perché ufficialmente non era mai esistito.
Tutto, compresa la refurtiva da rapine commissionate dagli stessi orafi, era ben assicurata ovviamente.
Lasciato in custodia per un po’ di tempo. niente fatture, niente denunce.
Antonio ha commesso l’imprudenza di venire a casa mia sabato notte.
Era lui l’uomo che tua moglie ha fotografato, pensati se l’avesse riconosciuto!
È entrato con le chiavi e per poco non sono stata colta da infarto quando me lo sono trovato davanti.
Voleva riprendersi tutto, era stanco di nascondersi e di aspettare. Ho cercato di farlo ragionare, inutile dirgli che doveva pazientare ancora per poco, che non erano chiuse le indagini sulla sua scomparsa, che il rischio era troppo grande. Potevo permettergli che distruggesse tutto con le sue paranoie?
Ho finto di acconsentire e mi ha creduta. Mi ha confessato dove aveva nascosto l’oro. Da non credere, in un incavo sotto alla cassapanca, nel capanno degli attrezzi! Geniale nella sua banalità, quando mai l’avrei trovato?
Aveva sete dopo tanto parlare e gli ho preparato una spremuta, sapevo che l’avrebbe gradita. Non c’era solo succo d’arancia come puoi immaginare, dopo cinque minuti era già incosciente. La domenica mattina è arrivata tua moglie per farmi vedere la foto. Antonio era legato e imbavagliato in cucina, stordito da un’altra dose di psicofarmaco. Ho temuto che lo scoprisse e mandasse a rotoli il mio piano. Nel pomeriggio sono uscita per crearmi un alibi mentre il fuoco faceva il resto. Chi potrà sospettare di me e collegare i resti carbonizzati di uno sconosciuto piromane a un uomo sparito da tempo e dato per morto? Anche con Afra la Ketamina ha funzionato, è ancora incosciente, dobbiamo trovare una soluzione in fretta, spremi anche le tue di meningi, sei mio complice che ti piaccia o no.»
Aveva parlato con rabbia, quasi ringhiando. Mio Dio, è un mostro questa donna! Pensò Afra mentre la sua anima urlava di dolore.
Il tradimento e la complicità di Aldo con Emma, il terrore per quello che le avrebbero fatto, per quello che l’aspettava.
La mente dolorosamente lucida correva come una macchina lanciata a tutta velocità sui tornanti di una montagna quando i freni non rispondono: mente e corpo erano due identità separate, sentiva e pensava chiaramente, il corpo scollegato non rispondeva, impossibile tradurre in parole i pensieri e il senso di impotenza diventava via via più devastante.
La tensione psicologica era diventata insopportabile, e per un meccanismo primordiale di difesa la coscienza si spense e Afra ripiombò in uno stato di incoscienza.
14 Novembre, pomeriggio
«Afra, tesoro svegliati.» Afra aprì gli occhi, c’era Aldo chino su di lei, e il tono della sua voce era dolcissimo… sono morta… però, non è male l’aldilà. Pensò.
«Sei in ospedale, sei al sicuro, è tutto finito. Non hai niente di grave, qualche flebo per disintossicarti e domani sarai nuovamente in forma.»
Non era morta e nemmeno stava sognando, Aldo le teneva la mano, quel contatto era reale, caldo e rassicurante.
«Ma… cosa è successo, c’eri anche tu con Emma, mi voleva uccidere l’ho sentito bene, non potevo parlare ma sentivo tutto.»
«Non sono un ladro e tantomeno complice di un’assassina, sono stato solo un’esca. Uno degli orafi, pur di farla pagare ad Antonio, aveva spiegato tutto all’assicurazione e poi alla guardia di finanza. Era disposto ad assumersi la responsabilità della truffa fatta all’erario e anche gli altri coinvolti, alla fine, hanno dovuto confessare.
Emma poteva essere estranea anche se i dubbi erano tanti. La prova della truffa, per la guardia di finanza era il recupero dell’oro, ma come? Sono stato contattato dal capitano responsabile delle indagini, Francesco Padrin, mio ex compagno di scuola, te lo ricordi?
La mia insoddisfazione e le lamentele per il lavoro che andava male hanno convinto Emma; ero perfetto come suo complice.
Ho avvisato Francesco subito dopo la tua telefonata stamattina; quando sono rientrato avevo un microfono addosso; la confessione di Emma è stata sentita e registrata, le forze dell’ordine sono prontamente intervenute e l’hanno arrestata. Ti aveva drogata prima del mio arrivo e mi sono spaventato da morire quando ti ho visto incosciente e legata. L’ho provocata facendole credere di tirarmene fuori, di mollare, e ha funzionato.»
Erano languidi e pieni d’amore gli occhi di Aldo, così languidi da farle dimenticare le ore di terrore appena trascorse da farla sorridere felice.
«C’è una lauta ricompensa da parte dell’assicurazione per l’oro recuperato, basteranno seicentomila euro per la vasca da idromassaggio e la pompeiana che ti piaceva tanto?»

F I N E


 

LEZIONE DI INGLESE

– Alzati Federico, ci sono due carabinieri alla porta, ti vogliono parlare, hai
fatto tardi ieri sera, che cosa è successo?
Non ne ho idea mamma, è un errore sicuramente.-
Buon giorno, signor Sartori ci deve seguire al comando, gli spiegherà tutto il
comandante.
Dio mio pensò Federico che cosa ho fatto? Divieto di sosta…multe non pagate,
no, no sono sempre ligio alle regole, sarà un errore, non mi devo preoccupare tra
poco sarà tutto chiarito.
Mai successo a nessun membro della sua famiglia, chissà cosa avrebbe detto suo
padre al ritorno dal lavoro e sua sorella lo avrebbe preso in giro per una vita.
Nell’ufficio del comandante la sua ansia era alle stelle… Senza preamboli gli
chiese:
-Lei frequentava regolarmente la casa della signorina Rosanna Farini? Quali
erano i suoi rapporti con la vittima?
-La vittima? Quale vittima che è successo?
-La signorina è stata uccisa brutalmente nella sua abitazione.
-E’ terribile, mio Dio, Rosanna morta, ammazzata , cosa è successo?
-Ce lo dica lei signor Sartori abbiamo trovato una sua lettera alquanto strana,
ci vuole spiegare ora i rapporti intercorsi tra lei e la signorina?
-Non so niente, non so niente, io l’ho vista ieri mattina alle nove per la solita
lezione di inglese…
-E la lettera, come me la spiega?
-Avevo deciso di arrangiarmi per lo studio, me la cavo abbastanza in inglese e
non voleva far spendere ancora soldi ai miei genitori.
-Perché non lo ha fatto di persona, o forse lo ha fatto?
-No, no l’ha messa nella cassetta della posta un mio amico, la lettera, per farmi
un favore.
-E chi sarebbe questo amico, ci dica il nome.
– Carlo, si chiama Carlo Zin lo chiami, questo è il suo numero e vi spiegherà
tutto.
-Bene, bene si da il caso che sia proprio lui che ha scoperto il cadavere e che ci
ha avvisati; stamani ha trovato la porta aperta, è entrato e ha visto il cadavere.
Riversa in un lago di sangue, colpita alla gola, un colpo mortale alla carotide,
non è stata trovata l’arma del delitto, un punteruolo o un oggetto molti appuntito
sembrerebbe dalle piccole dimensioni della ferita.
Una scena terribile, il suo amico era sotto choc quando siamo arrivati.
-Carlo non doveva salire, solo mettere la mia lettera nella cassetta della posta, è
la verità, vi giuro che è la verità.
-Si calmi, per ora può andare, resti a disposizione , torni oggi pomeriggio per la
deposizione, in questo ufficio alle 14.30 puntuale!
Chi era il sadico che con un martello picchiava nella sua testa senza posa? Un
incubo, questo è un incubo, colpa della birra di ieri sera, mi piace la birra ma
devo aver esagerato, quella bionda triplo malto fredda al punto giusto e la
schiuma quasi compatta, quel sapore un po’ amaro fetta di limone, deliziosa…!
Per un attimo il ricordo delle piacevoli sensazioni gli fecero dimenticare dove si
trovava…
Illusione, la realtà terribile e impietosa lo sommerse come un’onda
maligna.
Da dove cominci a far ordine quando la confusione è talmente tanta che non
riesci nemmeno a distinguere i contorni delle cose che si ammonticchiano le une
con le altre e si perdono come se la tua mente fosse una buia soffitta?
I pensieri si aggrovigliavano ai ricordi, alle emozioni con il dolore più profondo e
come un mostruoso animale partorito dall’incubo più terrificante erano lì pronti
ad aggredirlo.
I fatti, ecco i fatti, ma per Dio cosa è realmente successo?
Ordine, devo fare ordine, devo ricordare…Carlo aveva fatto dei commenti
sgradevoli nei confronti di Rosanna, tutto era cominciato due sere prima una
banale discussione con Carlo.
-Scusa Fede, sei sempre il solito bacchettone, non si può ragionare con te certe
volte!
-Non voglio più sentire stupidaggini Carlo, tu tratti tutte le donne allo stesso
modo, sai solo rimorchiare ragazzine in discoteca, bella esperienza che hai!
-Dai Fede. ci conosciamo dalle elementari e non la bevo proprio l’amicizia con
la prof. che vuoi farmi credere?
E poi che te ne fai delle lezioni di Inglese in quinta liceo da una che insegna alle
medie! Hai una storia con lei?
Carlo stizzito gli aveva girato le spalle e si era allontanato senza aggiungere altro.
Federico era rientrato a casa turbato, pur non volendo ammetterlo, sapeva in
cuor suo che qualcosa di vero c’era nelle parole dell’amico.
No, si disse, sono io che mi faccio delle fantasie, mi piace, è brava ma anche
bellissima e dolce, perché una prof. dovrebbe essere sempre una vecchia zitella
inacidita altrimenti è incompetente?
Mi sento un certo scombussolamento quando arriva l’ora di andare da lei, è
piacevole sentirsi così, che male c’è?
L’indomani avrebbero iniziato la lettura di Shakespeare & Scespir, un libro di
letteratura inglese assegnato come testo per le vacanze estive dalla prof. Onorina
Biancucci, vera zitella e quasi un’istituzione del Liceo G. Leopardi.
Fede si preparò per tempo, una cura particolare nel tagliarsi la peluria dal viso
che pomposamente chiamava barba, doccia e camicia azzurra che gli stava
particolarmente bene, una spruzzatina di
“Profumo di Corteccia” discreto aroma, particolare ma discreto, come piaceva a
lui e guarda caso l’aveva notato subito Rosanna.
La lezione era per le nove e dopo i discorsi della sera prima con Carlo,
paradossalmente aveva una voglia matta di rivedere Rosanna.
Arrivò molto in anticipo e si infilò nel bar all’angolo, ordinò un cappuccino
mentre il tempo scorreva con una lentezza esasperante.
Seduto a sorseggiare il cappuccino immaginava Rosanna sotto la doccia e quel
corpo prosperoso nudo e bagnato gli fece andare di traverso il sorso caldo che
4stava ingoiando.
Tutta colpa di Carlo, accidenti a lui e alle sue insinuazioni!
Poggiò sul bancone una moneta da due euro e si alzò rabbioso con Carlo e con se
stesso.
Raccolse lo zaino che gli era caduto nella foga e quando sollevò lo sguardo vide
che dal portone usciva un uomo sui cinquanta, un senso di disagio cancello le
piacevoli immagini precedenti, quel modo di guardarsi attorno come se temesse
di essere visto, gli conferivano un’aria da clandestino.
Ancora qualche minuto e suonò il campanello
-Cosa ti sei dimenticato questa volta?
Un attimo di silenzio e poi…
-Scusi professoressa, sono Federico..
-Ah, sei tu, un momento..ti apro subito.
Non c’erano dubbi, quel tizio era uscito dall’appartamento di Rosanna, lui
diciottenne studente e lei professoressa trentaduenne che senso avrebbe avuto
un’ipotetica storia?
Che stupido sono stato,e ho quasi litigato con Carlo.
Semplice pensieri, altra cosa trovarsi davanti Rosanna sorridente, gentile e
profumata; sì profumavano i suoi capelli ancora umidi e la sua pelle leggermente
abbronzata, era appena uscita dalla doccia proprio come l’aveva immaginata.
-Mi fai compagnia per un caffè prima di iniziare la lezione? Sono ancora
assonnata, ho dormito poco questa notte.
-Ne ho già presi due stamani, ma non fa niente le faccio volentieri compagnia.
E intanto pensava, certo che non hai dormito molto, avevi ben altro da fare, pensi
che sia così tonto da non aver capito…
-Per chi mi avevi scambiato quando ho suonato il campanello?
-Per nessuno, sono ancora assonnata e chissà cosa pensavo.
Crede che io sia proprio tonto… Posso andare in bagno per favore?
-Certo è a destra del corridoio, fai pure mentre preparo il caffè
Nei due mesi trascorsi Federico non aveva mai chiesto di usare il bagno, una
segno evidente della sua timidezza, conosceva solamente l’ingresso e lo studio
dove sulla grande scrivania si accavallavano libri, quaderni e i suoi voli pindarici.
Entrò nel bagno e ancora nell’aria profumo di buono, di lei; uno sguardo agli
oggetti sulla mensola per cercare tracce di una presenza maschile.
Creme e cremette, oggetti a lui sconosciuti, un aggeggio per arricciare i capelli e
una piastra per lisciarli, un pettine a coda, di ceramica, come quello di sua
sorella che gli aveva spiegato può passare al controllo in aeroporto senza
problemi, irrinunciabile quando vai in vacanza e hai i capelli lunghi aveva
aggiunto, ma questo era speciale.
Una piccola R sull’impugnatura scritta con un pennarello indelebile, quella R
molto particolare con la quale Rosanna siglava le letture già tradotte, e ancora
matite per gli occhi, rossetti, smalti e ombretti, mascara, profumo…
Sul piatto doccia qualche capello, lungo e ramato, un brivido di piacere lo
avvolse, chiuse gli occhi e immaginò di passarle la mano tra i capelli, il respiro
si era fatto più corto e il cuore accelerava i battiti, si diede dello stupido, ma che
diavolo sto facendo ?
Aprì gli occhi e si diresse verso la cucina ma poi la curiosità vinse la discrezione
ed entrò nella camera da letto.
Il letto a due piazze di ottone brunito, cuscini strimacciati, in disordine le
lenzuola.
La voce di Rosanna lo fece sobbalzare
-Il caffè è pronto, hai finito?
In tutta fretta ritornò nel bagno a premere lo sciacquone come se lo avesse usato
veramente, un lungo respiro e con un’indifferenza che male si accordava con il
caos che gli riempiva la testa entrò nello studio dove Rosanna e due tazzine
fumanti lo stavano aspettando.
Nebbia, solo nebbia quell’ora di lezione, e Rosanna sembrava non essersi accorda
del suo imbarazzo.
-Non sempre mi dai del tu, fatichi ancora a considerarmi un’amica, hei, dico a te
ragazzino!
-Hai ragione, scusa non ho dormito bene nemmeno io questa notte, capita a tutti
non credi?
-Riposati nel pomeriggio, e domani cerca di essere più attento,oggi hai la testa
altrove. Stessa ora, riprendiamo la stessa versione, buona giornata..
-Buona giornata Rosanna, a domani.
Erano le sue fantasie che lo avevano deluso, solo le sue fantasie, inconfessate
fino a quella mattina?
Brava Rosanna, aveva un amante e doveva essere ricco, altro che il suo stipendio
e le ripetizioni!
Non erano affari suoi eppure si sentiva tradito, tradito dalle attenzione che gli
aveva riservato, dalla
confidenza che gli aveva dato, e quando poggiava la mano sulla sua, e quando si
avvicinava alla sua spalla sfiorandole il volto con i capelli e sentiva l’alito caldo
mentre leggeva con passione incredibile le frasi d’amore di Amleto per Ofelia?
Tutte fantasie anche quelle?
C’era solo una spiegazione, la signorina si divertiva a provocare, a stuzzicare e
sapeva perfettamente l’effetto che suscitava specie negli studenti imbranati e
inesperti come lui.
Chissà che risate si era fatta alle sue spalle con l’amante e quante ancora pensava
di farsene, qui però si sbagliava, inesperto certamente, ma non stupido.
Doveva trovare il modo di riscattare il suo orgoglio ferito per la miseria!
Scriverle una lettera, chiudere in modo elegante e nel contempo farla sentire in
colpa per il suo comportamento ambiguo, questo voleva fare.
Ne avrebbe parlato con Carlo, di lui si poteva fidare e sicuramente lo avrebbe
capito e consigliato.
A casa si mise subito all’opera, non voleva che la rabbia e la frustrazione
scemassero di intensità e poi voleva far leggere a Carlo quello che stava per
scrivere.
“Gentile Professoressa Farini, Le scrivo per farle sapere che ritengo concluse le
sue prestazioni professionali nei miei confronti. La ringrazio dell’amicizia che
mi ha dimostrato e della disponibilità di seguirmi nella preparazione per la
maturità. Ho deciso di impegnarmi da solo nello studio,
sarà una buona
palestra per l’Università.. Le accludo il suo onorario per le ultime lezioni e la
ringrazio ancora dei preziosi insegnamenti .” Federico Sartori.
Poteva andare, la stampò in due copie e telefonò a Carlo, sarebbe passato da casa
sua nel tardo pomeriggio.
-Ciao Fede cosa è successo? Accipicchia se ti ho sentito strano al telefono e
misterioso per giunta, dimmi dimmi… –
-Andiamo in camera mia, è una cosa delicata…
Carlo seduto sul letto, Federico in piedi che camminava come un leone in gabbia
e senza parlare gli mise in mano la lettera.
Lungo silenzio e poi…
-Ora dimmi cosa è successo, ti ha fatto delle avance? Dopo tutte le difese che hai
preso nei suoi confronti solo ieri… e perché non dirle a voce semplicemente che
non hai più bisogno di ripetizioni?
-Ho scoperto che ha l’amante, un tizio sui cinquanta, da non crederci ho provato
i morsi della gelosia e sono stato male. Avevi ragione mi stavo prendendo una
cotta. Non voglio più rivederla, non ce la faccio, sono stato stupido lo ammetto
ma ora basta, capitolo chiuso e non prendermi in giro per favore.
Federico come un torrente in piena gli raccontò l’accaduto lasciando libero sfogo
al suo stato d’animo senza curarsi del rischio di sembrare puerile agli occhi
dell’amico.
-Tranquillo, sono cose che capitano, non è certo colpa tua, è lei che ti stava
provocando, e poi chissà cosa sarebbe successo.
-E così ha un amico la bella, altro che santerellina come mi volevi far credere!
Il mutuo e la
macchina nuova, una Subaru, non un’utilitaria …ecco da dove venivano i soldi,
altro che le ripetizioni! E tu ci stavi cascando, le conosco queste tardone,
l’amante con i soldi e i ragazzi giovani per divertirsi. Hai fatto bene, la lettera è
perfetta anche se a quella non verranno certo i sensi di colpa. Se vuoi passo io a
metterla nella cassetta della posta. E’ un favore che faccio a te e lo faccio
volentieri.
-Grazie Carlo, sapevo di poter contare su di te e sulla tua discrezione. Non ho
voglia di passare la serata a rimurginare, usciamo?
-Avevamo già in programma di trovarci Beppe, Lele e forse Piero nella solita
birreria, vieni che ci divertiamo.
-Grazie ancora, ecco la lettera e i 60 euro sono in questa busta, ora la chiudo e
se Dio vuole tutto finisce.
La serata in birreria tutti insieme, si erano divertiti un sacco e la birra, la birra un
balsamo per la gola e per i cattivi pensieri che era riuscito a scacciare.
E poi il risveglio, le domande in caserma, la notizia dell’assassinio, le velate
insinuazioni del comandante, Carlo doveva solo mettere la lettera in cassetta,
perché era salito nell’appartamento?
Lui era la chiave di tutto, doveva parlargli al più presto, chiarire prima di tornare
a casa.
Chiamò Carlo al telefonico. Sto venendo da te, dobbiamo parlare, rimanda
qualsiasi impegno.
E chiuse la comunicazione senza attendere risposta..
Carlo era solo a casa, i suoi genitori erano in vacanza e sembrava sconvolto
quanto lui.
-Una tragedia Fede, una tragedia, il portone era aperto e sono salito, Rosanna,
aveva avuto una storia con un mio ex compagno, diceva di amarlo e lui era
pazzo di lei, dopo un po’ si era stancata e lo aveva scaricato. E’ andato in
depressione povero, prende ancora farmaci dopo quasi un anno, lo ha distrutto
psicologicamente.
Ecco perché ero sicuro che volesse fare lo stesso con te e ti avevo messo in
guardia.
Sono salito perché volevo pregarla che non ti cercasse, che ti lasciasse perdere.
-Lo conosco? Dimmi chi è ?
– Non chiedermi di più, non te ne ho mai parlato perché sono il solo a saperlo, è
una confidenza che non potevo e non posso tradire.
-Quando sono salito la porta dell’appartamento era aperta, e lei era lì
nell’ingresso morta.
Dio che orrore. Ho cominciato a tremare e a vomitare , stavo male da morire,
quando mi sono un po’ calmato ho chiamato il 112 e sono arrivati…
-Perché non hai detto tutto questo ai carabinieri, ora sono io nei guai, pensano
che la lettera l’abbia portata io e chissà cos’altro, magari che l’ho uccisa.
Devi assolutamente venire in caserma con me e spiegare come sono andate
veramente le cose.
-Mi spiace che sia morta ma gli amanti sono pericolosi, forse era sposato e lei
minacciava di dire tutto alla moglie e lui ha perso la testa. Sono convocato nel
pomeriggio in caserma anch’io e racconterò la verità.
Ragioniamo Fede, siamo tutte e due nei guai e dobbiamo aiutarci, non abbiamo
fatto niente di male, non siamo colpevoli di nulla e potrebbemmo rovinarci
ugualmente, non sarebbe giusto.
Quel tizio che hai visto uscire, il suo amante, è lui l’indiziato da interrogare,
parleremo di questo oggi in caserma. Siamo distrutti, mangiamo qualcosa, una
piadina e un po’ di prosciutto crudo e poi ci facciamo una birra, la mente è fatta
di corpo, in ipoglicemia non si ragiona lucidamente, accendo il fornetto
elettrico, mangiamo la piadina e poi decidiamo cosa fare…
Era troppo, veramente troppo quello che era successo, e la confessione di Carlo
che complicava ancor più la faccenda.
Va bene si disse, forse ha ragione lui, mangio qualcosa e così avrò il tempo per
riflettere, per capire cosa fare, non posso sbagliare ne va del mio futuro, della mia
vita.
Fissava Carlo intento a preparare le piadine senza vederlo realmente, come in un
caleidoscopio le immagini di quelle ore si rincorrevano disordinate, scorrevano
senza posa sullo schermo della sua mente, il cuore pulsava frenetico come dopo
una folle corsa.
Masticata e rigirata in bocca, non poteva addebitare alla piadina quel sapore
amaro, era la paura che ammorbava ogni cosa e nemmeno la birra riuscì a
togliergli quella sgradevole sensazione.
-Devo telefonare a mia madre, sarà preoccupata, che le dico? Non sono abituato
a mentirle,cosa le posso dire?
-Niente, non devi dirle niente, tutto a posto, già chiarito, poi ti spiego.
Dille che ti fermi a casa mia per studiare. E’ già successo tante altre volte e non
ci troverà niente di strano. E’ inutile farla preoccupare fin da adesso.
Telefona subito, e non pensare più a tua madre, abbiamo ben altro da fare,
dobbiamo metterci d’accordo su cosa dire, ricorda che non abbiamo fatto niente
di male e che ci potrebbero incastrare al posto del colpevole, non sarebbe la
prima e nemmeno l’ultima volta che succede.
-Mi sento a pezzi, la piadina mi è rimasta sullo stomaco e mi gira la testa, tu
come ti senti?
-Come te, uno schifo ma non abbiamo molto tempo e dobbiamo ripetere e
ripetere la verità , la relazione del mio amico non c’entra, se diventasse di
dominio pubblico
potrebbe farlo ripiombare nella depressione e compiere
qualche gesto inconsulto, non potrei mai perdonarmelo.
Arrivarono in caserma puntuali, e Carlo fu chiamato per primo nell’ufficio del
comandante.
-Lei signor Sartori aspetti qui, dopo verrà il suo turno, sentiremo prima il signor
Zin.
Perché?
Nessuna parola genere un senso di sconfitta come un perché senza risposta, non ti
rassegni all’evidenza e per quanto inutile sia la domanda alla quale sai bene non
ci sarà mai risposta, continui a proporla ossessivamente come se il vuoto a cui la
rivolgi sentisse la tua disperazione e del tuo lamento avesse pietà.
Così Federico girava e rigirava quei dannatissimi perché, l’infatuazione per
Rosanna la causa di tutti i suoi guai, perché era successo?
Perché aveva scritto quella lettera?
Perché Carlo non aveva messo la lettera
nella cassetta della posta come avevano concordato? Perché gli aveva tenuta
nascosta la relazione di Rosanna con il suo compagno? Cosa stava accadendo
nella stanza accanto?
-Entri Signor Sartori, le leggerò le dichiarazioni del qui presente Signor Zin, se
ha qualcosa da aggiungere o da obiettare lo dica alla fine altrimenti firmi anche
lei e poi potete andare.
Carlo era stato bravissimo nell’esporre i fatti e Federico non trovò nulla da ridire.
-Le indagini proseguiranno per altre vie e la ricontatteremo perché identifichi la
persona che ha visto uscire dalla casa della vittima. Non verrà fatto il suo nome
Sig. Sartori e nessuno di voi due dovrà parlare fino a che non saranno concluse
le indagini.
La morte della Farini è stata fatta risalire tra le ore 20.30 e le 21.30 di ieri sera
dal medico legale, la vostra presenza in birreria è stata confermata da più
testimoni, siete arrivati intorno alle 20.00 e avete lasciato il locale subito dopo
la mezzanotte è esatto?
Un si deciso di Carlo, un cenno del capo come assenso di Federico non sarebbe
riuscito a pronunciare sillaba, la lingua si era incollata al palato, la gola secca
come il più arido assolato deserto, rivoli di sudore freddo lungo la schiena,
l’adrenalina alle stelle.
Poi incredulo si trovò fuori dal comando, l’incubo era finito…
-Hai visto Fede che tutto è andato bene. Quando avranno trovato l’amante e tu
lo avrai identificato potremmo dimenticare questa brutta esperienza.
Brutta? Drammatica vorrai dire, ho lo stomaco sottosopra, la piadina fa a
pugni con la birra, passiamo da casa tua, hai del bicarbonato?
-Certo, ti preparo io una pozione che ti farà stare subito meglio.
-Grazie, non posso tornare a casa in queste condizioni, mia madre mi farà il
terzo grado, altro che il comandate dei carabinieri! Domani ci sarà l’articolo sul
delitto e allora apriti cielo, sento già le domande dei miei e la curiosità di mia
sorella, sarà asfissiante non mi darà pace.
Se sapessero
del mio coinvolgimento per l’identificazione poi… non oso
immaginare la loro preoccupazione. Anche se non vogliono saremo al centro
dell’attenzione alla fine delle indagini, figurati i giornalisti. Un’estate da incubo
ci aspetta.
Le membra intorpidite dalla tensione, che fatica camminare le gambe
sembravano due tavole di legno e poi finalmente seduto in cucina mentre Carlo
gli preparava un bicchiere d’ acqua con bicarbonato e succo di limone sperando
che funzionasse, stava male ma proprio male per la miseria!
Disgustoso l’intruglio che ingoiò a piccoli sorsi e prima di aver vuotato il
bicchiere lo stomaco si ribellò a quello che per lui era un insulto..
Un conato di vomito e di corsa in bagno, appena in tempo…gocce di sudore le
imperlavano la fronte mentre i conati continuavano anche se ormai nello stomaco
restavano solo succhi gastrici.
-Hai bisogno di aiuto? La voce di Carlo arrivava da un mondo lontano…
-No, no, ora mi passa, aspettami in cucina, lasciami solo per favore…
Seduto sulla tavoletta del water per riprendere fiato, debole e stremato ma libero
dall’oppressione che lo aveva tormentato e non solo fisicamente, non era più un
indiziato e solo ora ne era pienamente cosciente. La sensazione di aver scampato
un pericolo gli fece passare come per magia tutta l’ansia accumulata nelle ore di
quel lunghissimo, infernale giorno.
Si sciacquò la bocca con l’acqua poi aprì l’armadietto sopra il lavandino per
cercare il collutorio, ne aveva proprio bisogno, niente collutorio, almeno un
asciugamano pulito per lavarsi la faccia. Infilò la mano sotto la pila di quelli
puliti per prendere una salviettina per gli ospiti, gli dispiaceva usarne uno grande,
ne aveva già sporcati due in modo indecente e…accidenti mi sono tagliato per la
miseria, accidenti mi sta uscendo sangue sto sporcando tutto..accidenti, accidenti
che c’è qui sotto? Per la miseria un pettine di ceramica, è questo che mi ha
ferito! Sporco di sangue rappreso che non poteva essere il suo. L’ansia e la
nausea lo assalirono più forte di prima, un dolore che non avrebbe potuto
descrivere, mai sentito prima, passava dalla mente a ogni cellula del suo corpo e
il cuore schiacciato da un enorme macigno sembrò fermarsi.
Era il pettine di Rosanna, ne era certo, non poteva sbagliarsi, quella R
la conosceva bene, quel pettine di ceramica che aveva tenuto tra le mani il giorno
prima era lì, tra le salviette di spugna nel bagno di Carlo.
Era quella l’arma del delitto, Carlo, era lui che aveva avuto la relazione con
Rosanna, nessun fantomatico vecchio amico…la verità era lì davanti a lui
lapidaria…mio Dio…
L’aveva uccisa, il pettine un improvvisato stiletto. Quando insisteva per sapere
se ci fosse qualcosa tra lui e Rosanna non era curiosità era gelosia, e il favore di
portare la lettera al suo posto era stata una scusa, una scusa per farsi aprire.
L’aveva sicuramente pregata di rimettersi insieme e forse lei lo aveva deriso, e lui
aveva pianto, poi era andato in bagno per lavarsi il viso e aveva trovato il pettine,
la rabbia e la delusione avevano fatto il resto.
Come un lampo che squarcia il buio nella notte il ricordo della sera prima diventò
chiarissimo. Beppe, Lele e Piero erano con lui, ora ricordava erano già alla
seconda birra, quella bionda triplo malto fredda al punto giusto e la schiuma
quasi compatta, quel sapore un po’ amaro e la fetta di limone, deliziosa… e Carlo,
Carlo, in birreria era arrivato alle nove!


 

D A N K A

 
In Bulgaria, tra la tribù nomade a cui apparteneva, vigeva la regola che i figli si fanno sempre
nascere e poi si possono rifiutare lasciando che la nonna, o chi di buona volontà si offrisse,
provvedesse a loro con l’amore e le cura che la mamma naturale rifiutava.
Fu così che Danka, quando venne alla luce al settimo mese di gestazione, fu affidata alla nonna
materna. Il mondo era tutto lì, nel carrozzone dove la giovane mamma l’aveva partorita e dove
l’avrebbe lasciata subito dopo.
La famiglia dove Danka cresceva era composta dalla nonna Viviane, da uno zio materno Ugo, la moglie Violeta e dalla figlia Norka che aveva solo pochi mesi più di lei.
Crescevano insieme le due bimbe e l’affetto della nonna e dello zio compensava in parte il
vuoto che Danka provava quando sua zia Violeta coccolava la piccola Norka.
Danka si dimostrò subito una bimba dall’intelligenza viva e dalla sensibilità profonda, bisognosa di
affetto, riconoscente per quello che riceveva, un debito verso tutti che riteneva di dover pagare.
Le era impossibile provare rancore per la mamma che l’aveva rifiutata, immaginava intrighi
fantasiosi che l’avevano costretta all’abbandono, e alla grande sofferenza che sicuramente lo aveva
accompagnato.
La cuginetta Norka era una bellissima bambina, i capelli color del grano maturo e
morbidi boccoli le ricadevano sulle spalle, occhi azzurri sul visino da bambola.
Danka, piccola e nera, al confronto della cugina sembrava un animaletto, capelli color dell’ebano
lisci e lunghissimi, occhi antracite con pagliuzze che guizzavano come pesciolini dorati quando
sorrideva ma che diventavano saette infuocate se subiva un rimprovero, una punizione non
meritata.
Non si ribellava, non si difendeva, ma i suoi occhi esprimevano bene quello che provava,
un’orgogliosa sfida verso l’ingiustizia che le veniva fatta.
Iniziarono la scuola elementare e Danka entrò subito nelle simpatie della maestra per la sua voglia
di imparare.
Mentre Norka arrancava con fatica tra libri e quaderni, Danka otteneva ottimi risultati
senza grande sforzo ma moltissimo impegno.
Negli anni che seguirono i risultati scolastici delle due cuginette non lasciavano dubbi: Danka era
portata naturalmente per lo studio, Norka al contrario preferiva scorrazzare per i campi invece di
percorrere i quattro chilometri a piedi per raggiungere la scuola.
Forse per giustificare la figlia o per invidia dei risultati della nipote o semplicemente perché anche
lei analfabeta, zia Violeta cercava di convincere la suocera e il marito dell’inutilità della scuola, la
considerava una perdita di tempo, si lamentava di aver bisogno di aiuto nei lavori domestici e che
niente di buono le bambine avrebbero ottenuto.
Così, quando Danka, a dieci anni ebbe il menarca, cosa normale che la pubertà sia precoce tra i Rom, la zia, approfittando di questo momento che segnava il passaggio dall’età infantile a quella adulta, intesa come capacità di procreare, pretese di fatto l’abbandono della scuola.
Alle proteste di Danka la zia l’accusò che il suo interesse fosse unicamente per i ragazzi e non per la scuola, insinuando che intrattenesse con loro relazioni intime.
La verginità è molto importante, un valore assoluto per una ragazza Rom, e Danka si sentiva ferita e
umiliata dalle parole durissime che riceveva.
Lo zio non prendeva posizione temeva la moglie e faceva il Ponzio Pilato per il quieto vivere.
Un giorno Danka, guardando nella posa sul fondo della tazzina dopo che la zia aveva bevuto il caffè
alla turca, senza esserne pienamente consapevole disse:
“Zia Violeta, tu andrai in ospedale entro sette giorni, avrai un’operazione alla pancia, starai molto male ma poi guarirai e starai bene.
Non ti devi preoccupare.” La zia andò su tutte le furie, buttò la tazzina per terra, picchio Danka
riempiendola di insulti e tacciandola di volerle male e farle il malocchio.
Disperata si rifugiò dalla nonna chiedendole di quale colpa si fosse macchiata .
La nonna disse a Danka che la capacità di leggere i fondi di caffè è un dono che hanno le persone
speciali, nate in sette mesi come lei.
Dopo sette giorni zia Violeta fu ricoverata effettivamente di urgenza in ospedale per una peritonite,
rischiò di morire e dopo una lunga convalescenza tornò alla vita di sempre.
La zia non cambiò atteggiamento nei confronti della nipote, anche se spesso pretendeva che
leggesse nella tazza quello che poi puntualmente si avverava. Danka era contenta di soddisfarne le
richieste non solo della zia ma dei tanti che ormai avevano saputo di questa sua capacità.
L’unica cosa che non sapeva fare era leggere nella sua di tazza, questo la rattristava perché
l’incertezza del suo futuro la divorava.
Arrivò l’estate e con essa la notizia che insieme agli zii e a Norka si sarebbero recati in Italia, a
Torino, dove una comunità Rom li avrebbe ospitati e dove si sarebbe celebrato il matrimonio della
cugina.
Lo sposo aveva anch’esso 14 anni, nessuno dei due promessi si conosceva, ma questo poco
importava. Il matrimonio era stato deciso da tempo tra le due famiglie, questa era la tradizione.
Norka aveva da tempo accettato la volontà dei genitori, non si sarebbe mai sognata di opporsi a
quello che riteneva suo dovere e si preparò al viaggio con l’incosciente entusiasmo della sua età.
Danka non voleva partire, disse alla nonna che aveva un brutto presentimento, aveva paura che da
quel viaggio non sarebbe più ritornata.
“Non devi preoccuparti, sarà una bella festa, devi essere contenta per tua cugina, io devo restare, al
ritorno mi racconterai tutto, sei così attenta a quanto succede che sarà come se avessi partecipato
anch’io.”
Danka non si sentì per nulla rassicurata, un’inquietudine che non sapeva spiegare la
tormentava, il suo piccolo cuore era stretto in una morsa.
Per quanto si sforzasse di partecipare ai preparativi per il viaggio mostrandosi serena, i suoi occhi
restavano tristi e pieni di lacrime.
Zia Violeta interpretò quella tristezza come invidia per la cugina che si sposava e non le risparmiò commenti cattivi, come dare per scontato che mai avrebbe trovato qualcuno disposta a sposarla perché era magra, brutta e sicuramente non più vergine.
Al momento della partenza i singhiozzi le scuotevano il petto, abbracciò la nonna con lo strazio di
un addio.
Il viaggio durò parecchi giorni, si fermavano in altri insediamenti, e la carovana si
allungava sempre più.
Tantissime le novità da vedere, da conoscere, luoghi e persone cominciarono ad avere il sopravvento sulla tristezza che la partenza le aveva suscitato.
Arrivarono a Torino in un tardo pomeriggio di agosto, faceva molto caldo erano stanchi, ma non ci
fu il tempo per riposare, quella sera stessa si sarebbero riunite le famiglie e finalmente anche i
promessi sposi si sarebbe conosciuti.
Intorno a un grande tavolo la cena servita in silenzio da sole donne, solo i familiari di Norka e di
Steven, così si chiamava il nubendo, il campo prima così affollato e chiassoso era diventato
improvvisamente silenzioso e deserto.
Durante tutta la cena Danka non alzò mai gli occhi dalla tavola, si sentiva in grande imbarazzo tra
quella gente che non conosceva e poi sua cugina era bellissima, biondi capelli sciolti sulle spalle
lasciate scoperte da una camicetta azzurra come i suoi occhi, una gonna anch’essa azzurra le
arrivava alle caviglie.
Sulla camicetta e sulla gonna grossi papaveri e spighe di grano erano stati ricamati sapientemente, una principessa, pensò Danka, lei si sentiva brutta e insignificante al confronto e non spiccicò nemmeno una parola.
Alla fine della cena, Steven si alzò in piedi e disse;
“E’ quella la ragazza che voglio sposare” indicando Danka. Silenzio di tomba, poi le urla di zia Violeta e il di pianto di Norka, Danka non riusciva a capire nulla, era la più sconvolta d tutti.
Gli adulti allontanarono le due ragazze e restarono a discutere fino al mattino.
Per motivi diversi nessuna delle due riuscì a dormire, poi arrivò lo zio e disse a Danka:
“E’ deciso tu sposerai Steven, solo però se sei vergine.”
Ancora quel dubbio avevano su di lei, era stanca di quelle insinuazioni e per puntiglio disse di sì, così avrebbe avuto modo di chiudere la bocca una volta per tutte a quelle insinuazioni e dimostrare quanto bugiarda fosse zia Violeta.
Aveva una paura folle, ma la rabbia era più forte così si lasciò preparare per le nozze dalle donne
addette a questa funzione.
La fecero immergere in un mastello di legno pieno di acqua calda e fiori di gelsomino, le
spalmarono il corpo con olio profumato, le lavarono i capelli, le tagliarono le unghie delle mani e
dei piedi colorandole di rosa, le ispezionarono il corpo minuziosamente per controllare che non avesse ferite in grado di sanguinare e simulare la deflorazione che doveva avvenire quella notte.
Frastornata, stordita, era lì ma non c’era.
Non era suo il corpo che stavano manipolando con mani esperte quelle donne zingare.
Quella notte avrebbe cambiato la sua vita, lei voleva fermamente con orgoglio, con rabbia, per rivalsa contro la zia e contro tutti che il lenzuolo macchiato di sangue sventolasse al mattino dopo come una bandiera, come la prova di quanto erano state immeritate le insinuazioni e le cattiverie che aveva sopportato.
Tutti avrebbero capito, l’avrebbero rispettata, la sua dignità avrebbero trionfato.
Il vestito bianco, il lungo velo e i fiori di gelsomino intrecciati tra i capelli che arrivavano alla vita,
il bianco quasi abbagliante sulla pelle olivastra e il nero corvino dei capelli, quando uscì dalla
roulotte un lungo applauso la accolse, poi due ragazzi come guardie del corpo la scortarono fino alla
tavola degli sposi e dei familiari, gli altri ospiti, più di duecento, presero posto in lunghe tavolate e
iniziò il banchetto.
Un fazzoletto colorato sulla spalla dei maschi, segno che erano ospiti graditi,
lunghe, ampie gonne e camicette colorate per le donne di qualsiasi età anch’esse con fiori tra i
capelli, solo per la sposa fiori bianchi.
Il pranzo, intervallato da musica e balli, durò fino al calar della notte.
Per Danka non c’era stato spazio per pensare, era stata al centro di un’attenzione mai avuta e forse per questo aveva fissato tanti fotogrammi, quasi un caleidoscopio di colori di suoni e odori, senza riuscire a legarli tra di loro, ubriaca senza aver bevuto la sua mente stava incamerando come una telecamera che un operatore distratto avesse dimenticato accesa.
Lo sposo si era allontanato e la stava aspettando sulla porta della roulotte che sarebbe diventata la
sua casa, teneva le braccia alzate a mo’ di arco e suo zio che la accompagnava la fece passare sotto
quello che simbolicamente doveva rappresentare l’ingresso verso la vita da donna sposata, da
moglie.
Nella roulotte orano soli, si guardarono e ognuno lesse negli occhi dell’altro la stessa timidezza, la
stessa paura, la stessa innocenza.
Avevano entrambi quattordici anni.
Fuori si sentivano le voci dei parenti e degli anziani, riuniti intorno alla roulotte ad aspettare,
aspettare che fosse consumato il matrimonio e che la prova fosse esibita.
Steven si fece coraggio, fece sedere Danka ai bordi del letto, le sollevò il vestito mentre il cuore di
Danka voleva schizzare fuori dal petto, lei chiuse li occhi e aspettò…
Steven le tolse il velo, le scarpe, le calze e cominciò a sfilarle il vestito, piano piano con
delicatezza.
Sempre con gli occhi chiusi Danka sentiva le mani un po’ sudate di Steven, tremavano
mentre sollevava la sottoveste sopra la sua testa.
Ora restava solo la biancheria intima, lo slippino di pizzo e il reggiseno, poi più nulla, mio Dio
pensò.
Il suo corpo era nudo, la gola secca e l’attesa…
“Come sei bella!” Disse Steven e Danka aprì gli occhi, colse nello sguardo di lui ammirazione e tenerezza mentre con piccoli, teneri baci le sfiorava il ventre e il seno.
Era certa, sarebbe stata felice con Steven, il destino aveva tessuto la trama, sua cugina Norka che
doveva essere la sposa era stata solo un mezzo.
Sapeva anche che non sarebbe più tornata in Bulgaria, come aveva letto nei fondi di caffè nella
tazza della nonna.
Anche Steven si spogliò, giovane eccitato ma inesperto, anche per lui la prima volta.
I loro corpi nudi entrambi desiderosi e timorosi di conoscersi, di toccarsi, di baciarsi come fanno gli
adulti.
Come entrare nell’intimità unica e irripetibile di quei momenti quando si percepiva la presenza
silenziosa e attenta dei parenti che aspettavano impazienti la prova dell’atto consumato e della
verginità deflorata?
La natura con le sue leggi che sfuggono alla ragione li portò in un’isola lontana, soli con le loro
emozioni, dove il tempo perse valore, dove paura e desiderio magicamente si fusero.
Al mattino, al sorgere del sole, Steven uscì sventolando il lenzuolo come il vessillo di un
conquistatore, lo fissò tra le due finestre perché tutti lo potessero vedere.
Un applauso e un’esplosione di grida, di urla, suonatori di fisarmonica e violino intonarono antiche
melodie zingare, il campo improvvisamente era desto.
Danka, sulla porta della roulotte, sorrideva, riflessi d’oro nei suoi occhi stanchi, tutti gli invitati
donne e uomini in fila ordinata l’avrebbero abbracciata, lì sulla soglia della sua nuova casa,
l’omaggio che spettava alla giovanissima sposa.
Anche sua zia Violeta non poteva sottrarsi.

Settembre 2011


L O G I C A P E R V E R S A

 

Venerdì, alla fine di una giornata in reparto, Maria Berica Piva salutò Andrea Fina,
il collega che si apprestava ad affrontare il turno di notte e si diresse verso
l’ascensore.
Sarebbe stata libera già dalle 20.00 ma aveva sostituito Andrea fino ad ora. Andrea
era capogruppo del consiglio comunale e Maribe, come la chiamano gli amici, era
stata ben felice di aver coperto quelle ore di servizio per due buoni motivi:
il primo perché Andrea oltre che collega era anche un caro amico, l’altro, perché
sarebbe stato più semplice dall’ospedale e non da Gambugliano dove abita,
raggiungere Padova.
Inserì la tessera magnetica riservata al personale del reparto di neurologia.
Questa misura di sicurezza era stata adottata da quando un paziente si era infilato
nell’ascensore eludendo la sorveglianza di infermieri e medici e, sceso fino
all’interrato, si era perso nel dedalo di corridoi che risalivano alla vecchia struttura
ospedaliera.
Il paziente era stato trovato in preda a una crisi di panico.
Con il leggero cigolio di sempre l’ascensore arriva e Maribe getta un ultimo
sguardo al reparto.
La sua figura snella si staglia tra la penombra del reparto addormentato e la luce
dell’ascensore.
Capelli e occhi neri, carnagione scura ereditati dal padre, il sorriso spontaneo e
accattivante dalla madre.
Un ultimo sguardo al reparto e preme il tasto del pianterreno.
Con passo veloce scende i pochi gradini che la separano dal garage sotterraneo,
preme il bottone del portachiavi dell’Audi e, la chiave ripiegata come un coltello a
serramanico, si sguaina pronta per essere inserita.
Qualche volta le è capitato di fare e rifare quella mossa per il solo piacere di sentire
quello scatto sotto le dita!
Apre la portiera e getta lo zaino sul sedile.
Sale in macchina e poggia la mano destra sul cambio.
E’ in simbiosi con la sua macchina, una Audi TT nera.
Le piace moltissimo l’assetto di guida di quel piccolo bolide, il cambio sportivo con
l’asta corta in alluminio e pelle nera.
L’orologio del cruscotto segna le 23.15; è ora di andare.
In pochi minuti arriva al casello autostradale di Vicenza Est.
Non imbocca la corsia per auto fornite di telepass, anche se la sua auto ne è
provvista.
Dopo le prime curve di accesso l’attenzione è meno viva perché il traffico è limitato.
E’ piacevole il regolare rombo del motore e il fruscio delle ruote sull’asfalto
nel silenzio della notte.
Il cruscotto illuminato le fa compagnia.
Trenta chilometri sono una distanza breve da coprire ma è un tempo lungo per i
ricordi.
Come una vecchia pellicola in bianco e nero si affollano pensieri ed emozioni
evocati da quel viaggio verso Padova.
Quante volte aveva percorso quella distanza!
Gli anni di università sembrano così lontani e sbiaditi, quasi non facessero parte del
suo passato.
Eppure li aveva vissuti intensamente, innamorata del corso di laurea in medicina e di
Claudio.
E anche dopo dieci anni dalla laurea, ogni giorno, nel contatto con la sofferenza e la
fragilità umana continuava ad amare la sua professione.
Claudio era invece sparito, travolto dalla passione per Flora, la bella, ricca e
assolutamente vuota figlia del primario di ortopedia della clinica universitaria.
La chiamavano l’oca giuliva.
Era laureata in Psicologia ed era convinta di poter conoscere per questo le persone
meglio di qualsiasi altro.
Con Claudio perlomeno aveva funzionato.
Maribe, scorpione com’era, aveva chiuso definitivamente con entrambi e con gli
amici che ruotavano intorno a loro.
Fine della storia.
La paura dell’abbandono la conosceva bene, era stata una compagnia abituale per
molto tempo, l’eredità che Claudio le aveva lasciato.
Quella paura che sostituisce il ragionamento all’istinto, che non ti permette di fidarti
di nessun uomo quando dice “ti amo”.
Aveva preferito confidare sul rapporto di amicizia e riversare in esso aspettative più
realistiche.
Poi quella telefonata. “Maribe sono Flora, ho bisogno di parlarti.
Tu e io abbiamo gli stessi ricordi…”
Maribe si era alzata dalla poltrona, aveva girato intorno alla scrivania ed era andata
a chiudere la porta dello studio. La sua mascella si era contratta fino a farle male.
“No Flora. Tu e io non abbiamo gli stessi ricordi, non abbiamo niente in comune tu e
io, non so perché mi stai chiamando e non mi interessa saperlo. Dieci anni sono un
tempo sufficientemente lungo per dimenticare qualsiasi cosa e tu e Claudio siete
sepolti sotto la cenere del mio oblio da lunga pezza.”
Nessuna risposta dall’altra parte del filo solo un pianto sommesso che la sensibilità
di Maribe non seppe ignorare.
Un lungo silenzio e poi “Accidenti a te, e parla per Dio!
Si sentì una rumorosa soffiata di naso e poi Flora con la voce roca:
“Claudio ha un tumore al cervello, un astrocitoma. Non è operabile perché è troppo
esteso; comprime il chiasma ottico e gran parte del lobo temporale. E’ quasi cieco, ha dolori violentissimi e soffre terribilmente. Non è più autonomo e rifiuta di vedere chiunque lo conosca, anche me.
Sa di avere qualche mese al massimo di vita e che ogni giorno sarà peggiore del
precedente. Lo spaventa di più il degrado fisico e la perdita di autonomia che lo priva della sua dignità che della morte stessa. Sono disperata. Gli stessi ricordi ho detto, i ricordi di Claudio com’era, tu e io lo abbiamo conosciuto bene e possiamo capire la tragedia della sua solitudine. Mi ha chiesto di aiutarlo a morire. Al mio rifiuto si è preso la testa tra le mani e tra le lacrime di un pianto sconsolato mi ha detto “Sono l’uomo dal fiore in bocca” e mi ha pregato di lasciarlo solo. Da allora si rifiuta di vedermi.”
Astrocitoma. Un tumore benigno del cervello che porta comunque a morte.
Avevo visto altri casi e sapevo il calvario dei pazienti affetti da questa forma
tumorale che pur essendo benigna perché non metastatizza, è essere talmente
espansivo da creare una condizione di sofferenza cerebrale progressiva.
La morte di aree sempre più vaste del cervello con la compromissione e perdita delle
funzioni legate alle zone colpite fino alla morte.
E Claudio, si definisce l’uomo dal fiore in bocca, l’uomo solo con la sofferenza
mortale che nessuno può capire e condividere.
Pirandello nella sua novella era riuscito a trasmettere così bene al lettore lo stato
d’animo del protagonista condannato da un cancro in bocca, il fiore per l’appunto.
Perché Maribe non riesce a ricordare cosa provò quella sera e le sere successive alla
telefonata di Flora?
Ricorda chiaramente come si era sentita quando decise di andare a Padova.
All’uscita del casello di Padova ovest si arriva in corso Australia e proseguendo
verso la stazione il traffico si fa via via più intenso.
C’è ancora molta vita nella città universitaria nonostante l’ora. Aveva sempre
confrontato Vicenza e Padova anche sotto questo aspetto.
Vicenza provinciale da sempre dopo le dieci di sera sembrava una città sottoposta al
coprifuoco e così i Comuni limitrofi.
Passeggiare per le vie deserte offriva il piacere di ammirare le bellezze della città
berica respirando la stessa aria degli antichi abitatori che secoli prima avevano
segnato con i loro passi le viuzze del centro storico lastricate in sampietrini.
Maribe si sentiva provinciale come la sua città ed era felice di questa dimensione
che ancora Vicenza conservava.
Via Falloppio e poi l’ospedale.
Le cliniche universitarie sulla sinistra e il vecchio ospedale sulla destra.
Parcheggia e scende dalla macchina.
Ha ancora il camice e dalla tasca destra spunta il fonendoscopio.
E’ un medico in servizio, sembra.
L’ospedale lo conosce bene.
L’ascensore per il sesto piano non ha bisogno delle tessera magnetica. Non incontra
nessuno e si avvia lungo il corridoio.
Al sesto piano ci sono solo pazienti di riguardo, camere singole e patologie diverse.
Dall’operato di appendicectomia all’infartuato dimesso dalla terapia intensiva, al
dirigente d’azienda per il check up annuale.
Entra in reparto e all’azzurra luce soffusa dalle lampade notturne legge dal tabellone
il nome dei pazienti e il numero della stanza.
Castaman Claudio numero 12
Claudio sarà sicuramente sedato pensa, e poggia la mano sulla maniglia della porta
nnumero 12 senza esitazione.
Claudio dorme, l’ago infisso nella vena del braccio, la flebo che scende a goccia
lenta.
Il viso è in ombra.
Un velo di barba sul volto.
Maribe estrae la siringa dalla tasca del camice, contiene cinque cc. di cloruro di
potassio.
Il cloruro di potassio non è rintracciabile in un’eventuale autopsia, nessun mezzo
anche il più moderno di indagine lo avrebbe rilevato. Non è un veleno nè un farmaco
bensì un prodotto organico presente nell’organismo.
Immesso direttamente in circolo l’effetto è letale quasi istantaneamente.
Arresto cardiaco.
Infila l’ago nel deflussore e spinge lo stantuffo con calma e determinazione.
Da quel sonno Claudio non si sarebbe più svegliato.
Non avrebbe sofferto il degrado fisico e psichico che tanto temeva.
L’uomo dal fiore in bocca dormiva sereno per sempre.
Un bacio soffiato sul palmo della mano perché giunga fino a lui e lo accompagni.
Poi il ritorno.
Gambugliano dove abita, è un paese di ottocento anime, accovacciato su di una
collina a otto chilometri da Vicenza; case tipiche venete con grandi portici e stalle
ora quasi tutte ristrutturate.
Contrade di case affiancate su tre lati che danno nella tipica “corte” comune e
qualche villetta di recente costruzione.
Quasi tutti gli abitanti del paese sono nati qui.
Le contrade portano il nome di famiglie antiche e nell’elenco del telefono cognome
e via spesso coincidono.
La sua casa si trova in via Belvedere ed è proprio un belvedere da lassù.
Maribe arriva e apre il cancello con il telecomando.
La casa è buia e silenziosa
Vive sola, nella casa che era dei suoi genitori e prima ancora dei suoi nonni, sola
con il suo cane.
Una femmina presa al canile di Marola.
E’ difficile definirne le razze che via via si sono incrociate per dar luogo a quella
bastardina.
Tutti dicono che è brutta e goffa perché ha le zampe storte, quasi un semicerchio
peloso.
Maribe l’ha chiamata Gioia perché è con gioia che la saluta scodinzolando quando
torna stanca dall’Ospedale e, quegli occhi un po’ acquosi e troppo sporgenti che la
guardano con adorazione, sono per Maribel unici, più belli di quelli del più bel cane
di razza.
Non entra in garage, lascia la macchina nel viale d’accesso.
Gira intorno all’edificio di mattoni rossi e si ferma sul davanti, sotto il portico.
Grandi vasi di terracotta accolgono piante di limoni cariche di frutta.
Erano l’orgoglio della sua mamma.
Limoni grandi come cedri, gialli come il sole della loro terra d’origine.
Finalmente si siede. La comoda poltrona in midollino l’accoglie quasi materna.
Poggia la borsa sulle ginocchia e senza guardare fruga all’interno.
Il suo sguardo indugia sul panorama fino a quando la mano trova il portasigarette.
Non deve cercare l’accendino perché è sempre li, sul tavolo ovale insieme al
portacenere.
Fumare fa male e un medico come lei lo sa bene.
Ma nessuno è perfetto, ripete quando glielo fanno notare.
Accende la sigaretta e lentamente aspira; trattiene un po’ il fumo e lo osserva salire
verso l’alto come fosse la prima volta.
Poi l’attenzione è tutta rivolta al panorama, il fumare diventa meccanico.
Il panorama lo conosce bene, è nata qui. Suo padre era il medico condotto di tre
paesini Gambugliano, Monteviale e Sovizzo che si erano consorziati per potersi
permettere un medico condotto che all’epoca veniva stipendiato dal comune.
Questa notte le sembra di vedere qualcosa di diverso, qualcosa che le era sempre
sfuggito.
La luce è strana, l’estate caldissima quest’anno, lo sbalzo termico di questi giorni,
l’ora particolare, il cielo nuvoloso o la luna al suo ultimo quarto?
La città in basso è un’enorme caleidoscopio.
Giochi d’ombre e di colore; il buio della notte e le insegne luminose, lampioni lungo
le strade e fari nella notte.
La sigaretta è finita. La stanchezza l’assale.
Dormire è il bisogno più urgente.
Prima di infilarsi nel letto ingoia una capsula di Stilnox; è la prima volta che ricorre a
un sonnifero.
Si sveglia intontita e confusa.
Getta uno sguardo all’orologio e si accorge di aver dormito per dodici ore.
Si alza va in bagno e poi con un gran bicchiere d’acqua ingoia un’altra pillola di
sonnifero.
Quando si risveglia sono le sette del mattino della domenica.
Apre la porta finestra che da sul giardino.
L’aria entra frizzante e un brivido le scende lungo la schiena.
Durante la notte la pioggia è caduta copiosa e nell’aria tersa brillano alla luce del
primo sole gocce ancora sospese come pensieri non ben definiti.
Il caldo è stato davvero notevole quest’anno e l’estate sembrava non aver fine.
Anche in ospedale il disagio delle giornate afose si era fatto sentire a dispetto
dell’impianto di condizionamento.
La pioggia di questa notte è stata una benedizione per la terra arsa e per gli uomini
esausti.
L’aria è intrisa dell’odore di terra bagnata, un odore che alle narici di chi è nato in
campagna, diventa profumo e promessa di raccolto.
Ma la sua mente è avvolta in una nebbia lattiginosa dove i pensieri si perdono, si
dilatano e si comprimono.
Con uno sforzo si allontana dalla finestra per infilarsi quasi meccanicamente sotto la
doccia.
Il getto tiepido dell’acqua l’avvolge in una nuvola di goccioline sottili che le sfiorano appena la pelle.
Aumenta il flusso d’acqua aprendo al massimo il miscelatore.
Ora il getto l’investe come una sassaiola che le toglie il fiato bagnando anche le più
alte, piccole tessere a mosaico color glicine, che rivestono la parete.
Indugia a lungo immobile, come un corpo senza vita che non percepisce
alcun fenomeno esterno.
Squilla il telefono e come per incanto la sua mano si solleva da lungo i fianchi per
chiudere il flusso d’acqua.
Tutta gocciolante si affretta a rispondere.
E’ Carlo suo fratello. “Arrivo tra poco prepara il caffè che alle brioche ci penso io”
E’ strano, Carlo che arriva a quell’ora e di domenica per giunta.
Carlo è pediatra e ha scelto di esercitare la sua professione sul territorio piuttosto
che in ospedale.
E’ pediatra di base come nostro padre era stato medico condotto.
Ha appena compiuto quarantatre anni, tre più di Maribe, è sposato ha un figlio di sei
anni e abita ed esercita nel comune di Creazzo, a soli cinque chilometri da
Gambugliano.
Si nota subito che sono fratelli, solo il colore degli occhi è di un bruno più chiaro, il
fisico atletico di chi ha giocato a basket per anni e che ora ama la bicicletta come
sport e come mezzo di locomozione quando gli è possibile, contribuisce sicuramente
a mantenere la sua forma invidiabile.
Non c’è tempo per asciugarsi i capelli e Maribe senza curarsi delle impronte bagnate
che lasciano i suoi piedi nudi sul pavimento , corre in camera a vestirsi.
Raccoglie i capelli lunghi e neri in un’unica treccia, l’avvolge in un asciugamano e
la fissa con un elastico.
Un paio di pantaloni e una maglietta, i sandali di cuoio naturale e poi in cucina a
preparare la caffettiera e le tazze.
Uno sguardo al suo volto riflesso sul vetro della grande finestra la fa trasalire: ha un
aspetto orribile.
Si precipita in bagno e si passa un leggero filo di terra sul viso, un po’ di correttore
sotto gli occhi, una sfumata di fard sugli zigomi, il rimmel sulle ciglia e per finire
una goccia di profumo.
Carlo suona il campanello mentre sta uscendo dal bagno.
“Ciao sorellina profumi di Samsara come sempre, non hai dormito? Ti vedo stanca
sei troppo buona e troppo attaccata al lavoro e in ospedale ti sfruttano. Perché non apriamo un ambulatorio insieme, tu e io faremo grandi cose credi a me.”
“Ok, ok, non ne parliamo più come al solito, continua a farti il culo. Ho una sorella
masochista che ci posso fare?
Lo sguardo di Maribe al fratello è stato eloquente.
Il profumo che esce dal sacchetto delle brioche fa prendere coscienza a Maribe di
non toccare cibo da più di ventiquattro ore. “Mi vedi un po’ strana perché ho
dormito tantissimo e non ci sono abituata, e non ho mangiato nulla. Tu arrivi di domenica a quest’ora con le brioche, piuttosto dimmi che diavolo succede.”
“Mangia quella alla crema, è squisita, beviamo il caffè e chiacchieriamo un po’,
avevo voglia di vederti.”
Non è solo questo il motivo della visita pensa Maribe e aspetta che Carlo si decida a
parlare.
Quando lo fa, Maribe ha la tazzina del caffè in mano.
“Claudio è morto ieri notte in ospedale a Padova ,volevo essere io a dirtelo.”
Maribe abbassa lo sguardo sulla tazzina, aveva dimenticato di averla tra le mani.
Pencola pericolosamente.
Un piccolo lago nero chiuso tra le sponde troppo strette di porcellana.
Ne rovescia un po’ sul piattino e sorseggia quel che resta nella tazza.
Il sapore è disgustoso ma forse è l’amaro che ha in bocca che prevale.
I suoi occhi, quando incontrano quelli del fratello, sembrano pozze d’acqua dopo il
temporale.
Superfici liquide che riflettono solamente; la profondità non è percepibile.
Le sue labbra si muovono senza articolare parola, il cuore le batte all’impazzata.
Si alza e dice “Mi dispiace molto, sarà dura per i genitori e per la moglie.
Ti ringrazio di essere venuto. E’ stato comunque una persona che ha fatto parte della
mia vita.”
Carlo risponde e una smorfia amara compare sul suo viso.
“La moglie addolorata, questa sì che è bella. Lo sfigato è Claudio ad averla sposata,
con tutte le corna che gli ha messo! E adesso morire in un modo così assurdo!
Porca miseria, ma è possibile morire di arresto cardiaco dopo un banale intervento di
ernia inguinale?
Da non crederci. Mi ricorda Fausto Coppi morto di malaria non riconosciuta,
dicono. In ospedale è meglio arrivarci da illustre sconosciuto. E Claudio, aiuto primario di una prestigiosa clinica universitaria, muore da solo, durante la notte, al sesto piano del monoblocco nel “braccio dei vip”. Non farmi dire altro altrimenti mi rovino lo stomaco!”
Si abbracciano, un bacio sulla guancia e poi Carlo se ne va salendo sulla bici
continuando ad agitare la mano in segno di ulteriore saluto.
Come anestetizzata Maribe si risiede in cucina.
Mille pensieri le affollano la mente, nessun pensiero compiuto.
I pensieri prendono forma, si insinuano come bisturi arroventati nel suo cervello,
tentano di imboccare la strada della logica.
Li allontana, li disperde con rabbia.
Li costringe a vagabondare come pipistrelli ai quali ha strappato il sistema radar.
Tenta di creare tra loro e la logica una barriera.
La logica, sì la logica.
Pronta come sempre a mettere ordine, a fornire risposte.
E dopo la logica la coscienza davanti alla quale Maribe non ha possibilità di fuga.
Vorrebbe tanto sfuggire alla coscienza: e questa un’esperienza nuova alla quale non
è preparata.
Molte persone acquisisco notevole abilità in questo gioco sottile, a loro non serve
nessuno sforzo.
I pensieri scomodi scivolavo naturalmente in un percorso alternativo dove la
coscienza è al servizio della logica abilmente manipolata.
Ora ricorda chiaramente come si è sentita quando decise di recarsi a Padova.
Dopo il conflitto che l’aveva dilaniata, lei che aveva sempre condannato l’eutanasia,
che lottava ogni giorno per la vita, ora era pronta a tradire il giuramento di Ippocrate
per Claudio, l’unico uomo che avesse amato, la dignità nella morte, come
negargliela? Flora lo aveva abbandonato alla sua disperazione, solo lei poteva
aiutarlo.
Eutanasia, la mia logica. E la coscienza lo aveva accettato. E la logica comincia a far ordine nei suoi pensieri.
E l’astrocitoma inoperabile, la cecità e le sofferenze di Claudio, l’uomo dal fiore in
bocca, la disperazione di Flora? Perché Flora aveva telefonato proprio a lei?
La logica ha messo ordine e la coscienza è lapidaria.
“Io sono stata la mano assassina di Flora”.


Araba fenice

 

L’ultima volta, l’ ultima sera dell’anno passata insieme, era bello vedere
coppie che parlavano, ridevano, ballavano aspettando la mezzanotte.
Tristissimo per me.
Quando abbiamo condiviso l’attesa di un nuovo anno insieme, gioiosamente?
Così lontano nel tempo… la memoria non mi sorregge.
Io, scontato orpello da esibire, suggello di un’unione che bisogna
mantenere.
Nemmeno un barlume dell’amore di quando giovani innamorati sfidammo il mondo, quando il tuo respiro si confondeva con il mio e miei occhi si perdevano nei tuoi.
Altri occhi ora si specchiano nell’azzurro che mi fu tanto caro.
Perduta la calda intimità dell’abbraccio allo scoccare della mezzanotte,
promessa feconda per il nuovo anno.
Quel gesto antico e nuovo che racconta sensazioni, emozioni, sentimenti e amore, che dà senso al nostro esistere.
Per te pura formalità, dove la vicinanza fisica dell’abbraccio comunicava
un’incolmabile distanza.
Oggi è il mio compleanno…
Per Dio com’è possibile?
Perché non posso essere dentro a questo corpo che la mia anima, la mia
mente si rifiutano di accettare?
Il tempo è il tempo che mi sfugge, che mi manca per riempire il vuoto
che pian piano mi hai scavato dentro.
Guardo i mie tanti, inutili compleanni passati con te, nell’attesa di
ritrovarci loro passavano inesorabili e, impietosi, oggi mi guardano.
Cercare l’altra metà?
L’altra metà è dentro di noi, il dramma è che non lo sappiamo, non
riusciamo ad accettare la nostra incompletezza che è la sola completezza
possibile.
Quante sofferenze ci sarebbero risparmiate, quante energie usate
inutilmente che potremmo rivolgere al possibile se non cercassimo sempre
l’impossibile.
Eppure questa realtà che la vita ci sbatte continuamente in faccia, il cuore
fatica a fare sua.Quando ci riesce è solo per qualche attimo, piccolissimo attimo consolatorio, per lenire il dolore di una perdita, per l’ abbandono
affettivo di chi ti sta accanto e ti strazia l’anima e il cuore.
Il bisogno di lasciarmi investire senza cercare protezione da emozioni e
sensazioni, lasciarle poi riposare e riprenderle, riposare e riprenderle…
Le ritrovo, le rivivo, le cerco.
Il passato diventa presente, un attimo e ieri ritorna con le tue parole di
allora:
“Mi manchi, è stata una limpida, calda giornata e il sole, il sole non mi scaldava, mi mancava l’aria, mi mancavi tu…”
Il dolore del ricordo mi strazia, è il mio modo per non perdere nulla, per ricordare e restare quella che sono.
Vivere di contrasti, di contrapposizioni, di gioie e di dolori, la bellezza di
un’alba che fuga la notte più nera dove l’anima era sprofondata e provare a
credere ancora.
E’ difficile, molto difficile, è doloroso quando le emozioni sono sale sulle
ferite del cuore, ma sono mie e, come un figlio imperfetto, continuo ad
amarle.
Il tempo ormai è andato, l’amarezza per quello che ti sarebbe costato poco
e che non mi hai più dato, non trova ragione.
Ripercorro con la mente la mia, la nostra vita.
Un solo piccolo, piccolissimo momento di tenerezza, un caldo abbraccio
dove non fossero solamente due corpi, ma due cuori, due anime che si
incontravano sarebbe bastato per farmi restare.
Perché, perché non l’hai fatto?
Quante volte questa domanda ha martellato la mia mente incredula?
Il tuo silenzio, fredda, lapidaria risposta.
E poi il dolore del tradimento.
Forse è la perdita di valore che viviamo dentro di noi a farci tanto male,
per non aver ” più valore” in chi ostinatamente continuiamo ad amare.
Un pensiero di Kahilil Gibran, in una notte di sconforto mi tornò alla memoria
“Si deve avere un amico invisibile a cui parlare nelle ore silenziose della notte…“
Ed è nato da un sogno il mio Guerriero Gentile, l’amico invisibile.
Ogni notte lo aspetto, ogni notte mi ascolta e non si tedia del mio parlare,
non mi nascondo dietro le parole e il suo ascoltare è inesprimibile
conforto.
E’ un sogno; forse che il sogno non è esso stesso la realtà in cui
viviamo nella notte?
E’ forse meno effimera è la realtà del giorno?
Quanto ho sperato, quante volte ho cercato di trovare in te almeno una
piccola parte del mio sogno, quanti anni vissuti vuoti con te, mi sarebbe
bastato un attimo, un breve attimo di quel sogno da vivere con te e sarei
stata felice, e il ricordo di quell’attimo, mi sarebbe bastato.
Era chiedere troppo? Era troppo quel poco?
Quel poco sarebbe stato il mio tutto e ancora ti avrei nel mio cuore.
Oggi è il mio compleanno…
Mi sono fatta il regalo più bello…
Ho trovato il coraggio di osare, o almeno ci sto tentando, per non essere
mai più persona sfondo, vivendo la mia vita all’ombra di qualcuno, o
peggio ancora, all’ombra di me stessa.
Ho smesso di farmi domande, non mi interessano più le tue risposte.
Pugni chiusi le mie mani, bianche le nocche nell’assurdo tentativo di
trattenere speranze, falsificatrici di una realtà che il mio cuore non voleva,
o non poteva ancora accettare.
Avvolti in un velo di impalpabile tristezza, scivolano tra le dita come
sabbia sulla rena ricordi lontani, cadono senza rumore, si confondono con
milioni di granelli su questa spiaggia straniera al tuo cuore.
Fantasmi senza vita si dissolvono nel vento.
Una solitudine senza malinconia dove sensi di colpa e rimpianti non
troveranno dimora, dalle ceneri sono rinata.
Io esisto ed esisterò senza di te, Io Araba Fenice.