Francesca Luzzio - Poesie e Racconti

Dante e i poeti  

                              

 E’ possibile  desumere molti percossi tematici dalla Divina commedia . Tra questi, particolarmente interessante  è Il percosso “Dante e i poeti”, poiché consente di capire in che misura e in qual modo i poeti del mondo classico, quelli provenzali e volgari anche a lui contemporanei,  sono presenti nella Commedia. Prima di addentrarci nella trattazione occorre rilevare che Dante nella Commedia esprime il momento di massima consapevolezza del proprio fare poetico e da ciò sicuramente  deriva il metro valutativo de i suddetti poeti . Essi inoltre sono considerati da un lato come auctores e, in quanto tali, Dante fa riferimento alle loro opere, che così in vario modo e misura entrano nella trama del poema,dall’altro come personaggi e, in tal caso, rivestono funzioni allegoriche più ampie e comunque connesse al luogo ultraterreno in cui li colloca.                                                                              Premesso ciò, cominciamo dal mondo classico e, in quest’ambito non possiamo innanzitutto non occuparci di Virgilio, il poeta più importante nell’economia del poema. Egli è chiamato” l’altissimo poeta” (Inf.IV, 80),”Il savio gentil che tutto seppe” ( Inf.VII, 3), il “ mar di tutto ‘l senno” (Inf.VIII, 7),tuttavia al di là dell’affetto per l’uomo Virgilio e dell’ammirazione per la sua cultura, la presenza sia del testo virgiliano che della sua figura, dopo la massiccia presenza nella prima cantica , si attenua progressivamente. A questo proposito ricordiamo che Virgilio è un poeta pagano che nonostante,secondo l’interpretazione medioevale, sia arrivato a presentire  la verità del Cristianesimo nell’Egloga IV, rimane pur sempre legato alla menzogna , “al tempo degli dei falsi e bugiardi”, come egli stesso sostiene nel verso 72 del canto I dell’inferno. Pertanto se a Virgilio viene attribuito l’aggettivo “dolce” (quattro occorrenze nell’inferno e ben dodici nel purgatorio) per diventare “dolcissimo padre” nel momento in cui Dante personaggio si accorge della sua scomparsa (purgatorio XXX, 50), Dante autore prende a varie riprese le distanze dal proprio modello sia come personaggio, sia come autore. Virgilio in genere come personaggio, ossia come guida e allegoria della ragione, attraverso la ripetizione di un formulario pressoché fisso, riesce con efficienza razionale e sollecitudine, ad aiutare Dante nel suo cammino, anche se non mancano le difficoltà con i demoni che negano l’entrata nella città di Dite nel canto IX dell’inferno e poi con il demone Malacorda che fornisce false indicazioni sulla via d’accesso alle bolge ( inf. XXI,109-111), ma anche Virgilio autore viene smentito, quando, ad esempio, nell’episodio di Pier delle Vigne , dopo aver convinto Dante a staccare un ramo, così lo giustifica di fronte al dannato:”S’elli avesse  potuto creder prima “,\ rispuose ‘l savio mio,”anima lesa,\ ciò c’ha veduto pur con la mia rima,\ non avrebbe in te la man distesa;\ ma la cosa incredibile mi fece \ indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa” (Inf.XIII,46-51). Virgilio, cioè confessa che la lettura di quello stesso episodio nella sua Eneide non è sufficiente a far fede della sua veridicità, perché egli è morto pagano, pertanto deve passare obbligatoria-mente per la diretta esperienza del pellegrino a dimostrare che non trattasi di favola pagana, ma di vicenda che vuole proporsi come reale. Né mancano altre occasioni in cui Virgilio – personaggio pare smentire Virgilio -autore, ma ci limitiamo per amore di sintesi a citare ancora solo il canto XX dell’Inferno, in cui vengono narrate le pene degli indovini: ai versi 52-99 il poeta narra l’origine di Mantova dalla mitica Manto,figlia di Tiresia e non come attestato dall’Eneide (l.X, 198-199) da Ocno,(figlio della stessa Manto) . Nel Purgatorio la strategia di ridimensionamento di Virgilio cambia. Innanzitutto sono presenti altre due figure che prendono a tratti la funzione di guida: Sordello, nei canti VI- IX e Stazio, nei canti XXI- XXXIII , dopo che Catone stesso ne aveva limitato l’autorità, rivolgendo a lui e a Dante               ( I canto) e alle anime che con loro si erano fermate ad ascoltare il canto di Casella (canto II), severi rimproveri. Virgilio stesso poi, a partire dal canto VI, comincia a rimandare a Beatrice la risposta a questioni particolarmente ardue che da Dante gli vengono poste, ad esempio nel canto XV del Purgatorio, nei versi 49-78, a proposito della spiegazione intorno all’effetto della carità divina nell’Empireo, la conclusione comporta un rimando a Beatrice: “ e se la mia ragion non ti disfama,\ vedrai Beatrice,ed ella pienamente \ ti terrà questa e ciascun’altra brama”. La progressiva assenza virgiliana viene ribadita anche sul piano della presenza testuale, se si prescinde dalla quasi citazione del “manibus date lilia plenis” del libro VI dell’Eneide, 883 ( Anchise nei Campi Elisi onora la prematura scomparsa di Marcello,nipote di Augusto) nel canto XXX,21 del Purgatorio all’apparire di Beatrice sul carro e dal successivo calco”conosco i segni dell’antica fiamma” ( Purg. XXX,48) che traduce la frase ” agnosco veteris vestigia flamma”(Eneade, libro IV, 23),pronunciata da Didone, quando s’innamora di Enea. Riassumendo quanto detto, possiamo sostenere che l’autorità dell’Eneide scema poiché essendo stata scritta prima dell’avvento di Gesu’ Cristo che ha rivelato la verità , l’Eneide è una menzogna nascosta sotto apparenza di verità.                                                                                                                    Per gli altri poeti classici il discorso è più breve. La figura di Stazio è in funzione virgiliana perché nello stesso tempo ne accresce la drammaticità e ne conferma la superiorità. La drammaticità è accresciuta poiché Stazio si converte dopo la lettura della IV egloga che proprio Virgilio aveva scritto, senza che sortisse in lui ,l’effetto che sortì poi su Stazio (Pur. c.XXII,64-66); la superiorità letteraria viene proposta non solo dalla Tebaide di Stazio, ( l. XII,816-817) che si conclude con il riconoscimento dell’inarrivabilità dell’Eneide, ma Stazio stesso nello stesso canto del Purgatorio e nella stessa terzina, lo considera come colui che per primo lo indirizzò alla poesia. Per quanto riguarda i poeti provenzali, essi sono molto presenti nella Commedia, essendo stati molto noti ai poeti italiani del tempo che li consideravano i loro diretti antecedenti. Già cospicuamente presenti nel De vulgari eloquentia, ritornano e spesso con un mutamento di valutazione nella Commedia, opera nella quale, come si è già detto, Dante rivela la sua maggiore consapevolezza del fare poesia. Nel XXVI canto del Purgatorio tra i lussuriosi, Dante incontra Guido Guinizzelli, che pur non essendo poeta provenzale, ma volgare, citiamo adesso perché è proprio lui che di fronte al caldo elogio e alle ansiose profferte del pellegrino Dante, si schermisce umilmente ed afferma che altri poeti romanzi hanno lasciato opere ben più degne della sua, in particolare Arnaldo Daniello che si trova nella sua schiera  e fu certo” miglior fabbro del parlar materno”, checché ne dicano gli stolti che vorrebbero porre più in alto di lui l’altro trovatore Girardo di Bornelh e che esaltano irragionevolmente la maniera ormai superata di Guittone D’Arezzo. ( Purg. XXVI,91- 126). Polemica culturale e letteraria che nasce, come ha sostenuto Roncaglia,dalla coscienza di una superiorità morale e letteraria,faticosamente acquisita. L’accenno ai poeti provenzali non può concludersi senza citare Folchetto Di Marsiglia che si trova in posizione privilegiata, tra gli spiriti amanti del cielo di Venere e Sordello Da Goito che nella sua vita itinerante, nell’uso del provenzale come lingua poetica, al di là degli angusti confini dialettali e provinciali , esprime bene la comune vocazione all’unitarietà e fornisce a Dante nel canto VI del Purgatorio,l’occasione per giudicare severamente le discordie intestine dei potenti d’Italia. ( Purg. VI, 58-65). Tra i poeti volgari, ci sono anche compagni di strada di Dante. Si è detto della condanna di Guittone D’Arezzo nel c. XXVI del Purgatorio, sebbene abbia sicuramente esercitato una indubbia influenza nella prima produzione dantesca ed indirettamente, abbiamo anche già parlato di Guido Guinizzelli, pertanto ci restano da ricordare Bonaggiunta Orbicciani e Guido Cavalcanti. Il primo, ancora legato agli stilemi della Scuola siciliana, presenta Dante come esponente della nuova corrente, lo Stilnovo (Purg, Canto XXIV,49-63),il secondo è il grande escluso dal novero dei poeti ricordati nei canti XXIV e XXVI del Purgatorio . Eppure nella Vita nova è Cavalcanti ad essere considerato primo amico di Dante, mentre già nel De Vulgari Eloquentia si assiste ad un cambiamento , infatti se nel XIII capitolo,4 del I Libro, viene posto in testa al gruppo degli Stilnovisti, successivamente nel capitolo XVII,3 dello stesso libro,viene escluso dal novero di coloro che poetarono perfettamente in volgare illustre. Tale esclusione s’inserisce in quel processo di maturazione dantesca del “fare poesia” e, sebbene Cavalcanti lo aiutò ad uscire dalla rudezza stilistica di Guittone, la frattura è stata resa inevitabile dal suo estremo razionalismo che lo portava a sottolineare gli aspetti più pessimistici della tematica amorosa .                                                                                                                                                    Nella lirica “ Donna me prega” Cavalcanti afferma che, poiché l’amore è da ricondurre ai sensi, il suo effetto è un ottenebramento della ragione, che può addirittura condurre alla morte (v. 35). Dante non condivideva una tale concezione e pertanto, già dalla Vita nova se ne dissocia. Quando dunque il pellegrino risponde al padre, Cavalcante dei Cavalcanti,allarmato per non vedere il figlio Guido al fianco dell’amico con queste parole “colui che attende là, per qui mi mena\ forse cui Guido ebbe a disdegno” (inf, canto X,62-63),intende proprio sottolineare la mancata accettazione da parte di Cavalcanti, della possibilità di salvezza offerta dalla variante positiva dell’amore di cui è simbolo Beatrice.

                                                                                                                      Francesca Luzzio

 

Bibliografia: R. Merlante-S. Prandi, Salire alle stelle, ed. La Scuola; A.Ronconi, Per Dante interprete  dei poeti latini in Studi danteschi; I.Baldelli,Dante e i poeti fiorentini del Duecento, Le Monnier; R.Hollander, Il Virgilio dantesco: tragedia nella Commedia, Olschki; T.Barolini, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Commedia,Bollati Boringhieri; C.Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante, Il Mulino. 


Luigi Fontanella. Il dio di New York, Passigli Editore

 

”Il dio di New York” di Luigi Fontanella, senz’altro è da definire “romanzo storico”, sia perché nel contesto ambientale americano, descrive  le tristi, reali vicissitudini a cui, in genere, nei primi decenni del Novecento, i poveri emigranti italiani in America erano soggetti, sia perché descrive  anche l’amara situazione economica da cui essi fuggono e che non riguarda esclusivamente il gruppetto di abitanti d’Introdacqua, borgo abruzzese, di cui si narra nel romanzo, ma si estende un po’, in quell’epoca, a buona parte del territorio italiano.                                                                                Di conseguenza, Luigi fontanella nel trattare questo tema , fa vibrare il cuore di molti Italiani perché in tanti ricordiamo le narrazioni dei nostri nonni o bisnonni e non si può non entrare in empatia con i personaggi e, in particolare, con il protagonista Pascal, perché per lui l’America rappresenta non solo lavoro e guadagno, ma soprattutto studio, apprendimento della lingua inglese e, con il possesso di quest’ultima, esplicazione della sua creatività poetica, in quella lingua con cui si erano espressi i poeti Shelley e Keats che aveva letto, studiato ed amato nelle lunghe giornate trascorse  nella Public Library . La posizione del narratore è omodiegetica nel prologo, nella prima parte e nell’incipit della seconda, oltreché in qualche riga del penultimo capitolo della terza e, in linea di massima nell’epilogo; ciò consente al narratore di assumere, a volte, l’atteggiamento del saggista che commenta fatti, comportamenti, come , ad esempio, quando spiega la causa dell’emigrazione, che, in genere, consideriamo unica e decliniamo al singolare: “miseria”, senza considerare le motivazioni che, a sua volta, la determinano e che egli, invece, analiticamente elenca e commenta : “A parte le prevedibili cause…., io sono sempre più convinto che, in fondo, siano due i cardini su cui ruota l’emigrazione italiana di quel ventennio e si condensano essenzialmente nelle figure dei latifondisti e degli usurai. I primi erano….” (Prima parte, cap.18, pag.77),  o quando spiega perché, raggiunta l’America, gli Italiani sono legati da un forte spirito comunitario: “ Le ragioni sono ovviamente, e prima di tutto, di carattere sia antropologico sia linguistico: il desiderio di mantenere un collegamento….”( Seconda parte, cap.5, pag.110). Nella maggior parte della seconda e nella terza parte, il narratore diventa eterodiegetico e tutto viene narrato soprattutto attraverso il punto di vista di Pascal: la durezza del mondo del lavoro, i soprusi patiti, ma soprattutto il suo arrampicarsi verso la conoscenza della lingua inglese, verso la cultura, il sapere, ai quali affiderà la sua creatività e il suo sofferto successo. “Il Dio di New York” toccherà anche lui: pubblicazione dei suoi testi, articoli e recensioni sui giornali, ma poi lo abbandonerà, lo dimenticherà, lo lascerà nella miseria più nera, sino a quando  la morte per sempre, farà scendere l’oblio sul suo corpo e sulla sua poesia. Il romanzo è un lungo flash- back, infatti il narratore nel 19 cap. della terza parte, ci ripresenta, come nel prologo, Pascal che torna a piedi a casa, dopo aver trascorso la giornata in biblioteca e dove fu derubato dei pochi spiccioli che gli servivano proprio per l’acquisto del biglietto della metropolitana. Come sostiene F. De Nicola nel suo saggio “Gli scrittori e l’emigrazione”, il fenomeno dell’emigrazione, nonostante la sua imponenza, non ebbe nell’immediatezza l’adeguata attenzione che avrebbe meritato , né ci si propone di esporre le cause di questa reticenza, ma sottolineare invece come negli ultimi decenni il fenomeno sia stato invece trattato con “il filtro di una distanziata prospettiva temporale” da parecchi scrittori, tra i quali S.Mignano, R. Di Basio,C. Magris, M. Olschi, . M. Mazzucco, etc… e tra essi adesso possiamo annoverare anche Luigi Fontanella che, a prescindere dalla dovuta ricerca documentaristica di cui ampiamente si parla anche nel romanzo,  come tanti ha presumibilmente ascoltato da piccolo le amare narrazioni del nonno. Egli, da abile scrittore, con un linguaggio chiaro, con scorrevolezza espressiva, da un lato, come si è già rilevato, emoziona gli anziani di fronte ad una amara realtà di cui presumibilmente hanno sentito parlare, dall’altro sollecita i giovani non solo a comprendere le ragioni delle nuove ondate immigratorie che adesso investono l’Unione europea e l’Italia in particolare, ma anche a riflettere sulla condizione attuale degli artisti. Il vichiano ricorso storico che in atto stiamo vivendo, così fa di questo romanzo anche un documento di denunzia di fronte ad ogni forma di razzismo e di emarginazione. “Il dio di New York”, pregnante metafora del potere del più forte, ha sempre condizionato la vita delle masse popolari, ma anche il riconoscimento e la valorizzazione di scrittori, poeti, artisti in genere, destinati all’oblio, proprio perché quel dio è per loro irraggiungibile.

 

                                                                                                                   Francesca  Luzzio 


La madre di Ungaretti e  A mia madre di Montale: confronto

La figura materna tra cielo e terra

 

 Come altri poeti del Novecento, anche Ungaretti e Montale hanno proposto la figura della madre nella loro produzione poetica, ma ce ne danno una rappresentazione e ci descrivono un rapporto con lei e con la sua morte completamente differente.                                                                                                                     A rendere così diverse le poesie dei due autori dedicate alle rispettive madri è principalmente la religione: Ungaretti, dopo un lungo periodo di riflessione, trovò nella religione cattolica lo strumento per uscire dal male di vivere, Montale invece, se si prescinde da una giovanile influenza di tematiche religiose, resta estraneo ad una riflessione esistenziale e metafisica sul Cristianesimo.                                                                                                Il lutto spinge Ungaretti a riflettere sulla propria stessa morte che gli permetterà di ricongiungersi alla madre, alla condizione d’innocenza che rappresenta, ma che egli non possiede, pertanto bisogna che lei invochi il perdono divino affinché tale ricongiungimento possa realizzarsi. E’un estremo gesto di amore che, proprio perché volto all’intercessione divina, non ammette terrene manifestazioni di affetti: “E solo quando m’avrà perdonato,\ ti verrà desiderio di guardarmi“.                                                      Per concludere il rapporto madre-figlio e il tema della morte vengono vagliati in una prospettiva religiosa, che pone sottotraccia la terrestrità. Anche il ”ridarai la mano” e “l’avrai negli occhi un rapido sospiro”, sono inseriti in una prospettiva religiosa che rimanda al dopo la dimensione umana della manifestazione affettiva e, non a caso, rende la madre “una statua davanti all’Eterno”, mantenendo la rigidità morale che la caratterizzava quando era in vita. La morte punta verso l’aldilà e non verso gli affetti terreni: ”.. Mio Dio, eccomi,” dice infatti la madre sul punto di morire e non, ad esempio, ”Figlio mio ti lascio”.                                                      Né è presente la dimensione dell’io sofferente per la morte della madre, poiché il poeta costruisce il componimento esclusivamente sull’ipotesi d’incontro con lei, che, in una sorta di triangolo amoroso, esercita la sua funzione mediatrice al cospetto di Dio, per congiungersi affettivamente al figlio. Invece la madre è considerata da Montale nella sua materialità unica e irrepetibile e resta viva nella sua memoria per il ricordo di precisi gesti che la caratterizzavano. La madre riteneva che il corpo fosse “un’ombra”, l’aspetto esteriore di una realtà metafisica e che la morte fosse la via che porta alla vita eterna. Ma per il poeta, la vita terrena non è un’ombra, essa vale per se stessa e, a livello memoriale, è l’unica forma di sopravvivenza: “quelle mani quel volto …\ solo questo ti pone nell’eliso”, ossia nel paradiso memoriale di chi le ha voluto bene.                                                                                                     Anche nel secondo verso della poesia di Ungaretti, troviamo il termine ”ombra”, ma diversa è la valenza semantica, infatti è l’intero percorso della vita con i suoi possibili errori ad essere ombra che, come baluardo pietroso, impedisce l’ascesa a Dio.                                                                                             Montale invece, anche quando si avvicina a Dante, questi lo interessa non per la tematica religiosa della Divina commedia, quanto, attraverso la sollecitazione eliotiana, per la sua struttura allegorica, che gli consente di dare universalità oggettiva alla vicenda personale e di utilizzare stilemi, termini e concetti della religione cristiana in chiave completamente laica o, per meglio dire, per proporre una nuova religione: quella delle lettere; di conseguenza, per il poeta è impossibile allontanarsi dalla concretezza terrena e non solo considera la madre nella sua fisicità memoriale, ma la circonda anche di particolari concreti, di animali; inoltre il momento emozionale soggettivo scompare del tutto e la morte della madre diventa correlativo oggettivo di valori che la II guerra mondiale, a cui si allude nei vv. 4 e 5, nega.                                                                                                                       Il valore dei morti coincide anche con il recupero dell’infanzia, connotata anche a livello topico con il riferimento alle Cinque terre, al Mesco, luoghi della fanciullezza appunto, che la rielaborazione del lutto ripropone alla memoria insieme alla madre con “quel volto, quelle mani”. La religione delle lettere a cui si alludeva prima, induce anche ad attenzionare l’aspetto stilistico-formale di “A mia Madre”: la lirica fa parte di Finisterre, I sezione de La bufera ed altro e, come le altre liriche di tale sezione, si caratterizza per il monolinguismo e il monostilismo, prima di ricorrere a uno stile più mediato e realistico che il tragico contesto bellico imponeva.                                                                                                     Finisterre, come M. sostiene nell’intervista immaginaria del ’46, “rappresenta la sua esperienza petrarchesca” che si esplica in un classicismo moderno, dato dagli endecasillabi con numerose rime libere dai vv. 7-8 a scalino e insieme costituenti un endecasillabo, dal lessico aulico e sostenuto, dalla sintassi lineare che si espande strutturalmente in due periodi.                                                                                                                               Altrettanto inseribile nel classicismo moderno è la lirica “La Madre” di Ungaretti che fa parte della raccolta Sentimento del tempo, silloge in cui l’autore, dopo la stagione ermetica, non solo mostra di avere ritrovato la dimensione dell’Eterno, ma anche la metrica e lo stile tradizionale, infatti la poesia è costituita da cinque strofe di endecasillabi e settenari e vi domina un linguaggio caratterizzato da ricercata semplicità che si carica semanticamente attraverso un immediato analogismo, di significati metafisici. Lo stesso vale per l’alternarsi dei tempi verbali, nell’ambito dei quali, il presente è rilegato nell’atto dello scrivere e il futuro e il passato possono coesistere solo se quest’ultimo si espande in una prospettiva morale e ultraterrena.                                                                                                                                               Insomma, siamo di fronte ad una libertà analogica che si impreziosisce anche per Ungaretti di tradizione petrarchesca.

                                                                                                                   Francesca  Luzzio

 


TRA CONSENSO E DISSENSO: L’AMORE NEL MEDIOEVO

 

L’amore è uno dei temi fondamentali della letteratura di tutti i tempi.

Anche nel Medioevo,quando presso la maggior parte delle società del tempo, regna incontrastata una religiosità severa e la donna viene considerata quasi un’espressione demoniaca, non mancano i cantori dell’amore, anzi la civiltà cortese-cavalleresca trova in tale tema la sua essenza, definendo esso una “weltanschauung” , ossia un determinato modo di intendere e praticare la vita .

Il teorico per eccellenza dell’amore cortese è Andrea Cappellano, autore del trattato DE AMORE, in cui vengono fissati le norme e i canoni di tale concezione. Nonostante la condanna della chiesa che lo induce a ritrattare nel  terzo libro il contenuto dei due precedenti, l’opera ha un enorme successo, permeando profondamente la cultura aristocratica del Medioevo.

Se la caratteristica essenziale del cavaliere della chanson de geste è la prodezza, nota essenziale dell’ideale umanità dei cavalieri-poeti , detti trovatori (dal latino “tropare”: cercare e trovare versi e musica) è la giovinezza alacre e gioiosa,splendidamente liberale ,elegante e raffinata,amante della donna, dell’arte, della cultura; poi nel romanzo cortese queste due umanità vengono sapientemente fuse da Chrétien de Troyes.

La concezione dell’amore cortese si manifesta per la prima volta nel sud della Francia , in Provenza e la neonata lingua d’Oc è il suo strumento espressivo; da qui si diffonde nella tradizione lirica italiana ed europea..

Secondo tale concezione,  la donna è un essere sublime e irraggiungibile e l’amante si pone nei suoi confronti in una condizione di inferiorità: egli è un umile servitore ”obediens”alsuo“midons” (obbediente al suo signore). Tali termini adoperati  dall’ iniziatore della lirica cortese, Guglielmo IX d’Aquitania, diverranno elementi fondamentali di un linguaggio che esprime una dottrina dell’amore intesa come vassallaggio alla donna, come servizio feudale, come omaggio.

Nella sua totale dedizione, l’amante non chiede nulla in cambio,il suo amore è destinato a restare perennemente inappagato(“desamantz”), ma tale insoddisfazione  se da un lato genera sofferenza, dall’altro è anche gioia, una forma di pienezza vitale che ingentilisce l’animo, privandolo di ogni rozzezza e viltà. Amore si identifica con cortesia, e solo chi è cortese ama “finemente”, ma il”fin’amor”a sua volta rende ulteriormente cortesi e gentili(A. Cappellano, De Amore), sicchè si viene a istituire una concatenazione di causa-effetto che esclude ogni possibilità di appagamento fisico, poichè quest’ultimo determinerebbe un‘interruzione del processo di ingentilimento; tuttavia non bisogna pensare che si tratti di un amore del tutto platonico, infatti l’inappagabilità non esclude né la sensualità,considerato che l’ultimo momento della manifestazione dell’amore consente ”l’esag”,ossia l’ammissione dell’amante nudo alla presenza della donna , ma senza congiungersi con lei, nè un formale adulterio, visto che il rapporto si realizza rigorosamente al di fuori del vincolo coniugale, nel cui ambito,d’altra parte, si ritiene che non possa esistere”fin’amor”. La spiegazione di tale convinzione trova le sue radici nel carattere contrattuale del matrimonio di quell’epoca in cui ragioni dinastiche ed economiche prevalgono sui sentimenti. 

L’amore adultero implica da un lato il segreto, per tutelare l’onore della donna ed evitare”i lauzengiers”,ossia i malparlieri”( da qui l’uso del”senhal”,ossia di uno pseudonimo anziché del vero nome per rivolgersi all’amata), dall’altro un conflitto tra amore e religione,tra culto della donna e culto di Dio. L’amore cortese è quindi peccato per la chiesa e i trovatori vivono sinceramente il senso di colpa, al punto che  molti di loro negli ultimi anni di vita si ritirano in convento per espiare le loro colpe,ma se prescindiamo da tale leggenda, è significativo che il senso di colpa affiora anche nella produzione lirica provenzale e soprattutto italiana.

Dopo la crociata contro gli Albigesi,infatti molti trovatori trovano una nuova patria presso la corte di Federico II e la scuola poetica siciliana fa sua la concezione cortese dell’amore, per poi trasmetterla ai poeti di transizione,detti anche siculi-toscani e ,attraverso essi, al Dolce stil novo, ma nell’ambito di quest’ultima scuola ,grazie a Dante assistiamo alla sublimazione dell’amore e la donna diventerà tramite tra cielo e terra,angelo-guida verso la comprensione di valori metafisici.ed eterni.

Adesso cercheremo di esemplificare,attraverso versi di autori particolarmente significativi sia tale conflitto tra amore e religione, sia il conseguente senso di colpa che ne deriva.

Guglielmo IX di Aquitania conclude il suo canzoniere proprio con una” canzone di pentimento”in cui dichiara che non sarà più “obbediente”, cioè servente d’amore, non più sarà fedele vassallo ligio alla donna :”No serai mais obediens/ En Peitau ni en Lemozi”e, colto da rimorso per le sue colpe, ormai stanco, si chiude nell’ansia del poi e invoca il perdono di Dio nella coscienza della fine imminente.

Spirito possente e tenebroso è Marcabruno; moralista feroce, egli giudica e condanna con parole tremende,come animato da spirito profetico, la società cortese e, in special modo,  si erge a giudice del”fin’amors”.Marcabruno dice che”Amore è simile alla favilla che brucia sotto la cenere e brucia poi la trave e il tetto;….chi fa mercato con amore , fa patto con il diavolo….”. Parole altrettanto aspre dice contro le donne che “dolci in principio, poi diventano più amare e crudeli e cocenti dei serpi” ; e altrove aggiunge”Dio non mai perdoni a coloro che servono queste puttane ardenti, brucianti, peggiori ch’io non possa dire…che non guardano a ragione o a torto. 

Adesso, se prendiamo in considerazione la produzione letteraria della Scuola poetica siciliana constatiamo il persistere del senso del peccato e del conseguente rimorso,sì da indurre i poeti a giustificare le loro parole e i loro comportamenti.

  Iacopo da Lentini in un sonetto(forma metrica, molto probabilmente,da lui inventata) afferma:

“Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire/com’io potesse gire in paradiso/………Sanza mia donna non vorrai gire,/……ché sanza lei non poteria gaudere/ estando da la mia donna diviso./ Ma non lo dico a tale intendimento,/perch’io pec[c]ato ci volesse fare;/se non veder lo suo bel portamento/….chè lo mi terria in gran consolamento,/veg[g]endo la mia donna in ghioria stare.

I versi evidenziano una forte ambiguità tra amore terreno e amore celeste, anzi un vero conflitto: se in conformità all’ideologia cortese è normale dire che senza la propria donna non c’è gioia, affermare che la beatitudine paradisiaca è menomata senza la sua presenza è addirittura blasfemo.

Ciò induce il poeta a giustificarsi, pertanto precisa che non vuole la donna con sé in paradiso per commettere peccato, ma per trarne consolazione guardandola,visto che lei, considerata la sua bellezza, è degna di stare in “gloria”.Tuttavia tali giustificazioni non rinnegano il suo atteggiamento di fondo e nei versi conclusivi la contemplazione ipotetica della donna gloriosa finisce con il sostituirsi a quella di Dio. 

Questo conflitto investirà anche i poeti del Dolce stil novo e, a dimostrare tale asserzione ,basta prendere in considerazione quella che viene considerata la canzone manifesto del Dolce stile:”Al cor gentil rempaira sempre amore “ di Guido Guinizzelli. Nell’ultima stanza che funge da congedo, il padre degli Stilnovisti, rivolgendosi all’amata, immagina  un dialogo diretto con Dio per mezzo del quale non solo ripropone il motivo capitale della donna-angelo,già presente nella tradizione provenzale e siciliana , ma attua un’autocritica che rivela il solito conflitto amore-religione :

“Donna ,Deo mi dirà:<<Che presomisti?>>,/siando l’alma mia a lui davanti./<<Lo ciel passasti e’nfin a Me venisti/e desti in vano amor Me per semblanti/………….Dir Li porò:<<Tenne d’angel sembianza/che fosse del tuo regno;/ non me fu fallo,s’in lei posi amanza>>.

Dio quindi, rimprovera il poeta per essersi presentato dinanzi a lui indegnamente, dopo avere attribuito sembianze e poteri divini ad un peccaminoso amore terreno (è quanto il poeta fa nella strofe precedente).Guinizzelli si giustifica  elegantemente con una nuova lode alla donna: aveva l’aspetto di un angelo,perciò non era una colpa amarla. Tale conclusione viene considerata dal critico Contini,”uno spiritoso epigramma”; da Luperini “un’ ironica autocritica che difende e riafferma  il proprio errore”; da Baldi,”un’elusione del conflitto amore-religione attraverso un’iperbole squisitamente letteraria”,quale quella che identifica la donna con un angelo.

La metafora della donna-angelo è destinata a molta  fortuna presso gli Stilnovisti,ma è solo con Dante che essa esce dalla categoria degli attributi esornativi per acquisire una connotazione morale e metafisica.

La vicenda narrata nella Vita nova è possibile dividerla in tre parti: la prima tratta gli effetti che l’more produce sull’amante, la seconda propone le lodi di Beatrice, la terza la morte della donna.

La seconda parte è quella innovativa, perché il poeta, privato del saluto della gentilissima, comprende che la felicità deve nascere non da un appagamento esterno, ma dentro di lui, dalle parole dette in lode della sua donna,senza averne nulla in cambio,così l’amore diviene fine a se stesso e l’appagamento consiste nel contemplare e lodare la sua Beatrice “cosa venuta/ da cielo  in terra a miracolo mostrare” (Vita nova, Tanto gentile—-), cioè angelo che manifesta in terra la potenza divina. Come afferma C.Singleton, questa concezione dell’amore ripropone quella dell’amore mistico elaborata dai teologi medioevali, infatti alla visione cortese che considera l’amore una passione terrena che, pur  raffinata e sublimata attraverso la sua funzione, non elude mai del tutto il senso di colpa, si sostituisce una considerazione di tale sentimento quale aspetto dell’amore mistico, forza che muove l’universo e che innalza le creature sino a ricongiungersi a Dio. Insomma l’amore con Dante, afferma il Singleton, diviene un” itinerarium mentis in deum”.

 

 

                                                                                                            FRANCESCA LUZZIO

 


Fazzoletti bianchi 

 

Mio padre aveva in gabella due salme di terreno del barone ed era fortunato perché due salme erano molte  e, sebbene il barone tenesse per sé tre quarti del grano prodotto, comunque era fortunato, perché la quantità di terreno gli permetteva di portare a casa un bel po’ di grano e ad avere per noi pane per quasi tutto l’anno. Quasi, perché eravamo tre figli e quando “le annate”, come diceva papà, “erano scarse”, non bastava e poi.. non serviva solo il pane a casa…, così mamma per racimolare un po’ di soldi faceva la lavandaia.                                                                                                                                                      Poi…, poi ci fu un’epidemia terribile: la spagnola! La gente moriva numerosa e a nulla serviva starsene tappati in casa; non c’era neanche il tempo per celebrare a tutti i morti, regolari funerali. La spagnola si portò via anche i miei genitori e noi tre restammo soli e senza sostentamento. Passavano i giorni ed io tredicenne mi sentivo responsabile delle mie sorelle, più piccole di me.             A poco a poco finì anche il grano che avevamo in casa ed io ero disperato…, non sapevo come fare. Passavo notti insonni, non riuscivo a dormire: la fame e i pensieri mi facevano girare e rigirare nel letto; ero il più grande e maschio: dovevo provvedere io al loro mantenimento. Un giorno, seduto sui gradini della chiesa, piangevo, piangevo, quando passò una suora del convento attiguo e mi chiese: “Perché piangi così Peppinello, perché?” E le raccontai tutto, tra i singhiozzi che non riuscivo a controllare. Suor Angela mi abbracciò forte forte , poi insieme a lei andai a casa a prendere le mie sorelline e quel giorno fummo ospiti del convento. Mangiammo tanto quel giorno e in quelli successivi in cui continuammo ad essere ospiti delle suore. Ci sembrava di essere in Paradiso: non era mai successo che riempissimo in quel modo la pancia!                                                                                                                                                            Un giorno la suora si sedette accanto a me e mi disse :- Senti, Peppinello, perché non te ne vai in America, sai c’è tanta gente che ci va , così guadagni un po’ di soldi e poi…, magari…, quando tornerai ti potrai comprare un po’ di terra e potrai mantenere le tue sorelle che intanto, ti prometto, custodirò io, qui, in convento. Carmela e Sara sono brave bambine e impareranno tante cose. Fu così che Peppinello, pochi giorni dopo, con un piccolo fagottino sulle spalle, partì sul carretto insieme ad altri due compaesani per recarsi al porto di Palermo, da dove sarebbe partito il “bastimento”. Peppinello, appena arrivato, restò sbigottito: non aveva mai visto tante persone radunate insieme, ognuno con il suo fagotto o una vecchia valigia di cartone. E poi il mare…, il mare…, il bastimento…: era grande quanto il suo paese! Sgomento e attrazione, paura e speranza avvolgono il suo animo, mentre si muove incerto, mano nella mano, insieme a zio Nirè , uno dei suoi due compaesani, emigranti anche loro a New York.                                                                                                                                                 – Zio Nirè, che bello e grande il mare! Non finisce mai, si unisce con il cielo, guarda là!- -No , Peppinello, ma che dici, quello è l’orizzonte ! Sì, pare che si uniscono, ma non è vero, è che la terra è tonda! Poi capirai, poi capirai e vedrai, al di là c’è l’America. – Intanto a poco a poco, tutti cominciarono a salire le scale che condussero progressivamente sul bastimento. Poi Peppinello e tutti gli altri poveracci come lui furono invitati a scendere nella stiva, dove tantissimi, ammucchiati, come i sacchi pieni di grano del barone , se ne stavano stretti stretti, zitti, ognuno chiuso nei suoi mille pensieri… Anche Peppinello pensava alle sorelline, a mamma e papà che non c’erano più, alla fame che gli stritolava lo stomaco e gli faceva ingoiare saliva. ll bastimento intanto fischiava, fischiava…, cominciava a muoversi e andava… “ Chissà dove e chissà se mai tornerò!” Pensava Peppinello: “Addio terra mia, addio mamma e papà, addio Carmelina e Sara, sorelline mie, chissà se tornerò con tanti soldi e vi rivedrò belle e grandi ed io vi potrò fare la dote! E sorrideva e piangeva, piangeva e sorrideva e rivedeva i mille fazzoletti sventolare da su e da giù per salutare, ma non il suo: egli non aveva un fazzoletto, né qualcuno da salutare.

 

                                                                                                                                  Francesca Luzzio

                                                            (  Racc. pubblicato in EUTERPE, riv. dir. da L. spurio)


ITALIANO NON ITALIANO

     

Mi chiamo Mohamed, ho compiuto da poco sedici anni e frequento il secondo liceo classico.                                                                               I miei genitori, come molti, arrivarono in Sicilia da clandestini, dopo tante peripezie, non escluso il carcere in Libia, per sfuggire alla guerra e alla fame nel Sudan.                                                                                                  Poi, per fortuna, chiesero ed ottennero asilo politico e permesso di soggiorno. Io nacqui qui, due mesi dopo il loro arrivo, ma non sono cittadino italiano. Ricordo in modo evanescente la mia primissima infanzia, quando i miei abitavano in una casupola per metà in pietra e per metà in lamiera nella periferia nord di Palermo. Giocavo tra rovi, spazzatura e sporcizie di ogni genere, quasi sempre da solo; gli altri bambini che abitavano pure là, si allontanavano quando mi vedevano: c’era sempre qualcuno che diceva frasi di cui non capivo del tutto il significato e poi tutti andavano via.  Io non conoscevo bene il loro dialetto, perché stavo apprendendo un linguaggio strano, consistente in un miscuglio di sudanese, di italiano e di palermitano; i miei genitori erano anche loro in fase di apprendimento e parlavano il miscuglio linguistico che io da loro stavo imparando. – Amunì! A chinnu lassalu stari: ia nivuru e mancu sapi parrari.1 –                                                                            Espressioni come questa erano frequentemente  in bocca ai bambini del circondario, che, come me,  giocavano tra la spazzatura e con oggetti vecchi, rotti che proprio lì  avevano trovato, trasformandoli con esuberante fantasia infantile, in macchinine, aerei, cucine, bambole.                                                                                             I miei genitori con difficoltà trovarono un lavoro. Ricordo quando papà svolgeva attività occasionali e per sfamarci rovistava anche i cassonetti della spazzatura, vicini ai ristoranti, poi Allah ci aiutò e il lavoro finalmente lo trovarono. Furono le suore francescane  a procurarglielo presso un vecchio prete solo e ormai inabile, che aveva bisogno di persone che lo accudissero. Così mio padre divenne il suo autista e disbrigava tutte le faccende esterne, mamma puliva la sua bella casa e cucinava, io invece, divenni il suo allievo prediletto. Padre Gioacchino m’insegnò, si può dire, a parlare,  infatti fu grazie a lui che imparai presto l’italiano e il siciliano, con la consapevolezza che si tratta di due lingue diverse, ognuna con le sue regole. Egli mi parlava anche di religione e mi spiegava sia il Corano, sia il Vangelo, senza mai propormi di diventare cattolico.                                                                                                               – Mohamed, – mi diceva – chiamalo come vuoi, ma Lui c’è ed è amore, giustizia e vuole che anche gli uomini agiscano sempre con amore e giustizia. – Quando frequentavo la scuola elementare, volevo mettere in pratica i principi ed i valori che mi erano stati insegnati ed essere cordiale, affettuoso, disponibile con i miei compagni,  ma essi mi isolavano, anzi mi consideravano inesistente; nel migliore dei casi, mi deridevano ed ingiuriavano ed io con le ali tarpate, inoperante, me ne stavo seduto tutto solo, in silenzio. – Si nivuru comu la pici,ia inutili ca parri tuttu italianu, cu a maistra po’ iri d’accordu,ma cu nuatri no , picchi unu ca ia nivuru ia tintu e cretinu2                                                                                                                                                                          Questo è uno dei tanti discorsi che mi venivano fatti ed io inghiottivo il rospo, abbassavo il capo e soffrivo dentro, soffrivo, soffrivo; a volte con la saliva mi stropicciavo le braccia, nella speranza che il nero sparisse.                                                             Passavano gli anni, io ero molto bravo a scuola, ma sempre più introverso e solitario: trascorrevo ore seduto sul gradino del portone di casa a guardare l’azzurro del cielo, la strada, le case, le persone, a non pensare, immerso in un vuoto senza senso e senza nome.

1       – Andiamo! a quello lascialo stare : è nero e neanche sa parlare

2       – Sei nero come la pece, è inutile che dici tutto in italiano, con la maestra puoi andare d’accordo, ma con noi no, perché uno che è nero è cattivo e scemo.-

 Non so se definire tale condizione, astrazione dalla realtà,  visto che all’improvviso mi veniva sempre in mente un’idea risolutrice del mio problema: lavare il mio corpo nero con  un acido corrosivo, in modo da ustionarmi, perché, quando ci si brucia, poi la pelle nuova è sempre più chiara.                                                                                                                                         La decisione che costantemente prendevo in tali momenti, era per fortuna poi annullata dalla paura delle sofferenze che mi sarei procurato, dalla difficoltà di trovare i soldi per comprare l’acido e soprattutto dal pensiero che fosse peccato volere essere diversi da come Dio ha voluto  che ognuno di noi nascesse. Fu per quest’ultimo motivo che parlai della mia idea a Padre Gioacchino che rimase, a dir poco, esterrefatto dal mio proposito e mi disse:                                                                         – Figlio mio, il tuo è sì un peccato di pensiero, ma se tu lo mettessi in pratica potrebbe diventare un suicidio, perché potresti anche morire, secondo la gravità delle ustioni che ti procureresti.- Frequentavo la prima media quando comunicai la mia intenzione a Don Gioacchino, ma di fatto nutrivo tale pensiero da molto tempo. Progressivamente, comunque, mi ero convinto che realmente il colore della mia pelle mi rendesse  inferiore e, in quanto tale, era giusto che mi isolassero, che non volessero sedersi con me, anzi dovevo ringraziarli se mi facevano frequentare la loro stessa classe, d’altronde anche i miei genitori avevano contribuito nel far sorgere in me tale convinzione, infatti mi avevano detto che per lo Stato io non esistevo, appartenevo alla categoria degli Italiani non Italiani. Insomma, pur non comprendendo ancora appieno il significato delle loro parole, ho cominciato a convincermi  che per gli altri io non esistevo, o ero comunque inferiore, tipo… un ominide. Sì, un ominide ! E’ così che la professoressa di storia aveva chiamato la figura di un essere intermedio tra una scimmia e un uomo, quando ci spiegò l’evoluzione della specie umana. E Allah, Dio, chiamiamolo come vogliamo, perché mi aveva fatto ominide per gli altri inesistente?                           Presa la licenza media a pieni voti, ma sempre più convinto della mia inferiorità, non volevo proseguire gli studi, non volevo più vivere le umiliazioni che sinora ero stato costretto a subire nel frequentare la scuola. Ma Don Gioacchino non desistette e, a mia insaputa, indusse mio padre ad iscrivermi al liceo classico. Il prete ed i miei genitori speravano  che con il tempo io cambiassi idea, d’altronde se avessi lavorato durante l’estate, forse avrei capito meglio come la scuola avesse potuto essere un’occasione di riscatto. Fu così che durante l’estate cominciai a cercare lavoro, senza che nessuno mi contrastasse, anzi i miei dicevano che lavorare mi avrebbe fatto crescere. Nell’arco di tre mesi divenni prima cameriere in un bar, poi lavapiatti in un ristorante, ma ovunque ero sempre un negro.                                                                                                                                                             – Dillo al negro! -, – Quel figlio di puttana negra! -, – Mi fai schifo con le tue mani nere, mettiti i guanti! – Erano queste alcune delle frasi che talvolta mi sentivo ripetere, ma era normale che mi facessero questi elogi! Andavo a letto tardi e stanchissimo; quelle condizioni di vita erano davvero disumane e, nonostante l’abitudine a quel linguaggio offensivo, mi sentivo abbrutire sempre di più l’anima. Ormai non avevo più fiducia né nel genere umano, né in Allah, che ovviamente aveva altro da fare che pensare a un disgraziato come me, né io, ormai dubbioso della sua esistenza, lo disturbavo: non lo pregavo da tempo ormai.                                                                                                                                                                         – Mohamed , perché non vieni ?- mi chiese un giorno mia madre, mentre si stava preparando per andare in moschea. – Ma a che serve pregare, – le risposi, – esiste qualcuno al di sopra di noi? E poi quale Dio si può occupare di uomini che uomini non sono?- Mia madre cadde in una disperazione profonda e si mise a piangere forte ed ininterrottamente, sì da farlo sentire a don Gioacchino che, temendo qualche disgrazia, ci raggiunse accompagnato da mio padre .                                 Fu una serata lunga e piena di lunghi dialoghi, durante i quali io esplicai al prete tutte le conclusioni alle quali ero pervenuto. Egli rimase esterrefatto, ma a poco a poco riuscì a smontare molte delle false opinioni che mi ero creato e a far rinascere in me se non la fede, almeno il senso della mia dignità umana. La scuola ormai era cominciata da venti giorni, ma il prete parlò con il Preside e fui ammesso ugualmente alla frequenza. In classe, l’insegnante di matematica mi fece sedere nell’unico banco in cui era occupato solo un posto, accanto ad una ragazzina nera . I suoi occhi subito si illuminarono, le sue labbra si aprirono in un largo sorriso e mi disse :                                                                                                                                               – – Ciao, mi chiamo Fatima , ero stanca di non avere un compagno di banco con cui parlare. – Anch’io le sorrisi e le dissi il mio nome, ma con tanta amarezza nel cuore. Anche quest’anno occupiamo lo stesso banco, in fondo, come si dice in latino . . . ah sì, Similia similibus!                                                                Ed io e Fatima siamo simili: entrambi neri ed entrambi non Italiani veri. 

 

                   FRANCESCA LUZZIO

(Pubblicato in “ LICEALI – L’insegnante va a scuola-“ C.Ed. Genesi, Torino-2013)


Compito in classe

 

Riposa la mente, non penso

nell’insolito silenzio

di mille voci canore.

I banchi discosti per non copiare

la mia mente immersa in profondi 

pensieri intorno ai doveri.

Il fruscìo di una pagina di vocabolario

lo scorrere dell’occhio per trovare

la frase Marci Tulli Ciceronis, autore.

Ed io ora non penso

conto le antenne paraboliche

per divagare . . .

Sorrisi furtivi d’incipienti amori

allentano ogni tensione

e volano alte tante farfalle

battiti di ali, battiti di cuori

battiti di catulliana passione.

                                                                                                    

                                                                                                              Francesca  Luzzio

(Pubblicata in “ LICEALI – L’insegnante va a scuola-“ C.Ed. Genesi, Torino-2013)


Tutto regolare

 

Una palla cade e rimbomba

lassù, 

nel piano sovrastante della mente

ed emette un suono,

quale cadenza ritmica di tamburo

che si accorda appieno 

all’esecuzione musicale 

di quell’unico violino,

vento che s’infiltra e sibila

da quella porta senza cardini e freno

in perenne disarmonia con il piano…forte

dell’orologio murale.

Tutto insensato, tra scatoli di cartone 

pieni di ricordi, di lontane passioni…

 

Improvvisa suona una sirena:

torna tutto regolare

per necessità.

                                                        ( Cerchi ascensionali, Il Convivio ed. 2018)


 Metamorfosi  primaverile

                                                                                           Al nostro nascente amore

Corre la macchina…

 verso mete nuove e, 

 abbassato il vetro,

 stendo la mano

per acchiappare la brezza 

che viene dal mare.

 

L’azzurro del cielo

l’odore della ginestra in fiore

dicono che è maggio

e la natura rivive

di verde e colori.

 

Anch’io rivivo

metamorfosi strane:

colomba mi pare di volare

ape succhio il nettare dei fiori

giovane donna m’innamoro dell’amore.

 

Ti sorrido, mi sorridi,

mentre corriamo veloci

verso il nostro domani.

 

 

                                                                        Francesca Luzzio

 

                                                        ( Cerchi ascensionali, Il Convivio ed. 2018)