Aurelio Zucchi - Poesie

A mia madre

Se il tempo la smettesse
di ricordarmi la tua assenza,
avrei più tempo di vederti qui,
in carne ed ossa,
fianco a fianco.

Infilerei le curve del tuo viso,
riempirei i solchi della tua vecchiaia
e toccherei i cieli di quegli anni
come accadeva sempre
quando tu mi sorridevi.

Da questa età che avanza
ti guardo e ti riguardo ancora.
Mi frusta a sangue, oggi,
la smania d’afferrarti tutta
ma… neanche un lembo del vestito a fiori!

Se il tempo iniziasse
a fare rotta in quel passato,
avrei più tempo di rivederti lì,
in carne ed ossa,
fianco a fianco.

Se mi desse finalmente retta,
raschierei i miei errori
come quando, alla lavagna,
cancellavo i nomi dei cattivi
quando entrava la maestra.

(Tratta da “Appena finirà di piovere” edito da Global Press Italia 06/2010, prefazione di Angela Ambrosoli – Testo premiato al “Premio Firenze” 2008 – Pubblicata nell’Antologia “Quando la poesia diventa vita”)

 

 

 

Che stupido!

Viaggiando nei sentieri dell’anima, mai mi accorgo delle azzurre distese ai bordi.
Che stupido!

(Aforisma mai pubblicato su cartaceo, presente in Web)

 

 

 

Futuro

il sole estrae
orme di primavera –
é già futuro

(Haiku mai pubblicato su cartaceo, presente in Web)

 

 

 

Se puoi

Se puoi,
rimani ancora addormentata
tra le assordanti note
che il fiato dei tuoi anni
emette sull’altare della tua bellezza.
Ai miei cresciuti occhi io chiedo
i tuoi capelli e un tuo sorriso
e torno indietro lesto
a incorniciare panorami azzurri.
Al tuo risveglio muto,
vorrei poter spiare piano
le nuove fantasie di donna
e lo sbadiglio che accarezza il giorno.

Se puoi,
rimani ancora accoccolata
al primo gioco della vita,
sfiora il tuo domani con clandestina idea
e non fissare il vuoto oltre il cancello.
Io intanto misuro la mia maschera
e ritento il mio passato.
Poi mi assale un pianto di protesta
e sciupo tutto, anche una chimera.
Ridestami al suono delle tue parole,
ritemprami all’acqua della giovinezza
e dimmi pure che non è peccato
cercare l’eco della tua musica.

(Tratta dal mio primo romanzo “Viaggio in V classe” pubblicato da Edizioni Il Filo, prefazione di Pietro Zullino – Tratta da “Appena finirà di piovere” edito da Global Press Italia, prefazione di Angela Ambrosoli)

 

 

 

I platani non se ne accorsero

Mano d’alba talentuosa
dipinse nuovissime luci
su larghe chiome assonnate
di platani assai infreddoliti.

Avevano il respiro quieto
di chi si aspetta l’abbraccio del sole.

Ed era già mattino quando
silenzi e fruscii di brezza
colmarono da subito i vuoti
tra un tronco e l’altro ancora brinosi.

Fu, quella, tenera solitudine
fino al primo grido d’arrotino.

Poi si sentì un gran vocio
di bimbi o forse loro madri,
il netto profumo di brioche,
il fragore di una saracinesca.

I platani non se ne accorsero,
calde ormai erano le foglie.

(Poesia mai pubblicata su cartaceo, presente in Web)

 

 

 

La mia vita

È virgola che il periodo spezza.
Lo amplia con cura, lo articola al meglio
finché nel punto il pensier non si esprima.

È sfogo di fonte che rivolo trova.
Lo plasma, lo accresce, lo affida alla terra
finché nel letto fiume diventa.
È acqua che l’alveo abbandona.
Lo estende, lo abiura nel tacito accordo
finché nel suo delta mescola idea

e, confusa, muore nella vita del mare…

(Tratta da “Appena finirà di piovere” edito da Global Press Italia 06/2010, prefazione di Angela Ambrosoli – Pubblicata sul Mensile Il Saggio 10/2017)

 

 

Il tempo che rimane

L’ortolano,
il salumiere,
la fòrmica della mia cucina,
la terrazza,
il porto sotto,
il cortile,
vetri rotti ed io che gioco.

Le canzoni sempre uguali,
la fisarmonica di Gianni,
le note che ho imparato,
un re minore ed io che canto.

Il primo pesce all’amo,
l’Alighieri sul divano ocra,
il piede rotto sulla spiaggia,
un nuovo amico ed io che parlo.

Il mare in mano,
la cabina 23,
un metro per volare,
il fiato trattenuto,
lei zitta ed io che amo.

Capelli neri,
un abbaino,
i fantasmi inventati,
la pelle sua sulle mie gambe
uno scalino ed io che sogno.

La casa si svuota,
mia madre vacilla,
il treno parte in fretta,
Roma aspetta ed io che penso.

Il tempo che rimane
cattura le curve di ieri.
Le stringe in un anello
dentro il quale io vivo.

(Tratta dal mio primo romanzo “Viaggio in V classe” pubblicato da Edizioni Il Filo, prefazione di Pietro Zullino.)

 

 

La luna si piega

La luna si piega
sulle mie tristezze.

Le guarda,
le sfiora
e poi…
le tocca.

Bianco notte
diventa lo stupore.

In specchi benigni
mi rivedo tutto,
sdraiato
su uno dei suoi spigoli.

(Tratta da “Appena finirà di piovere” edito da Global Press Italia 06/2010, prefazione di Angela Ambrosoli – Pubblicata sul Mensile “Il Saggio” 10/2012)

 

 

 

Nei silenzi di un pensiero fragile

Ancora non so
se qualcosa mi manca,
quel tenero fremito
donato da quella voce,
quei piccolissimi spazi
nei quali fluiva
il narrarci della vita.

Ancora non so
se rincorro le attese
per un giardino non del tutto esplorato.
Domani, mi dico,
sarà di nuovo buio
ma, puntuale, l’eco rifiata
nei silenzi di un pensiero fragile
capace però di destarmi.

Chissà dove sei, cosa fai…

(Poesia mai pubblicata su cartaceo, presente in Web)

 

 

Niente fretta, Auré!

Mi sveglia! Il rumore del cassonetto mi sveglia. Rovescia benessere scartato. Peccato, avrei voluto completarlo, il mio sogno!
***
Come tanto tempo fa, me ne stavo in precario equilibrio sullo scoglio nero, quello a forma di piramide tronca, di fronte la cucina di Rocco. Ci salivo spesso, un po’ per farmi vedere da ragazze dormienti sui massi arroventati e, tanto, per l’effetto magia che provavo. Da quel punto, infatti, era sempre uno spasso guardare i colori di certi pesci che venivano fino a terra per mangiucchiare. E splendidi, da lì, erano i tetti bassi dell’antico borgo marinaro, specchiati a pastello sul letto d’acqua e sale. Scavate sui muri bacucchi, le finestre irregolari per forma e dimensione, a guardarle, contribuivano a farmi provare un ingenuo senso di novità. Visto dal mare, il passaggio dei turisti che si dinoccolavano per i vicoli di Chianalea mi faceva respirare l’aria festaiola delle domeniche d’agosto scillese. Insomma, un punto d’osservazione ideale.
Poi, acrobata provetto, pietra dopo pietra saltai le timide onde lunghe verso riva e mi ritrovai su scalini grattati dall’afa.
«Hai fame?» domandò Peppe.
Non era cambiato. La pelle cioccolato fondente, gli stessi solchi sulla fronte altera, i calli di sempre nelle mani piene dei tagli di lenze assassine. Gustai con calma, la stessa di quando mi trovavo in quel luogo, pane di grano con l’alalonga sott’olio e una pioggia di olive salate. Salvo e Andrea, i figli del pescatore, mi guardavano con l’aria di chi sembra invidiarti. Ai loro piedi nudi, cento ami erano tutti da fissare ai corti braccioli di un conzo. Luccicavano come curve d’argento sul grigio dei gradini bucati in più parti.
«I ragazzi non mangiano?» chiesi al mio amico.
«Quando avranno fame…» replicò Peppe.
Arrivò il tramonto, puntuale e tiepido. La Nina era pronta, svogliata ed accalappiata a una bitta arrugginita. Avevo con me la lenza a mano regalatami dal pescatore e un cono di carta da pane, riempito a metà di gamberi puzzolenti. Qualche energico colpo di remi fu sufficiente per ritrovarmi nel mezzo di Marina Grande e non riuscivo a capire perché si indugiasse a calare l’ancora. Peppe perdeva tempo a fissare l’acqua, prima di qua e poi di là. Ma, io penso ancora, il mare non è lo stesso, sia a destra che a sinistra della barca?
«Guarda questa cicatrice sul polso. Una volta, nel punto dove siamo adesso, tirai su una murena».
Era felice ed io con lui. I silenzi della sera non mettevano paura, anzi. Quella pace aiutava a riconoscermi nei miei anni. Ero un povero ragazzo ricco di vita. Poche lire, niente abiti griffati, paghetta zero e tanti sogni da fare, disfare e rifare.
«Non c’è niente. Questo mare oggi è una vasca da bagno!» dissi a Peppe.
«Niente fretta, Auré! Aspetta…» mi rispose a bassa voce.
Ripetutamente tirai su i miei tre ami da quattordici ma… neanche un mazzo di posidonia incontrata per errore. Lui, intanto, nel ventre della barca rovesciava donzelle e saraghi, tordi e gronchi, diletto e pacatezza. Finalmente il filo vibrò tra le mie dita come corda di chitarra rock:
«Deve essere grosso, Peppe!»
«Portalo su piano piano. Calma e gesso, Auré».
«Guarda questa cicatrice sul polso. Una volta, nel punto dove siamo adesso, tirai su una murena».
Era felice ed io con lui. I silenzi della sera non mettevano paura, anzi. Quella pace aiutava a riconoscermi nei miei anni. Ero un povero ragazzo ricco di vita. Poche lire, niente abiti griffati, paghetta zero e tanti sogni da fare, disfare e rifare.
«Non c’è niente. Questo mare oggi è una vasca da bagno!» dissi a Peppe.
«Niente fretta, Auré! Aspetta…» mi rispose a bassa voce.

***
Maledetto cassonetto! Ora, davanti al mio caffè fumante, cerco disperatamente di inventarmelo, quel pesce. Passa un minuto e le guance si beano come ogni mattina del passaggio fluido del bilama. La cravatta multicolor sollecita il solito nodo perfetto. Il PC è da spegnere da ieri sera. Corro incontro all’ennesima giornata del lavoro redditizio, dei pretesti per consumare la vita, dei nuovi lampi del progresso. Bello sarà il mio futuro ma solo se staccherò il presente. Magnifico il mio passato e necessaria la mia gioventù, ma solo se la nostalgia arriva sonnambula e mai malinconia opprimente.
Il sogno di stanotte – l’avrò fatto all’alba di questo giorno nuovo – canta l’inno del normale. L’ordinario senso della vita oggi è ingarbugliato com’era ieri il filo della mia lenza, allorquando l’ammassavo sul fianco della Nina.

(Racconto breve pubblicato dal quotidiano “E Polis Roma” in data 07/05/2007 e sulla testata giornalistica on line www.quicalabria.it)