Federica Vignoli - Poesie

Appunti sulla felicità

La felicità…
Una farfalla inseguita da tutti.
O una perla sotto coltri di rassegnazione.
Una promessa svenduta su cartelloni luccicosi.

Ma la felicità non si insegue, si persegue.
Non è un dono, è una conquista.
Vuole la tua costante attenzione
ora dopo ora, minuto dopo minuto.

Non ti perdonerà nessuna distrazione.
Saprà come svelare i tuoi lati peggiori,
come ferirti e lasciarti agonizzante.

Ti prenderà in giro
verrà a sfiorarti, per poi fuggire via
come ragazza bella e diffidente
vorrà sapere a cosa sei disposto per lei.

E non potrai ingannarla mai
con lo sforzo di finger sorrisi.
Vuole la tua paura
pretende la tua ostinazione.

La felicità, quella vera, non luccica
è sporca di polvere e di sangue
è così forte che fa male
ti fa tremare le gambe e quasi non ci credi
che finalmente puoi piangere davvero.

 

 

 

Firenze sul ciglio dell’estate

Firenze di questa stagione è come una bella donna. Che ride. Coi capelli scompigliati e le spalline del vestito estivo che le cascano giù, coi piedi scalzi e i fianchi che si muovono al ritmo di musica peruviana, suonata a piazza Santa Maria Novella. E’ come quel vestito bianco, che fascia impunemente i fianchi, che si lascia illuminare da un sole scherzoso; è come quella pelle ambrata, fatta di curve aristocratiche e sfrontate… E’ come un uomo che vuole, quasi fare a pezzi, un’insopportabile eleganza, divorarla, sprigionarne esotici colori…
Datemi una sera di giugno a Firenze, datemi quell’aria tiepida, datemi il marmo bianco e nero che rallegra le chiese, datemi l’Arno che scorre scuro lungo i ponti, catturando scintille di luce.
E’ come essere al di sopra di ogni stanchezza, è come un regalo inaspettato, una festa a sorpresa, è come l’attimo quando riesci a coglierlo, tenerlo, fermarlo, gustarlo… e sei fuori dal tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Luna piena

Ti sai nato libero
ed i sogni ti infangano
perché il vecchio giaguaro non ti veda
fra i cespugli del campo.
Il vento ti socchiude lo sguardo
mentre annusi
la primavera spietata d’intorno;
un fremito veloce brilla
su ogni tuo tenero tendine.
E insieme alla lepre fuggir via
l’erba sotto i piedi;
insieme al falco la nube
diventar più grande;
con il tiglio abbandonarsi
al gorgo delle vette celesti…
Così scorge gli déi
la tua fiera inconsapevolezza,
fin nella notte,
fin nella solita luce di una luna piena…
Sottratto al mio abbraccio di sciocca madre
Mi guardi col capo alzato e mi domandi:
“Piena di cosa?”

 

 

 

Il Dottor Stripatocchi

Laura aveva tre anni, anzi, per la precisione tre anni e mezzo; suo fratello Luca, invece, aveva sette anni. Il divertimento preferito di Luca era fare i dispetti a Laura. Le strappava i giochi dalle mani, le tirava i capelli, faceva finta di darle un bacino poi le dava un morso, le dava gli schiaffi nel sedere quando faceva pipì, le spegneva la luce quando faceva la cacca, le nascondeva i suoi peluche preferiti…
Ma soprattutto Luca si divertiva un mondo a spaventarla sbucando fuori all’improvviso da dietro una porta o da dietro un angolo e ruggendo come una bestia feroce.
Laura ogni volta correva dalla mamma piangendo e col cuore che le batteva forte.
La mamma rimproverava Luca che però non la smetteva mai, anzi ogni giorno si inventava qualcosa di nuovo per tormentare la sorella.
Un giorno Luca si era addormentato sul divano e aveva lasciato sul tavolo, accanto ai quaderni per i compiti, il suo astuccio, aperto. Laura notò subito quella bella gomma colorata e profumata con cui lui non le permetteva mai di giocare. Piano piano la prese, l’annusò, ci giocherellò. Poi le venne una bellissima idea…
In punta di piedi si avvicinò a Luca e, molto delicatamente, gli passò più e più volte la gomma sulla bocca. E la bocca alla fine… sparì! Poi Laura se ne andò soddisfatta. “Così” pensò “non potrà più spaventarmi con tutti i suoi urli.”
Quando Luca si svegliò e si accorse che non poteva né sbadigliare, né parlare, si tastò il viso stupito… Non voleva credere alle sue stesse mani… Corse subito in bagno per guardarsi allo specchio e… era proprio vero! La sua bocca non c’era più! Non potè neppure urlare per esprimere tutta la paura che provava. Allora corse atterrito dalla mamma che si mise a ridere e disse:
«Te lo sei proprio meritato! E dovrai rassegnarti a startene così fino a che non torna a casa il sig. Stripatocchi.» Poi l’abbracciò, gli diede un bacio e si rimise a fare i suoi lavori. Ma cosa mai gli avrebbe fatto il sig. Stripatocchi? Quel loro strano vicino di casa, sempre vestito come uno spaventapasseri, sempre taciturno e svanito, sempre con una valigetta di legno appresso…?? Luca avrebbe tanto voluto domandarlo, ma non poteva così se ne stette tutto il pomeriggio a rimuginare. Forse era uno stregone capace di fargli ricomparire la bocca. E se non era bravo? E se gli avesse fatto comparire una bocca da maialino o da formichiere? E gli avrebbe fatto male? E quanto male? E se invece era un dottore? Gli avrebbe dato uno sciroppo alla fragola o gli avrebbe fatto una puntura? O forse dieci punture? “Ma se uscirò tutto intero da questa storia gliela farò pagare” pensava poi guardando torvo Laura che gironzolava tranquillamente per casa con aria soddisfatta… Finalmente si sentì arrivare il sig. Stripatocchi. La mamma lo andò a chiamare. Luca avrebbe tanto voluto scappare, ma pensò che se scappava non avrebbe più potuto riavere la sua bocca, così rimase. Il sig. Stripatocchi entrò, aveva i capelli un po’ scarmigliati, una lunga giacca nera e dei pantaloni verdi un po’ strappati su un ginocchio.
«Ah eccolo qui il mio paziente.» disse vedendo Luca «siediti pure qua.» Luca, bianco più del latte, si sedette. Stripatocchi posò sul tavolo la sua valigetta e l’aprì. Era piena zeppa di… colori! Colori di ogni genere e tipo, dentro barattolini, bottigliette e tubetti di ogni dimensione e forma. E poi pennelli! Piccoli, grandi, lunghi e corti…
«Mi occorrerà un pochino di tempo» disse Stripatocchi «dovrai avere pazienza e stare immobile, altrimenti ti verrà la bocca storta.» Luca non fu mai buono come quella volta.
Laura stette a guardare incantata dalla bravura del pittore, era anche un po’ dispiaciuta, però, perché sapeva che poi Luca avrebbe ricominciato a tormentarla. E infatti così fu, perché è così che i fratelli si vogliono bene. Però una cosa Luca non fece mai più: lasciare il suo astuccio sul tavolo, incustodito.

 

 

 

Pindi

In un nido accoccolato fra i rami di un grosso alloro, assieme a mamma Rege e a 4 fratelli, viveva un fringuellino di nome Pindi. Rege un tempo era una splendida uccellina, vivace e gioiosa, poi… Poi un cacciatore la ferì ad un’ala, togliendole per sempre la capacità di volare veloce e spedita. Inoltre il dolore e la rabbia che la tormentarono per giorni e giorni finirono con l’inaridirle anche l’anima, al punto che divenne muta. Nonostante tutto Rege continuò a vivere. Era abbastanza furba da restare al riparo dai predatori e da essere in grado di nutrirsi. In un tiepido giorno di primavera giunse anche a deporre le sue uova e a covarle fino alla schiusa. Per quanto Rege facesse del suo meglio però, non riusciva a procurare cibo sempre abbondante e fresco per i suoi piccoli, né a tenere sempre pulito e in ordine il nido, né a cantare dolci ninne nanne alla sera, né a stendere completamente le ali per riparare dal freddo… Pindi era quello che soffriva maggiormente. Teneva il becco sempre spalancato, aspettando invano quel semino in più che desiderava e pigolando disperatamente. La sera piagnucolava perché aveva fame e freddo e malediva il giorno in cui era nato in quel nido. Nonostante tutto Pindi crebbe. E crebbero i suoi fratelli. E arrivò il momento di imparare a volare. Ma ancora una volta mamma Rege non potè essere d’aiuto, poiché l’ala ferita le doleva molto.
«Dobbiamo imparare da soli» disse un giorno il più robusto di loro «possiamo farcela!» E così dicendo spiegò le alucce, chiuse gli occhi e si lanciò nel vuoto sotto lo sguardo sbigottito dei fratelli. Dopo una picchiata che sembrò interminabile il giovane firnguello prese il volo, fece un giro attorno al nido per salutare i fratelli e se ne andò.
«Dobbiamo seguire l’esempio di Ginki» disse pochi giorni dopo un altro dei fringuelli «non possiamo più stare qui, lo spazio sta diventando ogni giorno più stretto e il cibo che riporta la mamma sempre più scarso…» Così anche lui spiegò le alucce, chiuse gli occhi e si buttò di sotto e anche lui, dopo una terribile picchiata, prese il volo. Ad uno ad uno se ne andarono tutti. Tutti tranne… Pindi! Aveva troppa paura di buttarsi così, nel vuoto, da solo, senza i consigli di nessuno ed era molto arrabbiato con la mamma. Pensava che anche lei, come aveva visto fare a tutte le altre mamme uccello che vivevano lì intorno, avesse dovuto aiutarlo. Pensava che un’ala dolente non era un buon motivo per lasciare dei piccoli abbandonati a loro stessi. Pensava che si potessero trovare altri modi per infondere coraggio. Pensava che a lui sarebbe bastato solo uno sguardo, dolce ed intenso… Forse non aveva tutti i torti, ma lei lì accanto non ci fu mai: se non era fuori a cercare cibo, se ne stava rannicchiata in un angolo, con in dentro agli occhi la durezza opaca di un dolore antico. Così Pindi, continuava a starsene col becco spalancato a disperarsi e a lamentarsi, dei bocconi troppo scarsi che arrivavano, del non poter volare, del nido troppo piccolo…
«Tu non mi vuoi più bene» gridava spesso alla mamma «tu mi lasci morire di fame e di freddo!»
La mamma lo guardava, interrogativa e rassegnata e pareva non capire.
Gli altri uccelli che vivevano lì intorno lo osservavano straniti. Dove si era mai visto un giovanotto così starsene nel nido come un neonato? Pindi li odiava tutti, gli sembrava che tutti ce l’avessero con lui. Un giorno se la prese con un passero affaccendato che, con la bocca piena di chicchi di grano, saltellava lì vicino.
«Ehi tu, sei proprio cattivo! Perché ti tieni tutti quei bei chicchi solo per te senza darmene neppure uno? Guarda, io sono qui, solo e affamato e a te non te ne importa niente!…» Il passero lo guardò sorpreso, poi, impietosito, gli diede uno dei chicchi
«Guarda, mi hai dato il più piccolo! Ah, nessuno vuole proprio pensare a me, nessuno mi vuole bene…!»
«Oh! » Esclamò il passero «anch’io ho una famiglia da sfamare e i miei problemi, cosa ti credi? Anche per gli altri non è facile!»
«Sicuramente è molto più facile che per me!>> Sbraitò Pindi <me e di quanto soffro!… E come te sono ingiusti e malvagi! E…»
«Senti» disse il passero spazientito «con tutto quello che ho da fare, non ho proprio intenzione di starmene qui a farmi insultare da te!» E con un guizzo se ne andò, lasciando l’uccellino sempre più arrabbiato e infelice.
Ormai l’estate era alle porte, il cielo era azzurro e limpido e la natura fremeva di vita. Pindi si guardava intorno tristemente. Era diventato talmente gracile e fiacco da far pensare che di lì a poco sarebbe morto… Una vecchia gazza, provando pietà per lui, gli si avvicinò.
«Ho fame! Ho fame! » Ripeteva fioco Pindi. La gazza gli mise nel becco un bel verme grasso che aveva appena catturato. «Ancora! Ancora! » Disse Pindi, un po’ rincuorato. La gazza lo nutrì ben bene e poi gli chiese:
«Benedetto figliolo, perché non ti decidi ad uscire da quel nido e ad imparare a volare?»
«Io non ne sarò mai capace perché nessuno vuole insegnarmelo, sono troppo piccolo e debole… Ah, se solo la mia mamma avesse voluto ascoltarmi, allora sì, sì che adesso saprei volare…» La gazza non lo lasciò continuare e disse:
«Aspettami, ritornerò fra poco.» Si era ricordata che nel suo nido aveva un pezzetto di uno strano vetro che rifletteva le immagini. Lo aveva trovato nella vigna lì vicino e lo aveva subito raccolto, poiché era la cosa più scintillante che avesse mai visto e a lei, come d’altronde a tutte le gazze, le cose scintillanti piacevano moltissimo. Prese il vetro nel becco, lo portò a Pindi e glielo mise di fronte. «Guardati» disse severamente «per quanto tu abbia mille ragioni, ormai sei cresciuto e devi cavartela da solo» Pindi si guardò… Con sua grande sorpresa per la prima volta vide che non era più un pulcino… Vide un uccello adulto, malandato e arruffato per l’inedia, ma fondamentalmente bello… Vide quell’uccello, con il becco ancora aperto da neonato, aspettare ancora l’arrivo di qualcuno ad occuparsi di lui… Vide il suo dolore… Vide le sue lacrime… Capì. Provò molta vergogna di sé, ma si sentì anche più forte e coraggioso. Con le lacrime ancora negli occhi guardò la vecchia gazza che, saggiamente, sorrise. Poi Pindi provò a spiegare le ali… Erano indolenzite e doloranti. Provò a sbatterle un po’, a sgranchirle… Andava già meglio… Poi finalmente, col cuore che gli batteva forte, chiuse gli occhi e… si buttò. Sentì l’aria mozzargli il fiato e spettinargli le piume… Sentì lo stomaco arrivargli in gola… Sentì che si stava schiantando al suolo… Sentì che poteva farcela! Con un colpo d’ali riuscì a virare. Improvvisamente. Si ritrovò circondato d’azzurro. Stava volando! Vedeva il suo albero e il suo nido vuoto sotto di sé, vedeva la vigna e i campi, vedeva il ruscello, vedeva un ponte, vedeva il mondo.
«Coraggio, figliolo» disse la gazza che gli era volata accanto «adesso inizia un’altra avventura. Ma ricordati, ricordati sempre: non ritornare mai più indietro»
«Grazie! » Sussurrò Pindi con un nodo in gola ed era la prima volta che ringraziava qualcuno.
«Buona fortuna! » Disse la vecchia gazza e se ne andò. Pindi si accorse poi che nel nido era tornata sua madre così scese per salutarla, le pareva di non essere più arrabbiato con lei. Si posò sul ramo:
«Mamma, me ne vado» disse. Poi si accorse che Rege stava piangendo, forse per la gioia di vederlo volare o forse per la tristezza di non averlo saputo aiutare. Pindi spiegò le ali grandi e l’abbracciò a lungo.
E poi volò, volò e volò. E volò ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Voglio arrivare fino in fondo

Io voglio invecchiare… Voglio sentirmi stanca e sedermi sull’erba a riposare…Voglio desiderare il silenzio. Guardarmi indietro e andare orgogliosa di tutto quello che è stato fatto o non fatto. Voglio sentirmi piena del tepo caldo e denso di tutta la mia vita. Piena e traboccante… Voglio stringere la mano di un nipote e promettergli che, da ogni dove, sarò sempre accanto a lui. Voglio godere di rimi lenti. Un battere di ore che mi fa a lungo assaporare tutto il mio essere. Cullarmi nella mia dolcissima solitudine, nel colore del nuovo orizzonte che si sta profilando. Voglio invecchiare per poter guardare dritto negli occhi di Dio, mentre ancora i miei piedi poggiano sulla terra. Grazie per chiunque non si metterà in mezzo, con strane proposte d’eterna gioventù. Fra le braccia della morte io sono una bambina.

 

 

 

Tratto da La via del ritorno, ed. Giraldi

..Insomma Lucia non era lì a pretendere, a rivendicare, a criticare. C’era e basta. E ora l’avevo seduta accanto, con una rosa in mano e potevo scorgere le pieghe del suo volto lungo e magro, accorgermi dei suoi occhi, verdi come una bottiglia polverosa. “Sì, forse lo voglio che ci sia. O forse non posso fare altro.” “E cioè?”

Lucia: la gioia che uccide

Non lo so. Non ne ho voglia. Di gente. Non ho voglia di niente. Sono anni che mi trascino in un susseguirsi di giorni inutili. La mia parola? Apatia. Sì, credo si chiami così. Ho un lavoro, certo. Ripetitivo e noioso. Alle poste. Sportello raccomandate. Però mi permette di vivere. Già. Vivere. Forse dovrei dire che mi permette di mangiare, sarebbe più corretto. Certe volte il mio stomaco richiede di essere riempito. Ma anche quella è una noia, per me. Fare la spesa è una noia. Dio, come lo odio. Dover pensare a cosa mi serve, a cosa è finito al punto da non poterne più fare a meno. Infilarmi al supermercato, scegliere, stare fra la gente. La gente mi dà la nausea. Non puoi capire. La guardo e penso che l’essere umano sia quanto di più nauseabondo esista nell’universo. Sì, sì, me compresa. Naturalmente. Sai quelle vecchie coi capelli radi e tinti sulla cima della testa, le pellicce ormai irrigidite dal tempo che puzzano di naftalina? Che comprano mezzo etto di prosciutto per la cena? Mezzo etto… Dico io, non lo comprare per niente! Tre fette esatte, le ho contate. Che cazzo ci fai con tre fette di prosciutto? Non ci riempi neppure un panino! Con lo stesso prezzo puoi comprarci 3 etti di ricotta. Prendi la ricotta, cribbio, almeno godi un po’. Ti fai una bella pasta o ci metti lo zucchero sopra! Godi, Santo Dio. Stai per morire e non ti sei goduta neppure un minuto della tua vita! Che squallore! Per non parlare di quelle sulla cinquantina, tutte gioielli e capelli vaporosi, coi rondelli dello stomaco tenuti a bada dalle pancere sotto i vestiti attillati, il trucco che cerca disperatamente di coprire le troppe rughe che non se ne vogliono andare. Quelle che quando devono parlarti degli uomini con cui sono state te ne recitano a memoria l’ultimo estratto conto, con tanto di entrate e uscite per l’affitto dello yacht. E che quando passi ti guardano come uno scarafaggio. Cosa vuoi da me? Mi lasci in pace? E invece no, loro giù a squadrarti con quella smorfia di disgusto sul grugno e a dirti quello che è giusto che tu faccia. Dico, ma lo vuoi sapere tu quello che è giusto che faccia io? Una volta a una così ci ho dato una possibilità. Aveva 38 anni, non 50, ma fa lo stesso perché quando sei mummia dentro l’età conta poco. Sembrava più intelligente delle altre. Mi aveva quasi convinto. Avevo preso a considerarla come una sorella maggiore. Certo non potevo pretendere che venisse con me a bere birra nel pub in fondo alla strada in cui abitavamo e non lo pretendevo. Lei d’altra parte non pretendeva che mi vestissi come una perla. E parlavamo. Oddio, parlavamo…Diciamo che la stavo ad ascoltare per ore mentre parlava di sé e quando arrivava il mio momento mi liquidava in tre minuti. Aveva un assurdo bisogno di essere adorata. Io non l’adoravo. Le volevo bene. Condividevamo l’interesse per la botanica. Quello che lei vedeva nei lillà era lo stesso che vedevo io. Insieme ci commuovevamo davanti ai fiori e poi ridevamo, mi piaceva. Insomma, sotto quel cerone pareva che un’anima ce l’avesse anche lei. Ma non ha funzionato. Non ha funzionato e punto. Alla prima occasione non le è parso vero di iniziare a criticare. Che io ero troppo concentrata su di me (io!). Che il vero amore per le piante non sapevo nemmeno cosa fosse. (Ah). E che non la prendevo abbastanza in considerazione. (!!!). Che non si sentiva abbastanza amata (pure!) etc. etc. Che tristezza e che palle! Non l’ho più chiamata. E lei non ha più chiamato me. Meglio così. Sono stata solo una stupida a crederci. Naturalmente i loro carrelli sono pieni di alimenti light, senza zucchero, con il bifidus attivo, contro i radicali liberi, vitamine, sali minerali e la crusca per cagare meglio perché sono talmente avare che vogliono tenersi per sé anche la loro merda. Io? Cosa compro io? Cibi già pronti. Quelli di plastica, coi conservanti e il glutammato, il loro orrore nonché l’orrore dei naturisti! É perché così faccio presto. L’infilo nel microonde. Cinque minuti. Non apparecchio neppure. Il più delle volte mangio in piedi. In fretta. Te l’ho detto, non ne ho voglia. Il mio perverso piacere consiste nel ridurre al minimo possibile tutte ste beghe del mangiare, pulire, mettere a posto, lavorare. L’unico luogo in cui sto bene è sul mio divano. No, la tv no. A volte è accesa, ma difficilmente attira la mia attenzione. Anche i programmi li trovo squallidi, inutili, scontati. I programmi sono fatti dalla gente. Gente che si accontenta. Dei soldi, del successo, dell’apparire, del potere… Che ribrezzo!! Non sai quante volte desidero in un giorno che il mondo affoghi nella sua pochezza! La spesa la faccio ogni due settimane, circa. Quando dovrei grattare i muri per masticare qualcosa. Gli ultimi giorni raschio i fondi delle scatole. Un pacchetto di crakers e un uovo sodo, un bicchiere di latte. Sì, anche oggi è andata bene, mi dico. In realtà possiamo fare a meno di una miriade di cose, lo sai? La carta igienica, per esempio. Certe donnone con 4 figli al seguito se ne riempiono le sporte, di quella a doppio velo, naturalmente, quella che non finisce mai. Mi chiedo a cosa serva… C’è l’acqua, no? Io mi lavo e mi lo asciugo. Che male c’è? Loro si lavano? Boh! Vabbè, fatti loro! Sì, sì, lo so. Sono io la malata. Sicuramente. Certe volte mi guardo intorno, a casa mia, e mi spavento di me stessa. Esiste un posto per ogni cosa, ma non esiste cosa che sia al suo posto. Ho due armadi. Uno per l’inverno e uno per l’estate. Così risparmio il cambio di stagione. Il punto è che sono entrambi vuoti. I vestiti, una volta lavati, finiscono sul letto degli ospiti (a volte mi domando cosa ci faccia a casa mia un letto per gli ospiti) e lì rimangono fino a quando non decido di indossarli nuovamente. Perché metterli dentro? Mi chiedo. A che serve? Potrei vendermi gli armadi. Dovrei pensarci. Uno è anche di quelli che valgono qualcosa. Regalo di mia zia. Così è anche per tutte le altre cose: i libri, i dischi, le fotografie, la scrivania, la cucina etc. etc. Sì, lo so, faccio schifo. Mi faccio schifo. Ma, credimi, io non ne ho proprio voglia. Le gambe mi pesano all’inverosimile. Non ci trovo il minimo senso. Non trovo più il senso a niente. No. Non sono stata sempre così. Se tu mi avessi conosciuto 7 anni fa non mi riconosceresti. Un sacco di gente non mi riconosce. Spesso mi fa piacere. Evito le loro facce stranite, le loro domande insidiose, quelle che vogliono sapere, ma non hanno il coraggio di andare al sodo: “Come stai Lucia? Tutto bene, davvero? Hai bisogno di qualcosa? Non ti fare problemi a chiedermelo eh?” “No, no, tutto bene” Mi limitavo a rispondere. Ma avrei voluto dirgli che avrebbero fatto prima a chiedermi direttamente come mai portavo a giro quella faccia smunta e non curata, quei vestiti anonimi, quel fare strascicato e annoiato, io proprio io…Non gliel’ho mai detto. Tanto non avrebbero mai capito. Sicuramente si sarebbero anche offese. Bah! Sai cosa mi è successo?…
Croste bruciacchiate di pizza margherita giacevano sul suo piatto e la bottiglia dell’acqua era vuota. Berta ci stava buttando fuori dal ristorante. Ci aveva già concesso più di quanto potesse: avevo avuto l’impressione che si fosse indaffarata in lavori non indispensabili per lasciarci lì. Paghiamo, salutiamo, usciamo. Ci incamminiamo per i vicoli medievali del centro spoletino, con in mano le nostre dieci rose.
“Continua.” Incalzo
“Allora vuoi sapere cosa mi è successo? Davvero vuoi saperlo?”
“Certo che voglio saperlo. Muoio dalla voglia di saperlo.” Era vero.
Niente di tremendo, come forse stai pensando. Io ho conosciuto la felicità. Ho conosciuto l’armonia. Ho conosciuto l’emozione più profonda ed intensa. Ho conosciuto l’unione. Ho sperimentato il sublime. Ho chiuso gli occhi e ho volato. Sono arrivata fino a Dio. Mi sono specchiata nei suoi occhi. Mi sono cullata nel suo abbraccio. Mi sono fusa in lui e con lui. Ho udito cori celestiale, cantato con gli Angeli…E poi? E poi ho perso tutto. Perché? Non lo so, sai, non lo so davvero. Ho smesso di chiedermelo perché almeno evito quel disperato tormento di cercare una risposta che non c’è. Ho capito Eva in quel momento, alla sua cacciata dal Paradiso Terrestre. Ma almeno lei aveva mangiato la mela, cazzo e io? Io avevo solo amato. Per questo, dunque? Lo incontrai una sera d’estate, ad una festa in piscina. Amico di altri amici. Dicevano che non era poi così bello, che era un po’ bassino, un po’ troppo magrolino. Io vedevo solo l’infinito dentro i suoi occhi. E quando dico l’infinito, dico l’infinito. Quello che vedi quando alzi la testa in su e, se sei ancora un essere umano, t’incanta, ti spaventa, ti rapisce, ti… vive! Non riuscivo proprio a togliergli gli occhi di dosso. Naturalmente se ne è accorto. Naturalmente lui ha sorriso. Naturalmente anch’io. Poi naturalmente la scusa di un gelato assieme, di una passeggiata…Che vuoi…Ogni sua parola era come se fosse mia, ogni suo gesto era un oscillar di fronde nella brezza di un bosco, ogni sua carezza un motore a reazione per me che mi lasciavo trasportare sempre più su… Non avevamo neppure bisogno di parlare. Io finivo le sue frasi esattamente come le avrebbe finite lui e viceversa. Alla fine comunicavamo ad occhiate, così intense che chiunque ci stesse vicino capiva quanto tanto avessimo da dirci. Avevo 25 anni. Storie sciapite alle spalle… Mollai tutto. Finalmente avevo trovato chi riusciva a placare totalmente il mio senso di insoddisfazione! Lui comprendeva tutto ciò che gli altri non avevano mai compreso! Lui pensava fin nelle sfumature tutto quel che gli altri non avevano mai pensato, ma io sì. A lui bastava un minimo cambiamento di tono della mia voce per sapere quello che mi passava dentro. Lui sapeva esattamente tutto quel che volevo e riempiva ogni centimetro del mio vuoto come acqua pura in una povera bottiglia. Ti meraviglia come non potessi stare lontano da lui? Come, con quanta passione lo accogliessi in me? Quanto avida bevessi dalla sua bocca? Che cosa fossi disposta a fare per lui? E facevo tutto. Mi spremevo come un limone perché fosse felice. Lo riempivo di regali, di attenzioni, di premure…Ero pronta a prendere pallottole al posto suo. Mi credi? Dico, mi credi? Non ti sto raccontando balle. Tu l’hai mai provata una roba del genere?
Sorrido. Non rispondo.
Beh, sai una cosa? Ti auguro di non provarla mai! Fra le sue braccia, col suo modo di parlarmi e di apprezzarmi, di accarezzarmi e di cercarmi, io sono stata una Dea. Bella come una Dea, potente come una Dea, felice come una Dea, appagata come una Dea. E sai dove finiscono gli déi quando cadono? Nel profondo dell’inferno. Diventano sovrani dell’inferno. Come Lucifero. Dopo quattro anni che stavamo assieme lui mi dice che ha un’altra… Sono sei mesi che ci va a letto. Vuole iniziare una storia con lei. No, io non ho niente che non va, è solo che si è stancato, ha bisogno di percorrere altre strade. Parlava serenamente, anche se gravemente. Era dall’altra parte del tavolo, sugli avanzi della cena che gli avevo preparato. Non iniziai a precipitare, mi ritrovai nel buio e nel gelo più totale con un botto improvviso di cui percepii fisicamente il rumore. Le costole mi si stavano spaccando. Mi accasciai in ginocchio sulla pedana accanto al letto con le mani che premevano forte il petto. Non ricordo come dalla cucina fossi finita lì. Non riuscivo nemmeno a piangere. Mi mancava il respiro e il cervello andava così veloce che non riuscivo a comprendere quel che pensavo! Lui non venne neppure di là. Sentii solo la porta che si chiudeva. Il calcio sui denti che mi finì. Non ho mai capito quel che mi sia successo, ma per un po’ il tempo si è fermato. Sono svenuta? Mi sono addormentata? Ho desiderato così ardentemente di morire che per un po’ ci sono riuscita? Non so. A tutt’oggi non c’è altro che una voragine nera fra il rumore della porta che si chiude e i rintocchi delle 5 mattutine della pendola del mio salotto. Ero sempre lì, sulla pedana. Mi faceva male tutto. Per una frazione di secondo non ricordai perché. Poi iniziai a piangere. Più che piangere gridare. Gridai così tanto che persi la voce. Poi distrussi la casa. Sì, hai capito bene. Ho preso il manico della scopa e ho iniziato a distruggere tutto, a mettere tutto sottosopra, ho fatto a pezzetti il materasso, il divano e i cuscini col coltello della carne, non ho lasciato niente di integro. Quella casa che avevamo preso in affitto insieme e che tenevo come un gioiello. Per fortuna il contratto era intestato a lui, dovette pensare lui a tutto. Poi, esausta sono uscita. Ho attraversato il cortile coi due tigli giganteschi e sono tornata da mia madre, per un po’. Santa donna. Quando mi ha aperto si è spaventata come se mi avessero violentato, voleva chiamare la polizia, il pronto soccorso, non ci credeva che era “solo” perché Alberto mi aveva lasciato. Mi fece un bagno caldo, come quando ero piccola e cercò di rincuorarmi con vane parole di madre. “Su, su, ne troverai un altro, d’amore non è mai morto nessuno, non sei né la prima né l’ultima…”. Mi feci coccolare per un bel po’ anche nei giorni a venire. Non riuscii neppure ad andare a lavorare. Dicono che le donne si accorgono se il proprio uomo le tradisce. Non so se è stato bravo lui o allocca io, ma era l’ultima cosa che sospettavo. E ci andai terribilmente sotto per oltre un anno. Poi? Poi non lo so. Il tempo, la rassegnazione… Il dolore ha lasciato il posto all’indifferenza. Lui ha ripulito casa nostra, ci è andato a stare con lei, l’ha sposata…Io ho sporcato casa mia e sto da sola. Non voglio più storie. E sai perché? Perché lui è l’unico che amo. Con un altro non avrebbe alcun senso. Dovrebbe essere tale e quale a lui, su tutti i fronti e sappiamo bene come questo sia impossibile. Ho conosciuto il massimo che potevo conoscere, cosa vado a cercare adesso? Mi accontento? Dai, no! Non ci penso proprio. Lui è il mio uomo, lui è quello per me. Non lo posso avere. Il perché non lo capisco, ma non c’è altro che posso fare. Adesso capisci perché tutto quel che mi sta attorno mi sembra insulso? Come potrebbe essere altrimenti? A volte lo incontro. Vedo il suo volto sorridente, le sue mani, le sue labbra. É così bello che mi toglie il fiato. Tutto il resto sparisce in una vacuità senza pari. Non fare quella faccia. Ormai ci sono abituata. Convivo con tutto ciò. Per lungo tempo ho sperato che tornasse da me, che tornasse ad apprezzarmi, ad amarmi. Speravo ad ogni squillo di campanello e di telefono. Poi ho smesso. Non spero più. Tengo il cellulare sempre acceso, ora, come una specie di rito, come se fosse l’unico filo che mi lega a lui. Non di rado mangio da Berta: era il nostro posto preferito. A volte penso che vorrei fare delle cose, che so, trovare di nuovo un giardino di cui prendermi cura, un corso di salsa velada o una vacanza, un lavoro diverso, ma se penso a quanto sarebbero state estremamente più belle assieme a lui perdo ogni tipo di interesse e così, alzo le spalle e continuo la mia sudicia strada. Spesso la notte, quando mi addormento, risento il rumore della porta che sbatte. Forse tra qualche anno mi vedranno al supermercato, coi capelli radi in testa e la pelliccia rigida…Quella porta si è chiusa sulla mia vita.

Avevamo camminato per molto ed eravamo arrivate davanti al mio hotel. Avrei voluto dirle che non doveva fare così. Che quello era uno stupido, se aveva preferito un’altra, un idiota! E che doveva lasciarlo andare! E pensare alle sue ginestre e ai suoi lillà… Mi accorgo della dignità con cui porta quei quattro stracci che ha addosso. E rimango zitta. Zitta e muta come un’orata sotto sale.
“Lui avrà avuto le sue ragioni, in fondo.” É lei a parlare
“Probabilmente sì.”
“Grazie”
“Stai scherzando? E di che?”
“Delle rose, della chiacchierata, di quello che sei e per avermelo regalato”
“Ma dai, sono stata bene.” Ascoltare le storie degli altri mi ha sempre messo in uno stato di pace. Come raccogliere conchiglie in riva al mare.
Ci scambiamo i numeri di telefono e ci promettiamo di risentirci. Quelle cose che fai e magari lì per lì ci credi pure, poi chissà.
“La troverai, stai tranquilla. Non sei mica una qualunque, tu.”
“Grazie. E anche tu sei una bella persona”
Guarda in terra e si mette le mani in tasca sorridendo.
Dà un calcio ad un sasso.
“Allora ci sentiamo eh?”
“Sì, ci sentiamo. Buonanotte”
La vedo correre via come un gatto. Salgo in camera. Mi siedo e scrivo sul mio quaderno: Lascia ognuno libero di essere triste quanto vuole. E l’indomani chiamo Maria.

 

 

 

Supereroi

Dopo mesi di turbamenti alla fine Laila era giunta alla sua conclusione e ne era certa. Certa come quando cammini su un sentiero di primavera e sai che ti piacciono, il colore dei fiori e i profumi attorno. Si vestì con calma, il suo ultimo acquisto, nel suo negozio preferito, elegantemente colorato, come la primavera. E imboccò la strada dell’appuntamento, quella solita strada da mesi, quella su cui i fiori erano cresciuti, probabilmente perché innaffiati dalle sue lacrime. Quello che pareva dovesse essere l’incontro più bello della sua vita si rivelò infine il più disastroso, il più doloroso, ma ora che stava affilando agilmente un passo dietro l’altro, nella brezza leggera, era felice di essere stata messa così duramente alla prova. Sentiva forti e saldi più che mai i suoi piccoli piedi bianchi, tanto che le sembrava di poter spiccare il volo, se solo avesse fatto un balzo. Che aria nuova, sotto quel sole giocoso. Conosceva a memoria ogni particolare, ma oggi sembrava danzare come dentro ad un caleidoscopio, per creare un fluido susseguirsi di visuali. Suonò il campanello, si accarezzò le spalle, esattamente come faceva suo padre con lei, in qualche modo sentì che lui era lì. Il passo le si fece ancora più deciso. La porta di sopra socchiusa, come sempre quella meravigliosa luce dorata che filtrava dalla fessura e non era chiaro da dove potesse provenire, un complicato gioco di ultravioletti che rimbalzava in un modo sconosciuto, sfidando le leggi della fisica. Sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe vista, che ne avrebbe goduto, come di tutto il resto. Eccola là, la stava aspettando, come sempre. Oggi sdraiata sul divano, polleggiata, con le gambe incrociate e leggermente dondolanti. Quanto cazzo poteva essere bella… Una voragine di bellezza, in cui era precipitata… Percepì nuovamente la forza dei suoi piccoli piedi e delle leggere carezze di suo padre.
“Entra Laila, sono felice di vederti, oggi ci siamo, finalmente, no?” La sua voce aveva sempre quell’incredibile odore di miele.
“Sì Beth, ci siamo”
“Bene! Finalmente! Ho predisposto tutto”
Laila sorrise, vide il suo volto riflesso sulla pancia cromata della lampada, il suo volto un po’ naif, un po’ gnomo e un po’ fata e sorrise di nuovo. Si sedette, mentre Beth si alzò, statuaria.
“Allora sei pronta a trasformarti? Al grande salto?”
“Sì, sono pronta.”
“Ti ce ne è voluto eh? Quante paure! Sei l’ultima del tuo gruppo.”
Non era una novità per Laila essere l’ultima. L’ultima nata in famiglia, dopo 4 fratelli, l’ultima a scuola, l’ultima ad avere trovato un compagno fra le amiche… Per lungo tempo aveva pensato che ci fosse qualcosa che non andava in lei.
“Beh, forse da adesso potrò essere la prima.” Sussurrò.
“Togli il forse Laila. Avrai gli stessi miei superpoteri, lo sai, sono venuta fino qui per questo.”
“Sì, lo so.”
“Vado a prepararmi.”
“Aspetta Beth. Sì, è vero, devi prepararti, ma non come hai in mente tu.” Disse Laila, non limitandosi a sussurrare e alzandosi a sua volta.
“Che c’è adesso? Non avrai altre titubanze?”
“Nessuna titubanza, devi solo sederti e ascoltarmi, possibilmente senza interrompermi.” Le venne la pelle d’oca, anche se lì non era freddo, non era mai freddo lì.
Beth si sedette, con gli occhi più grandi del solito e i gesti più lenti del solito.
“Mi dispiace, forse non riuscirò ad essere breve, io non sono veloce come te, ma c’è bisogno che io ti dica veramente tutto.- Iniziò a camminare, lentamente, un po’ di qua e un po’ di là, guardando a terra e sapendo di essere sotto i raggi x di Beth – Quando ti ho incontrato l’estate scorsa, o forse farei meglio a dire quando mi sei venuta ad incontrare… E mi hai spiegato tutto, con questa tua luce, con questa tua bellezza sovrumana, beh, ecco, stentavo a crederci, lo sai, mi sembrava di vivere in un sogno, mi sembrava di avere vinto alla lotteria, mi sembrava che non potesse accadere proprio a me. E invece accadeva… Ero io, una prescelta. Mi stavi dicendo che io, bastava solo che dicessi un sì e avrei potuto lasciare la mia miserabile condizione umana per accedere ad una splendida condizione eroica, completa del doveroso corredo di superpoteri e priva di sofferenza. Chi mai non vorrebbe una cosa del genere? Dimmi, chi mai non lo vorrebbe?” Quasi gridò quella domanda e per un attimo fermò i suoi passi nervosi per guardare Beth negli occhi, sui quali stava passandoi una scintilla di smarrimento.
“Ogni essere umano la vorrebbe Laila, appunto, io…”
“Eppure quel sì io non te lo dissi quel giorno. Mi dicesti che dovevo prepararmi al grande cambiamento e che ci saremmo rincontrate affinchè questo potesse accadere. Per quanto fossi entusiasta, quel rimandare la cosa mi tranquillizzò. Mentre tornavo a casa mi sentivo come nuotare nell’aria, colma di entusiasmo e di terrore. Mi dissi che certamente quella stupida paura mi sarebbe passata o me la sarei fatta passare, ad ogni costo, perché un’occasione così, quando mi sarebbe capitata più? Entrai in cucina e guardai mia madre al lavello, guardai le sue mani ruvide, invecchiate di cinque figli e di troppa acqua insaponata, i suoi capelli bianchi e la sua schiena curva ed ebbi la certezza che non sarei mai diventata così. Avevo sempre avuto paura di diventare come lei, con troppi figli addosso e lo sguardo triste. “Mamma, perché? … “ Le chiedevo ogni tanto, perché non vai a farti un giro, perché non… “Perché devo fare le patate”, rispondeva o qualunque altro accidenti dovesse fare. Così quella sera ebbi la certezza che non sarei diventata come lei,
eppure non mi sentii felice come pensavo e la cosa mi fece tremare fin nelle ossa.. Guardai la foto di mio padre, con sempre i fiori freschi davanti, sulla vetrinetta. Mi mancava terribilmente. Con lui era diverso. I miei fratelli litigavano molto meno e la mamma faceva il dolce alla domenica. Mi sentivo meno sola. Di fatto a casa c’era molto poco, ma quando tornava la prima cosa che faceva era salutarmi e dirmi che ero una bella ragazza. Aveva un debole per me. Non me lo ha mai detto, ma io lo sapevo. E io per lui. “Papà, diventerò un super-eroe.” Mi sembrò quasi di sentire davvero la sua voce “Qualunque cosa fai, bambina, che tu sia felice” “Papà, ho detto un super-eroe” … Lo sentii sorridere. Poi andai nella mia camera e pensai per ore alla mia nuova vita, che avrei potuto fare quello che volevo con uno schiocco di dita. Un secondo e sarei stata l’insegnante che volevo diventare, avrei potuto avere la macchina che volevo avere, avrei potuto spaventare e mettere in riga tutti i miei fratelli… Dio che gusto!! Non vedevo l’ora!!! Non vedevo l’ora che tu tornassi!!!! Il tempo successivo trascorse in uno sfinente oscillare fra il mio umano stupido presente e la mia super imminente vita meravigliosa, come in un’altalena fra il cielo e la terra. E quella sciocca paura non passò mai, anzi, mi si insinuò sempre di più dentro. Se avere la certezza che non sarei diventata come mia madre non mi aveva fatto felice, che cosa poteva farmelo essere allora? Ma figurati! E’ un problema questo? Potrai fare tutto quello che vorrai in un secondo, lo troverai… Mi ripetevo, ma più andavo avanti e più avvertivo una sorta di insopportabilità in quella meraviglia… Come ben sai, neppure quando tornasti, dissì quel sì… Ti chiesi ancora tempo… Di nuovo mi descrivesti quanto sarebbe stato bello lasciare la mia vita piccola, mediocre, insulsa, piena di limiti e di bruttezza per diventare come te… Sì, sì, davvero bello, meraviglioso, non vedevo l’ora, ma tremavo fino alle budella. Mi dicevi che era normale che io, essendo un umano, avessi delle resistenze e che potevi aspettare. Passavo il tempo a darmi della vigliacca, della stupida, dell’idiota. Ogni volta che ti vedevo e che quella sillaba non usciva dalla mia bocca, per una qualche oscura forza che non la faceva uscire, mi sentivo sempre più un microbo. Quasi non mangiavo più, mia madre mi guardava silenziosamente, senza sapere bene cosa dire e fare, mentre Mauro mi abbracciava preoccupato ripetendo “che cosa sta succedendo”. Già, che cosa stava succedendo? … Non lo sapevo!! Barcollavo nel mio buio di essere umano, il mio specchio non era più intero, ma, in frantumi, mi rimandava frammenti sconosciuti di me. Terrore. E tu sempre lì, lucente, tu sempre lì a ricordarmi quanto potevo essere meravigliosa, se solo avessi voluto…”
Si era fermata da qualche minuto e si era seduta davanti a Beth. Il suo tono di voce diventava via via più calmo.
“Laila, so tutto questo, so quello che hai passato, non c’è bisogno che me lo racconti, leggevo ogni tuo pensiero, ma adesso sei pronta e…”
“E voglio dirti l’ultima cosa Beth. Alla fine io ho compreso. E non vengo con te, non vengo lì dove sei tu…” A Beth cascò di mano il bicchiere da cui stava sorseggiando una non precisata bevanda arancione e un rumore di vetri rotti provocò un fiotto di luce dorata nell’aria.
“Ma cosa stai dicendo? Stai dicendo che vuoi rimanere in questa merda?”
“Sì, rimango qui. Rimango qui perché un tempo scelsi di farmi carne e sangue e vivermi questa esperienza. E’ vero sai, qui è tutto più lento, più difficile, più complicato. Noi esseri umani ci perdiamo, spesso e volentieri, siamo preda del dolore, siamo in grado di compiere azioni terribili, di creare situazioni terribili… Ma al contempo, se possiamo accettare di passare attraverso le maglie anguste della materia, possiamo generare meraviglie.. Io non ho bisogno di diventare un super-eroe, io lo sono già, forse in modo diverso da te. Lo sono perché vivo ogni giorno cercando lo spazio e la forza di esistere, a volte completamente sola, finanche senza Dio. Lo sono perché ho la sacra missione di far risplendere la mia luce qui, in mezzo al fango, con il rischio di non riuscirci neppure. Lo sono perché stare accanto a mia madre è difficile, ma ci voglio stare, perché non diventare come lei è difficile, ma non diventarlo privo di senso. Lo sono perché voglio essere me e al contempo portarmi dentro ogni persona che amo, fare il viaggio vicino a loro. Lo sono perché non passa giorno che io non senta urlare la mia anima, ma è abbracciandola che tutto si colora di senso. Lo sono perché Mauro è un uomo semplice, forse stupido, mediocre e anche ridicolo, come diresti tu, ma facciamo lunghe passeggiate sul viale la sera, mi tiene per mano e io mi sento a casa. Lo sono perché voglio invecchiare e infine morire, provare a lasciare una piccola impronta di me, sul prato davanti a casa e nel cuore dei miei figli. Lo sono per tutto questo e molto altro ancora, ecco perché non ho bisogno di te. E adesso sono felice che ci sia stata quella paura che non mi ha fatto pronunciare quel sì… Non è mica così brutta come la descrivi tu quella paura, era solo la voce del mio sogno, che non voleva che me ne andassi, che voleva che restassi a casa, con lui.
E adesso Beth, me ne vado. Ti ringrazio per tutto.”
Beth era affossata attonita, dentro ai cuscini, sembrava quasi più piccola, quasi indifesa…
“Per cosa mi ringrazi? Non ti ho dato nulla alla fine…” Disse flebilmente
“Ti sbagli, mi hai dato l’opportunità di diventare un essere umano. Anche se so che a te non sembra chissà quale cosa.” Sorrise. Poi si alzò, diede un bacio sulla guancia alla meravigliosa creatura, si girò e se ne andò. Il sole stava scendendo verso l’orizzonte e le rondini disegnavano una festa di cerchi sul cielo. Si sentiva come una bottiglia colma di latte e ambrosia. Mauro la stava aspettando per cenare con lei e non vedeva l’ora, avrebbero parlato di come fare a prendere casa insieme. Quando aprì la porta vide scendere dal soffitto un raggio di una splendida luce dorata, che non si capiva proprio da dove venisse…