Maria Rosaria Leone

Poesie


Ventenne in vetrina

Mi hanno detto che passare le giornate a letto è sintomo di depressione, la gente ha sempre qualcosa da dire, un significato da attribuire ad ogni cavolo di movimento che compiamo.
Se adesso sono stesa sul mio letto e ho chiuso le finestre e tirato le tende per stare al buio è perché sono stanca, stanca di tutte queste voci che hanno il potere di ammatassarsi l’un l’altra nel mio cervello impedendomi di ragionare da sola.
Quando sei minorenne preghi il buon Dio che il tempo acceleri per arrivare ai fatidici diciotto anni e agguantare la tua indipendenza; quando sei maggiorenne questo famigerato Dio mostra il suo volto e ti fa una smorfia decidendo che è finalmente il momento di ascoltare il tuo desiderio, beffeggiandoti, e si diverte a premere continuamente sull’acceleratore per farti realizzare che ormai non hai più scuse per i tuoi errori e devi iniziare a prenderti le tue responsabilità e, cavolo, diventano sempre di più.
Forse ho sbagliato a prendermela con Dio, forse è la società a friggerci il cervello con i suoi “doveri” imposti, chissà, mi basta avere qualcuno su cui puntare il dito per un po’ piuttosto che continuare a puntarlo contro di me.
Se adesso mi sto stringendo il cuscino al petto non è perché non ho nessuno a cui chiedere conforto, è perché so che tutto ciò è l’ordine naturale delle cose e sento di essere io in torto a prendermela con la vita, quindi perché dovrei disturbare altri quando già so che sono io il problema?
I miei genitori mi dicono sempre di darmi da fare, che a vent’anni una volta già si avevano figli, un marito, una casa…mi chiedo come possano pensare che tutte queste cose possano essere percepite come sprono per darsi una mossa piuttosto che come un’accusa, «sei un fallimento», è questo il messaggio sottinteso che non hanno il coraggio di dire.
Ho provato a lavorare come cameriera svariate volte in più ristoranti e mi hanno pagata una miseria, avevo gl’occhi lucidi all’ennesima delusione e quando ho provato a sfogarmi con mia madre lei mi ha ricordato che c’è chi sta messo peggio, un’altra frase che ha efficacia zero se l’intento è quello di consolare una persona.
Non ho più voluto fare quel tipo di lavoro, ho deciso che mi sarei impegnata al massimo con lo studio sperando che, con la laurea in mano, avrei trovato qualcosa che mi permettesse di raggiungere la tanta agognata indipendenza, eppure mi sono beccata una ramanzina a causa di questa scelta perché «tanto nemmeno i laureati trovano lavoro» e quindi ho finito per sentirmi un parassita che fa buttare molti soldi ai suoi genitori.
Se il lavoro è un diritto (fattualmente, lo è? Non lo so più) significa che ho anche il grandissimo diritto di mandarvi tutti al diavolo e si, lo farò tramite quei famosi social che odiate tanto perché fra l’essere ignorati a quattr’occhi e l’essere ignorati su uno schermo non c’è quasi differenza, se non che, almeno, ricavo un cuoricino che mi dà l’illusione che per un attimo qualcuno mi ha ascoltata e non ottengo nessuna lamentela.
Se tutto quello che faccio produce un fallimento, che lo faccio a fare?
Figli, casa, marito…che ne so io di queste cose quando non so nemmeno se voglio muovermi da questo letto?
Sento mia madre bussare forte alla porta, la sento dire << stai su quel cavolo di telefono?? Perché non rispondi? >>, starà bussando da un bel po’.
Sarebbe facile risponderle che si, sono stata distratta dal cellulare, ci crederebbe subito, è molto più difficile pensare alla figlia che cerca di dare (a vuoto) un filo logico ai suoi pensieri insensati ed è così presa dalle sue congetture da non rendersi conto di essere chiamata.
È altrettanto più facile da parte di tutti gli adulti dare la colpa alla tecnologia piuttosto che dirsi che, forse, dire questa cosa è solo un altro modo per scaricare le colpe su altro invece di prendersi la responsabilità del nostro presente incasinato…anche se non me la sento di rigettare tutta questa frustrazione anche sui miei genitori, mi appesantiscono ma vogliono solo che la figlia sia forte.
Mi dico che non è giusto continuare a ignorare mia madre che, nel frattempo, sta continuando a bussare e a lamentarsi.
Allungo il braccio nel buio alla ricerca dell’interruttore della luce, con lentezza, quasi come se non fossi certa di voler illuminare la stanza e, quando lo faccio, stringo gl’occhi in fessure dovendomi abituare all’illuminazione improvvisa.
Una luce artificiale, che potere che hai, maledetta.
Ero più comoda nel mio buio.
Perfino una luce finta, mettendo in mostra l’ambiente circostante, ti riporta alla mente che hai cose da fare e non puoi sprecare una giornata a fermarti a riflettere, è tempo perso, tanto la realtà non cambia.
Avevo solo voglia di scomparire per qualche istante…forse sono davvero depressa come dicono, chissà, non lo voglio nemmeno sapere, starebbe solo a rimarcare che sono miseramente debole.
Devo essere forte perché è l’unica cosa che posso fare, stringere i denti, annullare qualunque debolezza, è l’unico modo per non essere un completo fallimento e rendere fieri i miei.
Mi alzo dal letto, mi avvicino alla porta e la apro.
«Scusami ma’, dì pure»

 


 

Distorsione odierna dello sport

Lo sport è considerato come un mezzo funzionale per incorporare valori e trarre insegnamenti importanti, quali: lo sforzo e il sacrifico portano a dei traguardi, la sconfitta, rielaborata, può portare ad un’analisi di sé profonda che può conseguire ad un miglioramento e ad una riscoperta della propria condizione e dei propri limiti, da abbattere con lo sforzo o da rispettare; il lavoro di squadra aiuta ad imparare ad approcciarsi con le persone, a collaborare, a rispettare l’altro…si potrebbe parlare all’infinito.
Da educatrice sociale, trovo che lo sport sia un mezzo eccezionale per adempire ad una crescita personale e “capisco” (e di virgolette ce ne vorrebbero cento) perché, in questo ultimo periodo, viene visto come strumento capace di -passatemi il termine dato che voglio essere schietta al cento per cento- raddrizzare una generazione che appare arida rispetto a quelle passate.

A priori da ogni finalità, giudicabile o meno, io, giovane d’oggi, penso che sarebbe giusto invogliare di più (ripeto: invogliare; costringere servirebbe solo a creare repulsione) le persone, di ogni età, a praticare uno sport, perché una cosa è certa: restituisce energia, e, a mio parere, ritrovare energia è una priorità assoluta.
Ora, tutto ciò che ho detto tiene conto dello sport in una forma pura, ad un’attività che si attua per farsi del bene, il problema è quando questa dimensione si va ad intercalare nell’ambiente, ma andiamo per gradi, racconterò la mia esperienza personale per far capire a cosa alludo.
Con lo sport ho avuta molta “sfiga”, o meglio, voglio definirla in questo modo per non puntare il dito in una maniera così diretta dato che la mia esperienza non rappresenta quella di tutti ma, da ciò che racconterò, chi vorrà capirà da cosa nasce il mio senso di esasperazione.
In questo mondo un po’ triste nemmeno lo sport mi sembra reggere più, unicamente, un senso così profondo.
Stringo la palla da volley consapevole che non ne otterrò mai niente dato che non sono la migliore, l’opportunità di imparare me la daranno delle lezioni online che, fattualmente, servono a ben poco quando non hai uno spazio dove allenarti e un confronto con l’altro.
Le associazioni nelle mie zone mi hanno fatto capire che c’è un’età limite entro cui puoi deciderti a giocare, ovviamente prima vai e meglio è così ti possono rendere la perfetta macchina su cui guadagnare.
La sensazione di essere solo questo mi ha spinto ad andarmene più volte, per esempio: quando ho deciso di giocare a basket ci è stato detto che avremmo partecipato a delle competizioni dopo aver formato la squadra da due settimane scarse, non abbiamo nemmeno avuto il tempo di apprendere le basi e, andando a giocare partite contro ragazze che si allenavano già da tempo, abbiamo collezionato sconfitte su sconfitte; il problema non è stato perdere, il problema è stata la vergogna provata anche solo a mettere piede in un campo con cui non avevo confidenza e con ragazze che conoscevo a stento, queste condizioni non hanno fatto altro che creare un forte stato di tensione. 
Solo dopo sono venuta a sapere che le parole del coach, che ci ha spronate a partecipare perché a detta sua si impara molto di più sul campo, sono state frasi vere solo a metà: la motivazione reale è stata che se noi non avessimo partecipato non avrebbero potuto farlo nemmeno le ragazze più grandi di noi, con anni di allenamento.
Siamo diventate unicamente degli strumenti, non è importato a nessuno se quella situazione ci ha causato solo disagio.
O ancora: a sedici anni ho deciso di provare ad iscrivermi a dei corsi di pallavolo, sport che ho sempre amato grazie a mio padre dato che, nel pochissimo tempo che abbiamo a disposizione per stare insieme, ci abbiamo giocato e ci siamo divertiti tanto; chissà, forse ci tenevo a diventare brava anche per impressionare lui.
Ora, il problema è stato questo: avevo sedici anni, avevo GIÀ sedici anni.
Le uniche due associazioni presenti nel mio paese allenavano solo ragazze che si trovavano lì da anni ed erano arrivate ad un certo livello, non c’era spazio per ragazze nuove.
Una delle due associazioni mi ha dato l’opportunità di fare una prova fatta appositamente -certo, come no- per darmi modo di capire se mi sarebbe potuto piacere l’ambiente circostante.
Il riscaldamento l’ho fatto insieme alle ragazze lì presenti ed è stata un momento carico di disagio perché, nonostante l’impegno messo a reggere il loro ritmo, il mio sforzo maggiore rispetto al loro per concludere la sessione è stato evidente.
Il momento peggiore è stato l’allenamento vero e proprio: dato che la REALE motivazione di quell’incontro è stato testare il mio livello per capire se potessi essere un nuovo gioiello grezzo, mi hanno messa in mezzo al campo, da sola, con gl’occhi attenti di tutte le altre ragazze su di me, a dover dimostrare la mia abilità in gioco, mentre il coach mi chiedeva di eseguire azioni come schiacciare, fare un bagher, passare…
In realtà, tutto sommato, pur essendo al di sotto dello standard della squadra me la sono cavata bene e il coach è stato chiaro nel dire che ci si poteva lavorare ma a quel punto mi è stato evidente che quello non era l’ambiente adatto a me.
Il punto è questo: l’interesse verso il guadagno ha monopolizzato -in parte- anche lo sport.
Per fortuna non sempre e non ovunque, ma è una realtà presente quella che indica ormai lo sport come una possibile fonte di guadagno e ci si può imbattere sempre più spesso in organizzazioni che, invece di pensare a questa attività come una fonte di bene per il prossimo, si strutturano per accogliere coloro che dovranno battere ogni traguardo, a spese di chi, invece, è alla ricerca di qualcosa che possa far diventare le giornate un po’ più colorate, cosa che ormai sembra apparire per molti una bambinata dato che il benessere mentale delle persone sembra un fattore dimenticato da molti, o peggio, ignorato.
Se dovesse essere realtà concreta l’affermazione che indica che ci sono esponenti che vogliono utilizzare l’attività sportiva come mezzo educativo in modo ancora più radicale, non sarò io a dire che è sbagliato, nonostante ciò, ritengo che sia necessario tenere presente qual è la reale finalità dello sport e creare più opportunità per dare spazio reale a tutti di affacciarsi a questo mondo; sarebbe quasi il caso di ricordare la massima che ci dice «l’importante non è vincere, è partecipare», ma se non è data l’opportunità di partecipare, cosa resta?
Per “raddrizzare” i soggetti c’è prima bisogno di “raddrizzare” gli strumenti!

 


 

L’odierna generazione mette in critica

Ho la testa sospesa nella nebbia fra confini che si toccano ma sono divisi,
perché il tempo cambia i mondi
e le storie non combaciano più.

Cosa appartiene ancora a quel tempo andato?
Cosa viene adesso?

A ventiquattro anni non ne capisco niente della rabbia circostante,
le parole dure dei più grandi
le stringo fra le mani e le trasformo in pietra
che prima tenevo sulle spalle,
adesso non ne scrollo l’intero ma una parta le tiro al mittente

perché non è colpa mia,
non è colpa mia se è svanito il sentimento,
non è colpa mia se sono svanite le passioni
o gli ideali, quelli chissà, presenti e condivisi ma non se ne fan niente.

Che fine hanno fatto gli antichi valori non lo saprò dire giacché non li ho vissuti sulla pelle,
ma chi l’ha fatto,
cos’ha portato?

Se il poeta viene ignorato,
se l’artista non viene più gratificato,
se l’artigiano rischia di scomparire,
chi si deve incolpare?

E se i soldi son diventati il motore del presente,
cosa resta a me se non un’ansia costante?

Se il mio presente è il conseguente del nostro passato,
chi ci ha lasciato questa amara realtà?