Edo Cinfrignini - Poesie

CAPORETTO 24 OTTOBRE 1917

 

Senti un sibilo sopra la testa
ma non è il fischio del treno
che corre tra boschi e colline

non è quel viaggio sognato
per tornare tra i tuoi fiordalisi
azzurri compagni del grano di casa

e quel vento che soffia improvviso
non è fratello di quello ch’asciuga
le bianche lenzuola sui fili dell’aia

sei stanco ma armeggi correndo
quasi non senti lo scoppio tremendo
che ti cancella per sempre il sorriso

un uomo ferma muscoli e zappa
e d’improvviso guarda lontano
mentre la brocca cade di mano
della donna più dolce del mondo

non si sa come, ma l’hanno sentito
che tornerai in una cassa di legno
e sarà solo un sonno per sempre
ormai senza parole, senza risveglio

mentre s’oscura la luce d’intorno e
mamma…pronunci per l’ultima volta
in un soffio si rompe il tuo cuore pulito
come al vento fanno i rametti gelati.


IL PESO DELLE PAROLE

Come il fumo,
le male parole
sembra si perdano nel vento
invece si celano nella mente
a volte una grava come cento
gira e rievoca lo sdegno
perchè volando,
ha lasciato il segno.


 

IL TEMPO

 

Il tempo vola ma non ha le ali,

passa come un viandante ma non lo è,

corre e misura la nostra vita
segnandoci senza essere matita.

A volte è perso ma non smarrito

insegna molto quand’è vissuto

poi quando pensi d’aver capito

non lo hai più, perché è finito!


 

LA PANCHINA

Suona il pascolo in lontananza
e la panchina alpestre e solitaria
l’ascolta silente,

mentre sul suo vecchio legno

d’abete rosso si posano le storie.

Umane parole,

voci che si fermano solo un momento
che il vento mischia e porta via.

Testimone di segreti baci rubati,

di svaniti sogni e pure peccati
nulla dimentica e nulla racconta
la panchina,
non cede niente al folletto delle conifere
che di notte fa i dispetti e vuol sapere.

A ogni domani che viene

suona il pascolo in lontananza
e lei alpestre e solitaria
l’ascolta silente…


La vecchiaia

 

Poesia è tutta la vita nostra

che ogni giorno scrive nobili versi

e ogni età ne fa debita mostra

Siam dove canuta è la chioma

ma ove Geras regala sapienza

di cui nessuno può fare senza

e in mezzo a stupendo tramonto

anzi la scesa dell’inevitabile notte

in nuova alba, con fede facciamo conto


PROFUMO

 

Amaro è il profumo che sento stasera

sono note odorose che suonano tristi.

Doma gli altri sensi l’effluvio potente

come faceva la mirra sull’olfatto dei re.

La musica è lenta e le canzoni passate

ma continuo a ballare, lo faccio per me.


VERDE MELODIA

 

Conosco una musica

che accarezza le foglie del bosco,
sorvola i campi di grano e strizza l’occhio ai papaveri,
sgorga dalle antiche fontane e disseta le menti
L’ascolto da un pò …
e sono più sereno.


Il pajo bianco

 

Tira il voltorecchie, lento, il pajo bianco

la vacca del solco fatica senza lamento

l’altra l’aspetta solidale con passo stanco

sapendo che al ritorno sarà suo il tormento

 

s’apre la terra dura e s’appoggia alla sorella

mentre l’odore buono di menta calpestata

riempe le narici e rende vana la favella

così, regge la quiete d’una scena ch’è fatata

 

lo schiocco umido di lingua da un segnale

s’arresta con lentezza il procedere del trino

viene la tavola voltata col gesto sempre uguale

ch’è quello d’alzar  forte e infilare il palanchino

 

ora dopo la manovra col coltro ch’è sdraiato

le vacche allineate son pronte a nuovo solco

e basta un suono amico calmo e adeguato

per indurle alla movenza tutt’una col bifolco

 

così dalla mattina presto e fino al beverino

e poi ancora, e ancora, fin arrivare a sera

quando s’attacca il carro lasciato li vicino

ma per caricar le fronde è ancor fatica vera

dentro al primo buio, verso la stalla

avanza il biroccio colmo fino sulla bura

poi levato il grave giogo dalla spalla

il paio beve fiacco e avido acqua pura

 

di ritrovar il nuovo strame son bramose

le vacche spente che s’appressano alla greppia

per consumare l’odoroso fieno silenti e paciose

e tirar su dal rumine la masticata doppia

 

apre la vista sul bovile un mobile mattone

per veder le sdraiate muover bene la mascella

ora placido il colono può sedersi sul cantone

con bacco suo compagno e cantar una stornella

 

il tempo è troppo poco per riposar le ossa

saltellando sul comò la sveglia suona presto

il pajo indossa il giogo e parte a testa bassa

e arriva là sul campo ch’è ancora buio pesto

 

ora dopo una manovra col coltro rigirato

le vacche allineate son pronte a nuovo solco

e basta un suono amico calmo e adeguato

per indurle alla movenza tutt’una col bifolco.


 

DA UN PAESE IN BIANCO E NERO

La storia del vetro di gelo

 

La piazzetta del secondo forno è proprio sopra la gròtte più lunga del paese.

C’erano i pipistrelli, e quando con mio nonno si andava con la pànata a cavare il vino, bisognava fare piano altrimenti si agitavano e volavano, stridendo nel buio.

La gròtte aveva le scale strette e ripidissime e ai lati dei gradini c’erano le slitte che servivano per calare, con le corde le botti.

Ricordo la fatica che facevano per tirarle su quando dovevano lavarle, in autunno.

In mezzo alla piazzetta, nel periodo della vendemmia, il torchio di Pio stava fuori carico per giorni e come una sorgente ormai quasi secca, dava di rado una goccia.

C’era un intenso odore di venaccia.

È qui che la sera di un giorno caldissimo, forse per immaginare il fresco, Giovanni Valli mi raccontò la storia di Pitollo e il vetro di gelo.

Ciondolava la testa e rideva, mentre raccontava che Franco Pupo, detto simpaticamente Pitollo, vendette a Ferdinando Cerboni, soprannominato “Gambadilegno” che di mestiere faceva il commerciante e raccoglieva tutto ciò che era vendibile, del finissimo gelo abilmente recuperato da una pozzanghera, per vetro.

Scelta la pozzanghera giusta, con un coltello incise sopra il ghiaccio i lati di un quadrato, lo staccò piano piano e lo ripose con cura dentro un canestro.

Era un pomeriggio inoltrato di uno di quei giorni che la tramontana tagliava le orecchie e Franco con il canestro in mano attese con quella calma furba, ma insospettabile di vecchia volpe, che l’uomo fosse indaffarato per potergli far vedere da lontano il “vetro” che portava nel capagno.

Gambadilegno ci scherzò su e disse: mai visto portare vetri a ‘sto modo!

Si vede che non erano delicati come questo, disse Pitollo!

Vabbè, il tuo sarà più prezioso… appoggialo lì con gli altri e vieni qua che te lo pago a peso d’oro, disse ridendo Cerboni.

Pitollo, che aveva allora si e no dodici anni, sistemò con cura il pezzo di gelo tra i vetri e presi i pochi soldi in un pugno, si allontanò in fretta impaziente di poter raccontare la burla.

Fece subito tappa qui a casa nostra, racconta Giovanni, cercava Mario, mio figlio e suo amico inseparabile, discolo per mille.

Lo trovò e subito iniziò a confabulare con lui a bassa voce per non farmi sentire.

La mattina dopo capii tante cose, disse ridendo di gusto Giovanni.

Arrivato alla stalla trovo Gambadilegno che mi aspettava con il catenone da traino sulle spalle, quello che usavo per legare e cavare i ceppi alla macchia.

Tieni Giovà, mi disse ridendo, nascondilo bene ‘sta volta!

Perché gli dissi io!

E qui Giovanni faticava a continuare il racconto da quanto rideva.

Bello vedere quel volto scavato nel tempo dal lavoro e dagli stenti mentre si contraeva per poi rilassarsi, prima di continuare la storia, alla fine della sonora risata.

Perché è la seconda volta che me lo vende il tuo Mario e io te lo rimetto sempre qui dove lo tieni, disse Cerboni.

Scoppiammo a ridere tutti e due, ricorda Giovanni e mentre me lo racconta quasi quasi si commuove.

Ma non è finita disse: Gambadilegno mi raccontò che la sera prima, Pitollo gli aveva rifilato il falso vetro e poco dopo si era presentato Mario con il catenone, dicendogli che ce lo avevo mandato io e che questa volta era vero…

Evidentemente, disse Giovanni, per non essere da meno, Mario, una volta conosciuta la burla di Pitollo doveva anche lui guadagnare subito qualche soldo e cosi vendette un mio attrezzo ma quei due non potevano “fregare” facilmente Gambadilegno che si era sicuramente accorto che era gelo, molto prima di trovare l’acqua al posto del vetro.


DA UN PAESE IN BIANCO E NERO

L’accensione dei lampioni

 

E poi, nell’afa dell’agosto del 1977 Faiolo cambiò.

Ricordo nitidamente il momento del chiarore totale, della fotofobia che provai assieme all’eccitazione della novità.

Eravamo tanti a prendere il fresco fuori, tutto il paese più i villeggianti per lo più romani, proprietari delle seconde case che si riempivano nei mesi estivi.

C’era anche il Sindaco, Silvano Zagaglia.

Prima con una luce fioca poi piano piano più potente e chiara, i quaranta lampioni si accesero e Faiolo prese a correre euforico come un bambino alle prese con un nuovo gioco che non aveva mai visto, noncurante dell’ora tarda e della voce di richiamo della mamma o della nonna.

Ecco, presi dall’evento si crearono gruppetti che, come passando tra le mani i grani del rosario, toccavano i lampioni e percorrevano il perimetro illuminato dell’abitato e dell’appendice che porta alla fontana.

La disposizione dei corpi illuminanti ricorda davvero una corona nel tratto che va dalla fontana al bivio; la strada centrale con cinque lampioni, come nel rosario con cinque grani dalla croce al primo mistero, ovvero un Credo alla fontana e poi di seguito un Padre Nostro tre Ave Maria e ancora un Padre Nostro.

Non so spiegarmi quale sia la causa di questo accostamento, ma mi balenò subito in testa e da allora se penso alla disposizione delle luci penso alla corona del Rosario. Quella sera finì però l’incantesimo degli angoli semibui, del tremolare della luce con il vento, dei piatti bianchi smaltati tante volte bersaglio di fionde e archi.

Francesco non doveva più cambiare le lampadine e un orologio avrebbe acceso l’impianto al posto suo.

Faiolo con le vecchie luci assomigliava molto ai suoi fratelli paeselli visti nelle immagini in bianco e nero del film di Manfredi, Per grazia ricevuta, c’era la stessa devozione pure nelle nostre processioni, anche se qui è sempre mancato il miracolo, o evento presunto tale. Facemmo tardi quella sera a forza di camminare in tondo, più volte andammo tutti in gruppo, noi ragazzi a bere acqua fresca giù al lavatoio e anche nelle sere a seguire il gioco rimase quello fino a quando l’abitudine inevitabilmente spense lo stupore.