Cinzia Vanetti - Poesie e Racconti

MAMMINA CARA

 

Se sapessi usare il pennello ti farei un ritratto,

mammina cara.

Che gioia sarebbe veder riapparir su la tela 

l’incantevole sorriso degli anni tuoi più belli,

il tuo sorriso da attrice! 

Se sapessi usare il pennello ti dipingerei con labbra carnose

e zigomi di pesca

come in quella vecchia  foto che ti  ritrae

bella,

come la Bergman in: “Addio alle armi”,

regale,

come Grace Kelly in: “La ragazza di campagna”:

stessa fronte alta, stesso portamento,

elegante ma mai altezzoso,

il portamento di una vera Signora.

Con la divisa da operaia e il foulard sulla testa,

a protezione della rituale messa in piega, 

ti bastava sorridere

per apparire DIVINA ai me occhi di bambina.

Se il pennello non  so proprio usare,

mammina cara,

giocando con le parole,

attingendo alle immagini di te che conservo nel cuore, 

ti ho dipinta ugualmente

ed è così che, da ora,

ti voglio ricordare: sorridente e regale. 


MadreFiglia

 

Su un piedistallo

mi hai posata,

Madre,

appena son nata.

Dal mio primo giorno

al tuo ultimo giorno

mi hai guardata 

come si guarda una Dea.  

Da lì sono scesa tante volte,

per consolarti.

In quei momenti,

rammentando  

che ero solo una bambina,

mi stringevi così forte!

Mi baciavi,

mi lavavi di lacrime,

mi asciugavi con le mani aperte,

carezze pesanti che mi ridavano

la forza di essere la tua Dea.

Me ne tornavo, buonina,

sul piedistallo,

da lì, se non altro,

potevo guardarti negli occhi

da pari a pari,

potevamo scambiarci i ruoli,

io la madre, tu la figlia.

Ti sei messa nelle mie piccole mani

tante di quelle volte

dolce Madre!

Hai cercato di trattenere

le mie dita di adolescente 

ribelle. 

Finalmente mi hai lasciata

andare e ho potuto

levar le braccia al cielo,

rivendicare libertà,

per me,

per te, 

per tutte.

Madre a mia volta,

mi sono messa nelle tue grandi mani

tante di quelle volte,

dolce Madre,

per poter essere quella che,

alla mia nascita,

avevi deciso  sarei stata:

una madre Dea.


L’Enrico

 

Mio Padre è come un padre deve essere.

Se sfoglio velocemente le pagine della mia vita, 

come si fa con un libro alla ricerca di un biglietto 

che si è certi avervi nascosto,

mi appare costantemente la sua figura;

la focalizzo e l’accomuno a quella dell’ angelo custode

di cui mi parlavano le mie suorine all’asilo.

Ste benedette pagine le faccio passare lentamente,

alla ricerca dei ricordi di un padre e di sua figlia e

scelgo il più poetico, mi vedo sulla barca, lui ai remi, 

mio fratello e il nostro cane accucciati accanto.

Si era d’estate, di domenica, di mattina presto.

Navigavamo dolcemente il nostro amato lago

ed io  guardavo rapita il giovane gioviale volto dell’Enrico

appena trentenne, affascinata dalla potenza delle sue braccia,

consapevole di condividere la sua devozione al lago

e la perfetta gioia di quei momenti. 

Mi vedo accanto a lui, al pianoforte o con la “fisa” imbracciata,

intenta ad ascoltare e a sognare un mondo di musica e di armonia.

Dall’Enrico, via via, ho ricevuto: 

carezze, cartoline dalla Grecia e dai Caraibi, regali esotici,

dischi, libri, idee, ideali 

e il pugno alzato contro le ingiustizie.

Da mio padre ho imparato a vedere il bicchiere mezzo pieno

e ad amare il prossimo.

Egli è come un padre deve essere,

voglio che lo sappia da vivo.


ANCHE SE FA MALE

E’ bastato uno sguardo e siamo precipitati 

in questo amore che ci divora come una malattia.

La passione è musica 

e ci costringe a ballare un tango argentino, 

il ritmo è quello di due cuori che battono uno sull’altro.

La passione è un’altalena che ci fa salire in paradiso

e scendere all’inferno.

E’ bastato uno sguardo e io non sono più io

e tu non sei più tu,

ma questa fusione  brucia e ci annienta.  

La passione è un’onda che ci travolge

e si ritira lasciandoci storditi, 

due naufraghi alla stessa deriva.

La passione è un salto nel vuoto 

che solo l’incoscienza ci fa fare ma  

adesso tu sei qui davanti agli occhi miei,

ti guardo e penso che impazzirei,

impazzirei se tu, invece di abbracciarmi,

mi dicessi che vuoi lasciarmi.

Ti accolgo tra le braccia e riprendo a respirare, 

pretendo il tuo amore anche se  fa male.


BALLA CON ME

 

Balla con me, bella, ti prego, balla con me

la vita è un tango

ti stringerò e poi ti lascerò andare

sarai tu a tornare da me, se vorrai.

 

Balla con me, bella ti prego, balla con me

la vita è un valzer

ti farò girare fino a farti uscire 

tutto il male.

 

Balla con me bella, ti prego, balla con me

la vita è un rock acrobatico

sfida i tuoi limiti e

s a l t a !

Stai certa che non ti farò cadere.


BIMBO MIO

 

Bimbo mio, ti ho amato da quando eri solo la voglia di averti,

bimbo mio sei l’incantesimo che non si spezzerà mai.

 

Bimbo mio, sei la promessa di un’alba di luce, 

di un mattino di gioia, 

bimbo mio sei l’incantesimo che non si spezzerà mai.

 

Bimbo mio, sto per darti al mondo e per dare il mondo a te,

bimbo mio sei l’incantesimo che non si spezzerà mai.


MANI DI DONNA

 

Mani che si divertono a scompigliarti i capelli,

mani intente ad accarezzarti mentre dormi,

mani pronte ad asciugare le tue lacrime,

mani che impastano pani antichi,

mani che tessono teli con  fibre e colori generati dalla terra,

mani che ricamano, fili di luce diventano figure,

mani che colgono fiori e li compongono in vasi dipinti da mani,

mani che intrecciano ornamenti per celebrare la bellezza,

mani che disegnano aquiloni e farfalle,

mani che tremano di fronte alla violenza, 

mani chiuse a pugno per dire basta al dolore,

mani giunte per pregare contro il male,

mani alzate per inneggiare alla vita,

mani che agguantano la tua tristezza e la trascinano via,

mani di DONNA. 

 


METAMORFOSI

Come una madre premurosa 

la neve copre le spalle del monte e canta 

 

canta la sua nenia che dà voce al silenzio

con sussurri e bisbigli

 

bisbigli che egli ascolta rapito

stanco di essere spigolosa e dura pietra.  

 

Pietra, dura geometria di creste frastagliate

intente a strappare gli orli di nubi fuggenti 

 

fuggenti l’asprezza delle cime 

che più non si staglia all’orizzonte

 

orizzonte dove egli ora risalta 

come magico specchio 

 

specchio che riflette il bianco della valle

e raddoppia il suo candore

 

candore che si fa luce 

  

luce che, ora attratta, ora respinta, 

in un ping-pong di palle argentate  

 

argentate come lame  

 

ferisce i nostri sguardi ormai arresi alla purezza,

alla dolcezza, al silenzio. 


TI CHIEDI MAI 

Ti chiedi mai se stai andando nella giusta direzione?

Se non hai ancora una meta oggi hai me,

me che spargo sassolini per farmi seguire da te,

con la paura di girarmi e non vederti.

 

Questo amore fa paura come un’onda gigantesca, 

come una tempesta di vento, 

fa promesse troppo grandi per essere mantenute. 

 

Ti viene mai voglia di toglierti la maschera che indossi?

Se non lo hai mai fatto levala  per me, 

per me che sto scalando in verticale 

la parete che mi separa da te.

 

Questo amore ha paura del buio, 

ti chiederà di dormire nel tuo letto ma prima o poi,

una mattina, ti sveglierai da sola e penserai 

che non avresti dovuto amarmi tanto intensamente

con l’anima, con il sesso e con la mente.


SONO MADRE

Il mio destino di donna si è compiuto, 

sono madre.

 

Ho la forza, immensa, di un albero radicato nella terra, 

sono madre.

 

Una nenia continua di scongiuri sovrasta i miei pensieri, 

sono madre.

 

L’amore per mio  figlio mi fa amare tutti i figli, amo tutti, 

sono madre.


 

21 MARZO 2020 IN QUARANTENA

 

E’ primavera, svegliatevi bambine…

cantava mia nonna Gemma

ogni  primo giorno di primavera .

Strofa di una nota canzone: ”Mattinate fiorentine”,

Le  era rimasta impressa, come capita con certi motivetti, 

che ti legano per sempre ad un avvenimento

all’accader del quale riaffiorano magicamente.

Donna allegra e goliardica, negli anni in cui impazzava

era poco più che ventenne ma già provata dalla vita, 

come tutti in quegli anni del resto.

Aveva, la nonna, una grande forza interiore 

che la costringeva a vedere il bicchiere mezzo pieno comunque.

E’ primavera, svegliatevi bambine… 

canticchiavano ogni 21 marzo le sue labbra di allora e, da allora, le mie.

Nel ventunesimo giorno, del terzo mese di questo anno bisesto, 

per pregiudizio condannato ad essere funesto, 

la mente riesuma il motivetto ma non lo impone alle labbra.

Rimane lì, appeso, il suo significato svuotato dalla quarantena.

Mi costringo a vedere il bicchier mezzo pieno, come faceva la nonna.

Il prossimo 21 marzo canterò a squarciagola: E’ primavera, svegliatevi bambine!


8 MARZO

 

L’8 marzo  non è ancora la data della sola festa 

ma sempre anche quella della ricorrenza. 

Perché? 

Perché il giallo della mimosa 

è ancora macchiato dal rosso e dal viola.

Le donne amano ricevere rose rosse e tuffare il naso

nei loro petali profumati. 

Troppe donne  ricevono solo macchie,

rosse del loro sangue rappreso.

Le donne amano il viola, è un colore aristocratico, 

le fa sentire eleganti. 

Troppe donne vestono il viola

di infiniti lividi sovrapposti e malcelati.   

Ma il colore che più fa paura alle donne

è quello dell’indifferenza, l’ ocra grigio verde vomito

degli occhi di chi i lividi li vede ma vigliaccamente tace.  

Le donne sono madri, figlie, sorelle di quell’uomo, 

quello che offende, picchia e uccide; si difendono l’un l’altra? 

Non sempre ci riescono, non sempre ci provano.

Avevo una compagna di scuola con lo stesso mio nome: Cinzia.

Lei era riuscita a svestire i lividi, 

era tornata a dormire nel suo letto di ragazza. 

L’ ex marito ha sparato al suo bel volto, 

ne ha frantumato il sorriso che si faceva beffe di lui

Nel PALAZZO DI GIUSTZIA giacciono fotografie,

di macchie rosse del suo sangue rappreso. 

Il giallo della mimosa sarà mai l’unico colore simbolo dell’8 marzo?      


La Casa del forno

 

Come una dolce cantilena mi ritorna la tua voce, 

Nonna,

che descrive l’incanto dei tuoi monti, 

che narra la tua infanzia spesa a rimirarli.

Mi vedo,

bambina,

con gli occhi spalancati intenta ad ascoltarti.

“Sono nata nella casa del forno, scura!

Solo il fuoco nella bocca del pane, 

le braci sempre accese a rischiarare una stanzetta con poche panche, 

la madia chiusa, le chiavi nella tasca del grembiale dell’Ava, 

un tavolaccio e…..niente.

Avevo sempre fame, avevo spesso freddo

ma la mattina andando a scuola, zoccoli ai pedi, 

in spalla la sacchetta di cotone col sillabario, la matita, 

un pezzo di pane nero e un pugno di castagne secche,

ammiravo i monti intorno e la valle e il fiume fino a Morbegno,

davanti a un tale incanto mi sentivo una regina.

D’estate il mio povero padre mi portava con lui

in Val Zebrù con le vacche,

la strada percorsa con gli zoccoli legati con una corta

e buttati sulla spalla.

Erba verde! Torrenti d’acqua pura! Aria fina! 

Il latte, il burro e il formaggio mi facevano,

finalmente, rotondetta,

la vita salubre, il sole, la felicità pennellavano le mie gote!

A tredici anni mi hanno portato via! 

Mi hanno strappato ai miei cari monti!

Mi hanno chiuso nello stabilimento dove ho lavorato quarant’anni! 

Ho avuto ancora prati, 

vedi d’estate, 

gelati di brina o di neve d’inverno, 

da percorrere per andare e tornare dal lavoro ma

niente più monti, niente più aria fina, solo ricordi e tanta nostalgia.”   

Siamo tornate tante volte insieme fra i tuoi monti, 

cara Nonna,

hai cotto per me il pane e la focaccia dolce 

nella casa del forno, 

l’ultima volta ti ho accompagnata 

nel piccolo cimitero della contrada.

Nonnina cara tu non sai 

che sono venuta a vivere nel tuo paese e, 

ad ogni risveglio, 

ammiro i monti intorno e la valle e il fiume fino a Morbegno:

davanti un tale incanto mi sento una regina.   


UN’AMICA

 

La risata che mi riscalda il cuore,

il sorriso che sconfigge le distanze,

la mano tesa ad indicare una strada da percorrere insieme, 

lo sguardo complice di chi interpreta la vita allo stesso mio modo.

Questo sei tu per me, 

un’amica.


IN MEMORIA DI ROBERTA

 

 

Pensate a me odorando una rosa appena sbocciata,

pensate a me ammirando una perla di rugiada posata su una primula giallodorata,

pensate a me inseguendo con lo sguardo una nuvola bianca che cavalca un cielo terso,

terso come quello di questo settembre che mi ha visto volare via, 

che mi ha visto lasciare l’impronta di un tenero bacio sulle guance di chi mi ha tanto amato,

sulle guance di chi eternamente amerò.


CONSUELO

 

Ho incontrato una ragazza che ha domato il suo respiro.

Ho incontrato una ragazza che tiene per le briglie le sue corde vocali.

Voce, movimenti ritmici e sorrisi,

trasfusi sulla tela ove si sta componendo il meraviglioso dipinto della sua vita,

fanno intravvedere di Lei  la figura di una donna armoniosa

con il cuore tappezzato di  spartiti.

Ho incontrato una ragazza che sparge la gioia.

Ho incontrato una ragazza, il suo nome è  Consuelo,

Ella si è guadagnata un posto speciale anche nel mio cuore.


LA SANTINA



Un veloce sguardo allo specchio e Marta è pronta per uscire. Non ha bisogno di soffermarsi sulla sua immagine, sa di essere accettabile  e curata. La sua vita si svolge secondo un rituale fatto di attenzioni per se stessa e per tutto ciò che la circonda, soprattutto per le persone che la  incrociano anche casualmente e che ricevono da lei un trattamento sempre speciale. Marta ha settantadue anni ma non si sente vecchia, non ha rimpianti e ama affermare che non tornerebbe indietro neanche di un giorno. Ha passato la vita accudendo e lavorando, lavorando e accudendo.
Nata in una famiglia contadina, prima di sette figli, già da bambina badava ai suoi fratelli che ricambiavano le sue attenzioni con sorrisi  sdentati e sguardi colmi di affetto. Marta era una bambina di buon animo, con un portamento eretto ma non altezzoso, sempre pronta a farsi avanti e a fare la sua parte senza, anzi, addirittura  prima che le venisse chiesto. Le persone che le stavano intorno si accorgevano di questa sua predisposizione al bene tanto che in paese l’avevano soprannominata: “ La Santina ”. Marta sentiva di suscitare negli altri sentimenti di benevolenza e cresceva restituendo l’amore che riceveva senza rendersi conto che era da lei che partiva.
Le suppellettili della sua casa contadina erano quelle essenziali: una grande stufa per scaldarsi e cucinare, un tavolo con le panche intorno, la madia per le stoviglie e le provviste, un lavandino di pietra con i secchi per l’acqua che si prendeva dal pozzo nel cortile. La mamma le aveva infuso, con i suoi gesti quotidiani che lei fin da piccolissima osservava e imitava, una grande propensione per l’ordine e la pulizia che considerava il punto di partenza per una vita dignitosa. Marta la guardava consumarsi le mani lavando e sgrassando le loro povere cose e i suoi figli e la mamma, sentendo i suoi occhi addosso, le diceva orgogliosa e convinta che loro erano sì poveri, ma puliti come i signori.  
Marta aveva frequentato la scuola fino alla quinta elementare e in qualche modo; si sa che anni son stati quelli fra il ’43 e il ’48, fra la guerra e il dopo guerra, ma intelligente e diligente com’era aveva imparato bene a scrivere, a leggere e a fare di conto.  A quattordici anni era entrata alla Filanda: dieci ore di lavoro in un ambiente umido e rumoroso. Lei non badava all’ambiente e alla fatica, si sentiva forte e, soprattutto, amava le compagne, anche la Lina che aveva sempre il broncio ma poi Marta la contagiava con il suo buon umore e tra  loro si facevano confidenze, gran risate e si divertivano nonostante tutto.
A diciassette anni l’incontro con l’amore della sua vita. Alla festa del paese i giovanotti si sfidavano all’albero della cuccagna, un palo sporco di grasso in cima al quale venivano legati salumi e prosciutti. Mario veniva da un paese vicino ed era considerato un gran bel fusto. Aveva messo gli occhi addosso a Marta e vinto la cuccagna per far colpo su di lei. Si erano sposati dopo circa un anno e  trasferiti nel milanese dove avevano trovato lavoro in fabbrica, Mario in fonderia e Marta in tessitura. Vivevano in un piccolo appartamento di una casa di ringhiera come quelle della via Gluck di Celentano. Marta oggi pensa spesso a quegli anni, quei vent’anni tra il ’55 e il ’75 vissuti tanto intensamente da essere volati via in un soffio. Ricorda quanto era innamorata di suo marito, tanto da coprirlo di attenzioni che lui riceveva senza accorgersi di quanto le costassero. Si alzava sempre per prima in nome dell’ordine e della pulizia e gli faceva trovare pronti la colazione e il pranzo da portare in fabbrica. Dopo il lavoro correva a casa a preparare una cenetta speciale e cercava in tutti i modi di renderlo felice. Ma Mario era ombroso, irascibile, spesso rincasava tardi, si sedeva a tavola senza scusarsi e mangiava senza notare quanta cura lei ci avesse messo nel cucinare. Marta invece di arrabbiarsi cercava in tutti i modi di fargli passare il malumore, gli si sedeva in braccio e lo riempiva di bacini finché lui finalmente la sollevava e la portava a letto. Nel ’57 era nato Paolo  e Marta aveva pensato che doveva stringere al petto suo figlio per sapere cosa fosse la felicità: amore assoluto, gioia infinita! Adesso c’era suo figlio prima di tutto e di tutti. Mario riceveva le attenzioni di sempre ma se rientrava di cattivo umore e trovava Marta troppo impegnata col bambino per dedicarsi a lui, sentendosi trascurato, si metteva a sbraitare. Le prime volte lei lo guardava con gli occhi colmi di stupore, non riusciva a capire come lui potesse sentirsi estraneo all’appagamento che lei provava per avere un figlio, una famiglia. Poi aveva preso ad escogitare dei piccoli trucchi per fargli sbollire il malumore. Aspettava alla finestra di vederlo arrivare, gli andava incontro sulle scale e gli metteva il bambino a cavalluccio sulle spalle. Qualche volta preparava una torta e gli diceva di invitare i suoi amici a bere un bicchiere.
Non avevano ancora l’automobile e la lavatrice ma nel 61’, con l’avvento degli acquisti a rate, si erano comprati  la televisione e la sera, almeno nei primi tempi, le cose erano andate meglio.
Nel ’61 era arrivata anche Laura, bella come il sole!
Fabbrica, casa, marito brontolone, figli, compiti, “Mamma dammi..”, “Mamma fammi…”,  “Mamma, mamma, mamma….”
A Marta sembrava di essere salita su una giostra che girava troppo velocemente ma era orgogliosa e appagata perché faceva la sua parte fino in fondo. Voleva essere soprattutto un esempio per i suoi figli, come lo era stata sua madre per lei.
Nel ’75 cambia tutto: Mario muore per uno stupido incidente, forse a causa della nebbia; in fabbrica inizia la ristrutturazione e a Marta prospettano il part-time invece del licenziamento; Paolo inizia a frequentare le manifestazioni studentesche e Laura in prima liceo, i collettivi femministi.
Mario se ne era andato e lei aveva pianto tutte le sue lacrime. Aveva pianto per lui, per il padre dei suoi figli ma finite le lacrime si era resa conto di non aver perso l’altra metà della mela. Mario era stato suo marito ma non il suo compagno, aveva sempre dovuto tirarselo dietro, badare a lui come a una persona bisognosa di attenzioni e lo aveva fatto con tutto l’amore possibile.
Non era rimasta sola, era sempre stata l’unico adulto responsabile della famiglia e poi doveva pensare ai ragazzi.
Paolo avrebbe voluto lasciare l’università e trovarsi un lavoro ma Marta pretendeva per i suoi figli una vita diversa da quella della fabbrica.
Fortunatamente nel ’76 trova lavoro in una portineria in centro a Milano dove, oltre ad avere un piccolo stipendio e l’alloggio, può fare le pulizie negli appartamenti del condominio e sbarcare il lunario.
I suoi condomini le dicevano che era nata per fare la portinaia: discreta, disponibile, sempre sorridente e tanto, tanto pulita. Lei ricambiava la stima con mille attenzioni per tutti. Si faceva pagare per le pulizie negli appartamenti ma mai per le piccole commissioni  e per i piccoli favori che si offriva di fare. Preparava la merenda in portineria per i bambini che rientravano prima dei genitori e insieme a Paolo e Laura li aiutava a finire i compiti. Le faceva piacere vedere quei bambini intorno al suo tavolo mescolati ai suoi ragazzi ormai cresciuti. Le ricordava la cucina della sua infanzia, il grande tavolo con intorno più bambini che adulti. 

Marta era molto orgogliosa per come erano venuti su Paolo e Laura. Avevano voglia di cambiare il mondo i suoi figli! Parlavano di ideali, di emancipazione, di giustizia sociale. Facevano parte del movimento studentesco e Paolo per un periodo aveva frequentato un gruppo di estrema sinistra ma presto se ne era staccato perché non voleva sentir parlare di lotta armata; non era un estremista e non tollerava il fatto che alle riunioni girassero gli spinelli. Nel ‘78 aveva preso la laurea,  trovato lavoro e, innamoratosi di Giulia, era andato a conviverci. Laura invece aveva finito nell’85 e, dopo aver riempito la testa a Marta con i suoi progetti di ragazza emancipata che sarebbe andata andare a vivere da sola, avrebbe girato il mondo e non avrebbe mai fatto la serva a nessuno (intendendo con questo che sua madre invece aveva sempre fatto la serva a tutti!) era caduta come una pera cotta tra le braccia del suo Lucio col quale aveva messo su casa e fatto tre figli uno dietro l’altro. Lucio per fortuna era  un marito emancipato e faceva tutto insieme a Laura, tranne stirare.
Nel ‘ 91 Marta, a cinquantaquattro anni compiuti,  avendo lavorato quarant’anni va in pensione!
Così  lasciata la portineria e lasciata Milano torna in Veneto dai suoi genitori. E’  sola, in pensione, i suoi figli hanno le loro famiglie e gli altri nonni per aiutarli con i bambini, tocca a lei, la figlia più grande, occuparsi dei suoi anziani genitori. Marta prova un’infinita tenerezza nel riabbracciarli! Lui, che ha sempre parlato poco e preferibilmente solo con sguardi e  cenni del capo, ormai è quasi sordo e molto magro, con le braccia nodose come rami e le mani enormi sformate dal lavoro. Lei, con quel suo particolare sguardo di cane buono e l’enorme seno ormai appiattito sullo stomaco, è costretta sulla sedia a rotelle dal diabete che se la sta divorando.

Nel 2009 Marta è di nuovo a Milano  ed è , finalmente è padrona del suo tempo. Non riesce a crederci e se lo continua a ripetere: ”Son padrona del mio tempo!
Vive sola in un piccolo appartamento arredato con allegria e semplicità. E’ andata all’IKEA con sua nipote Alice, vent’anni, figlia di Laura,  che ha scoperto essere una ragazza sensata e piena di buon gusto: “ Basta che sia semplice! Hai ragione tu nonna, anche a me piacciono le cose sobrie come le chiami tu!”
Vede i figli, vede i nipoti ma ormai ha una sola persona di cui occuparsi: se stessa e lo fa con lo stesso piacere con cui si è sempre presa cura di tutti. La cosa che più ama fare, dopo aver riordinato la sua linda casa e aver organizzato il pranzo per se sola o per qualcuno dei suoi di passaggio, è andare ai giardinetti di fronte a casa e mettersi su una panchina al sole, al sole tiepido di questa primavera del 2010 in cui ci siamo incontrate e in cui mi ha raccontato la storia che state leggendo, e lavorare a maglia. Lavorare a maglia le è sempre piaciuto ma una volta poteva farlo solo tra un’incombenza e l’altra: “Finisco un ferro e vado! Ancora due giri e poi pianto lì”. Adesso può lavorare in pace, godersi il sole e osservare la gente. Anche questo ama fare, ama osservare l’umanità che le vive accanto e la osserva non per criticare o per deridere o per giudicare, no! Affatto! La osserva e riflette sul senso della vita.
Lei un senso alla sua vita aveva cercato di darlo subito quando, inconsapevolmente, da bambina aveva scelto di essere lei la prima a tendere la mano agli altri ed era quasi sempre stata ricambiata. Il solo da cui si era inutilmente aspettata di esserlo totalmente, era stato proprio Mario ma, forse, se non fosse morto giovane, se non avessero avuto solo quei vent’anni da passare insieme, le cose avrebbero potuto cambiare, forse! 
La mattina i giardinetti dove si reca Marta sono frequentati da anziani come lei (Come? Lei non si sente affatto anziana!) e anche più vecchi. Alcuni di aspetto curato e ancora vitali  sembrano anch’essi godere del loro tempo e della primavera, altri si trascinano da una panchina all’altra lamentandosi perché al sole fa troppo caldo e all’ombra fa troppo freddo. Marta sorride a tutti e lavora. Ci sono anche  mamme e nonne con la carrozzina o il passeggino e bimbi molto piccoli. Alcune mamme fumano stando attente a tenere la sigaretta lontana dalla carrozzina che, pur sedute, continuano a spingere avanti e indietro per non svegliare il piccolo e  intanto tentano di leggere o di parlare al cellulare. Le nonne in genere prendono su i pargoli per farli baciare dal sole e se li trastullano tra le braccia, avranno tutto il tempo per leggere il giornale o fare altro dopo averli riconsegnati alle madri. Ogni tanto suona un cellulare a una nonna e questa va in panico. Sarà la figlia o la nuora che vuol sapere del piccolo ma è dura tenere un bambino in braccio e frugare in una borsa strapiena!
Nel primo pomeriggio arrivano le badanti. Sono signore dell’Est: ucraine, moldave, polacche,  lavorano nei palazzi intorno e hanno la libera uscita dalle quattordici alle sedici. Si siedono su panchine vicine o sul muretto intorno alla fontana e chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano. Marta non capisce la loro lingua ma intuisce che non si raccontano la loro quotidianità di badanti a Milano ma che parlano della loro vita vera, quella che si svolge nei loro lontani Paesi  dove tornano uno, due, massimo tre mesi l’anno, dove hanno lasciato madri, sorelle, mariti e, soprattutto, dove hanno lasciato i figli. Queste madri hanno dovuto scegliere di lasciare i figli per poterli aiutare ad avere una vita dignitosa e, non potendo abbracciarli, parlano di loro, parlano di loro e guardano le loro fotografie. Mangiano anche, cioccolatini e pasticcini che si offrono reciprocamente. Sono tutte un po’ cicciottelle.
Marta le osserva con infinita  misericordia.
Queste esuli volontarie la fanno pensare ad uno stormo di cicogne migratrici che ha trovato uno stagno dove stordire la solitudine e diluire la nostalgia.
Marta riprende il lavoro a maglia, osserva, riflette. Si rende conto di aver iniziato una nuova vita, quella della così detta terza età, ed è sicura che la sua esistenza si intreccerà con quella di altri esseri umani ai quali, se necessario, non mancherà di tendere la mano come ha sempre fatto, come è giusto fare per dare un senso alla  vita.


LA PAURA DI ANNA

 

Anna se ne sta sotto la trapunta, quella rosa a fiorellini azzurri che le ha regalato la nonna. Ha messo lo zaino gonfio di libri sopra lo sgabello che le fa da comodino e con la trapunta ha creato una specie di tenda, il suo rifugio. Ha acceso la sua luce cambia colore fatta a palla, comprata dai cinesi, ma se ne sta con gli occhi chiusi, strizzati, con gli indici infilati nelle orecchie e le manine a pugno premute contro la testa per non sentire e, in effetti,  principalmente sente un rumore che le viene da dentro, quello del suo cuore che batte all’impazzata. Nella loro stanza in fondo al corridoio mamma e papà si stanno rovesciando addosso un fiume di parole per cui Anna non riesce ad isolarsi completamente e vorrebbe urlare loro di smettere ma già un’altra volta si era trovata fuori dalla loro camera chiusa a chiave e lì era rimasta, impietrita, con i denti che le battevano e, solo al sentire il rumore della chiave che aveva preso a girare nella toppa, si era riscossa ed era corsa in camera a rifugiarsi sotto le coperte.  Anche questa volta il silenzio finalmente giunge dopo un rumore di porte sbattute all’interno e il tonfo del portoncino di casa chiuso con veemenza dall’esterno. Anna riapre gli occhi e libera le orecchie ma rimane nel suo rifugio trapunta , accarezza la sua luce palla cambia colore e distende le gambe che teneva premute contro il petto. Sa che nessuno la cercherà , ne suo padre che è quello che è uscito sbattendo la porta, ne sua madre che, buttata sul letto a pancia in giù, sta aspettando di calmarsi e forse anche di sentir rientrare il marito. Anna non si capacita di come possano credere che lei stia dormendo, pensano forse che sia sorda?

I genitori di Anna sono persone normali e normalmente si preoccupano per lei, a volte anche troppo. Si preoccupano che abbia tutto quello che le serve e, in effetti, Anna ha molto di più che questo e si agitano se la vedono imbronciata per qualche malinteso con gli amichetti, per qualche problemuccio a scuola. La rassicurano sovente rammentandole che a loro può dire tutto, le ripetono spesso che il mondo intorno può essere cattivo, che deve stare attenta a certe persone che potrebbero volerle far del male. La mamma di Anna fa un lavoro che, a suo dire, l’appaga, insegna inglese, e trova comunque il tempo per badare ad Anna che , otre alla scuola, ha diverse attività a riempirle il pomeriggio, fino al rientro a casa insieme a lei. Il papà di Anna è molto sportivo e fa l’architetto; anche lui comunque trova il tempo, soprattutto nei fine settimana, per stare con la sua “Principessa”. Normalmente quindi per Anna va tutto bene, si sente amata, accudita, sa di essere importante per i suoi  e, se interrogata a proposito, risponderebbe che sì, lei pensa di essere una bambina fortunata e felice. Ma, da qualche tempo, non si sente più al sicuro e sicura. I litigi fra i suoi genitori si possono ancora contare sulle dita di una mano ma stanno avvenendo in maniera sempre più ravvicinata. La prima volta Anna stava dormendo e si era svegliata di soprassalto ma il vociare si era interrotto al suo risveglio per cui aveva pensato di aver fatto un brutto sogno. L’aveva anche raccontato alla mamma il giorno dopo e lei le aveva confermato la sua ipotesi ma la velocità con cui aveva cambiato discorso l’aveva lasciata dubbiosa anche perché, di solito, la mamma la incoraggiava a raccontare i butti sogni per filo e per segno in modo, asseriva lei, di neutralizzarli. La seconda volta si era ritrovata a battere i denti fuori la porta della loro camera e le successive le aveva passate nel suo rifugio trapunta. L’amichetta preferita di Anna è Chiara, una sua compagna di scuola. Anna sa che i suoi genitori sono divorziati per cui lei vive con la mamma e in alcuni fine settimana sta con suo padre e la sua nuova compagna. Che stia per succedere la stessa cosa anche a lei? Anna è molto preoccupata a questo punto e si decide a chiedere a Chiara se prima di separarsi anche i suoi litigavano. Chiara le risponde che sì, anche i suoi prima di separarsi litigavano, a volte anche in sua presenza. Fortunatamente si sono lasciati, asserisce Chiara, ora la mamma è tutta per lei anche se è probabile che un giorno si rifaccia una vita, è tanto giovane! Almeno è questo che le dice e che spera sua nonna materna. In merito a suo padre Chiara non confida molto ad Anna, se non che convive con la nuova compagna che lei mal sopporta in primis per  essere la ragione della separazione dei suoi e anche perché sente che quella è pure gelosa. “Ci puoi credere Anna? E’ lei gelosa di noi, di me e anche della mamma! No, proprio non la sopporto!” Anna è ancora più preoccupata e decide che se succederà di nuovo non si tapperà le orecchie e cercherà di capire per quale motivo i suoi non siano più mammina a papino teneri fra loro e con lei. La sera cerca di ritardare l’ora della nanna perché in sua presenza i due sembrano tranquilli ma non sereni, questo lei lo percepisce, e quando si corica fa fatica a prendere sonno. Preoccupata com’è non è ciarliera e allegra come di solito e, finalmente, i suoi si accorgono che c’è qualcosa che non va in lei. Ne parlano fra loro e, preoccupati anche perché se le domandano la ragione del suo musino triste lei si limita ad un’alzata di spalle (che, nell’intenzione di Anna starebbe a significare:” E me lo chiedete pure?”), si figurano chissà quali scenari. Alla buon ora interviene nonna Franca che, avuta qualche confidenza dalla figlia in merito ai dissapori con il marito, sospetta che Anna abbia ascoltato qualcosa che non avrebbe dovuto sentire. La nonna sa come prenderla, la tiene in grembo senza far domande, accarezzandola e raccontando ad Anna quello che pensa lei stia patendo ma come si trattasse di una confidenza di quanto accaduto anche a lei da piccina. A volte i genitori, le dice, anche se ti vogliono tanto bene, si chiudono come in una bolla e ti lasciano fuori. Tu non centri con i loro problemi e ti credono troppo piccola per capire. 

“E’ così Anna? Li hai sentiti litigare e hai avuto paura?” Finalmente Anna racconta tutto alla nonna che la rassicura, i suoi stanno passando un momento difficile, capita in tutti i matrimoni, le dice, ma tutto si sistemerà. Tra se e se la nonna però pensa: “Ma quanto sono scemi quei due? Ci potevano venir su che Anna li potesse  aver sentiti litigare. Urla e porte che sbattono, ma dimmi tu! Che incoscienti, hanno spaventato loro Anna e ora si vanno a figurare chissà quali problemi lei possa avere. Adesso mi sentono!” Redarguiti da nonna Franca i due inizialmente cadono dalle nuvole ma poi realizzano che sì, se Anna li ha sentiti litigare si deve essere stra spaventata. Di solito dorme come un ghiro, si giustificano, “Quella volta che si è svegliata e ha pensato ai aver fatto un brutto sogno me lo ha confidato”, dice la mamma, e la nonna: “Ma tu hai cambiato discorso, me lo ha detto lei, per cui si è insospettita e da quella volta avrà preso ad addormentarsi  senza abbandonarsi completamente. Poi è accaduto di nuovo per cui è ovvio che ora fatichi ad addormentarsi e si svegli anche solo per sentire che non state litigando. I bambini, Anna in particolare, sono molto sensibili ai cambiamenti d’umore, sentono e notano tutto anche se apparentemente sono impegnati a fare altro. Voi non vi parlate di giorno ma poi vi urlate la notte e lei non sa più cosa pensare”. 

Grazie all’intervento della nonna i genitori di Anna trovano il modo di rassicurarla e lei ritrova gradualmente  la serenità che aveva perso. Capita poi che la maestra assegni un tema dal titolo:” Hai mai avuto veramente paura? Di cosa? Dove?” Anna vorrebbe scrivere che la paura è dentro casa, è lì che lei ne ha avuta tanta. Fuori è tutto scandito da orari ed attività per cui non si è mai da soli, si fanno cose e non si pensa. Non ha proprio voglia però di scrivere  di quel che vorrebbe dimenticare e, in parte, ha già dimenticato, per cui descrive la sua paura degli insetti e racconta di quella volta che, a carnevale , un suo compagno le lanciò in testa un grosso ragno finto, le si era impigliato tra i capelli e lei aveva urlato come un’aquila.